Rozprawy doktorskie na temat „B-060”
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SIMONETTI, GIORGIA. "B lymphoid malignancies: insights from mouse models". Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano-Bicocca, 2012. http://hdl.handle.net/10281/30033.
Pełny tekst źródłaTrimarco, Valentina. "Role of Nocodazole on the survival of chronic lymphocytic leukemia B cells". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2012. http://hdl.handle.net/11577/3422967.
Pełny tekst źródłaLa Leucemia Linfatica Cronica di tipo B (LLC-B) è la forma più comune di leucemia nell’adulto ed è caratterizzata dall’accumulo clonale di piccoli linfociti B CD19+/CD5+/CD23+, dovuto sia ad una crescita incontrollata che ad una resistenza all’apoptosi. Le cellule leucemiche di LLC-B presentano inoltre alcune anomalie, come ridotta capacità di legare specifiche molecole e suscettibilità a farmaci che distruggono i microtubuli, che indicano la presenza di alterazioni a livello citoscheletrico. Il ruolo cruciale che i microtubuli rivestono nelle funzioni vitali delle cellule neoplastiche, quali mitosi, motilità e contatti cellula-cellula, li ha resi un importante target nelle terapie anti-tumorali. In particolar modo la tubulina, componente dei microtubuli, è il bersaglio di una categoria specifica di farmaci anti-tumorali, gli inibitori dei microtubuli; di questa famiglia fa parte anche il nocodazolo, un agente sintetico che induce la depolimerizzazione della tubulina, arresta il processo mitotico ed ha una peculiare specificità nell’indurre l’apoptosi nelle cellule B di LLC-B. Sulla base di queste considerazioni, abbiamo voluto approfondire gli effetti ed il meccanismo d’azione del nocodazolo sulle cellule di LLC-B. Dopo aver verificato che il nocodazolo sia effettivamente responsabile della depolimerizzazione dei filamenti di tubulina citoscheletrica in numerosi tipi cellulari, abbiamo valutato l’effetto apoptotico indotto dal nocodazolo in cellule B normali e di LLC-B, in linee cellulari (Jurkat, Raji e K562), in cellule stromali mesenchimali (MSC) e nei linfociti T residui di pazienti affetti da LLC-B. I risultati ottenuti evidenziano l’estrema selettività del nocodazolo nell’indurre l’apoptosi nelle sole cellule B di LLC-B (linfociti B di LLC-B: 57±25% vs B normali: 98±6%, p<0,0001; dati espressi come media±deviazione standard (DS) della percentuale di cellule vive dopo trattamento con nocodazolo) e l’assenza di tossicità nei confronti delle altre popolazioni cellulari prese in esame. Studi recenti suggeriscono che il microambiente midollare, in cui si trovano anche le MSC, sia in grado di proteggere le cellule leucemiche dall’azione dei farmaci chemioterapici convenzionali. La co-coltura di MSC e cellule B di LLC-B in presenza di nocodazolo ha dimostrato che tale inibitore è in grado di annullare l'effetto protettivo esercitato dalle MSC, nonostante la presenza di segnali di sopravvivenza quali CD40L o plasma ricavato dagli stessi pazienti. I meccanismi d’azione del nocodazolo rimangono ancora da chiarire, tuttavia abbiamo osservato come nelle cellule leucemiche di LLC-B il nocodazolo sia in grado di ridurre l’aumentata fosforilazione tirosinica basale mediata dalla Src-chinasi Lyn, mediante down-regolazione del sito attivatorio di Lyn. Dal momento che abbiamo dimostrato che l’inibizione specifica di Lyn induce apoptosi nelle cellule di LLC-B, questi primi risultati diventano rilevanti e dovranno essere ulteriormente indagati. In conclusione, i risultati ottenuti in questo studio hanno evidenziato l’estrema selettività del nocodazolo nell’indurre apoptosi nei linfociti B leucemici, l’assenza di tossicità in vitro e la capacità di contrastare l’effetto protettivo fornito dal microambiente midollare, suggerendo un futuro ruolo di questa sostanza quale possibile agente terapeutico per la cura della LLC-B.
Mandato, Elisa. "Protein kinase CK2 in diffuse large b-cell lymphoma: defining its role to shape new therapies". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2016. http://hdl.handle.net/11577/3424401.
Pełny tekst źródłaCK2 è una Ser/Thr chinasi altamente conservata dal punto di vista evolutivo, costituita da due subunità catalitiche (a) e due subunità regolatorie (b) unite a formare un tetramero. Essa è coinvolta in numerosi processi cellulari, tra cui sopravvivenza, proliferazione, differenziamento, risposta al danno al DNA e ad altri stress, portando in definitiva all’attivazione di specifici fattori di trascrizione, come c-Myc ed NF-kB. Questa chinasi è stata trovata sovrespressa in svariati tumori solidi e neoplasie ematologiche, portando ad una correlazione tra alti livelli di CK2 e prognosi sfavorevole. È stato ampiamente dimostrato che CK2 agisce come un potente fattore antiapoptotico nelle cellule tumorali, promuovendo un meccanismo definito “non-oncogene addiction”. In altre parole, l’overespressione e l’aumento dell’attività catalitica dell’enzima contribuiscono notevolmente a creare un ambiente intracellulare favorevole allo sviluppo e al consolidamento di un fenotipo neoplastico. In particolare, è stato recentemente dimostrato che molte neoplasie, derivate dalla trasformazione maligna dei linfociti B, come il mieloma multiplo, il linfoma mantellare e la leucemia linfatica cronica, dipendono da un’aumentata attività di CK2 per il loro mantenimento; infatti, una sua inibizione è in grado di indurre apoptosi cellulare. Il linfoma diffuso a grandi cellule (DLBCL) è una neoplasia di tipo aggressivo derivata dalla trasformazione dei linfociti B nel follicolo ed è il tipo più comune di linfoma non-Hodgkin, rappresentando circa il 40% di tutti i casi. È suddiviso in due sottotipi: uno di derivazione da cellule B del centro germinativo (GCB), l’altro di derivazione da cellule B post centro germinativo (ABC), che sono caratterizzati da differenti alterazioni genetiche e, di conseguenza, da una differente risposta alla terapia. Fino a un terzo dei pazienti non raggiunge la cura con la terapia iniziale e sviluppa una malattia refrattaria o ricade. Il trattamento di salvataggio standard per questi pazienti è il trapianto autologo di cellule staminali, ma il tasso di successo è scarso e la maggior parte di essi non sopravvive alla malattia, dimostrando chiaramente la necessità di nuove terapie di combinazione. È risaputo che il segnale generato dal recettore dell’antigene B (BCR) è in grado di influenzare il differenziamento del linfocita B nella milza e la sua sopravvivenza a livello periferico. In seguito al legame del recettore da parte dell’antigene, il segnale viene trasmesso attraverso la membrana plasmatica e propagato all’interno tramite un gruppo di proteine intracellulari, che si combinano a formare un complesso denominato signalosoma. Tra queste proteine figurano le tirosin chinasi SYK e BTK, la fosfolipasi PLCg2 e l’adattatore BLNK. Una volta attivata da SYK, BTK è in grado di fosforilare PLCg2, che, a sua volta, genera IP3, il quale induce il rilascio di Ca++ dal reticolo endoplasmatico. Il Ca++ agisce nel citoplasma come secondo messaggero, interagendo con varie proteine Ca++-dipendenti, che attivano fattori di trascrizione, come NFAT e NF-kB, modificando, in tal modo, l'espressione genica. Il risultato di questo processo consiste in attivazione, espansione, presentazione dell’antigene e differenziamento del linfocita B. Non sorprende, perciò, che gli inibitori della cascata del segnale del BCR abbiano dimostrato risultati terapeutici promettenti in pazienti con linfomi di tipo B. In questo lavoro di tesi si evidenzia che le subunità a e b di CK2 sono sovrespresse sia in campioni primari, che in linee cellulari immortalizzate di ABC- e GCB-DLBCL, rispetto alle controparti non neoplastiche. Inoltre, si dimostra che l'inibizione di CK2 con CX-4945, un inibitore di CK2 attualmente in trial clinici, provoca l'apoptosi di linee cellulari di DLBCL in maniera dose e tempo dipendente e che l'aumento della morte delle cellule neoplastiche è significativa anche alle dosi di farmaco che non uccidono le cellule normali. Inoltre, l’abbassamento dell’attività catalitica di CK2 porta ad una riduzione del Ca++ rilasciato dal reticolo endoplasmatico, e compromette la fosforilazione di AKT e NF-kB RELA, in seguito a stimolazione del BCR. Questi risultati propongono un ruolo per CK2 a valle del BCR, nel controllo di vie del segnale pro sopravvivenza centrali per il linfocita B. Infine, si evidenzia che il CX-4945 sinergizza con inibitori di chinasi essenziali per la propagazione del segnale del BCR, quali SYK e BTK, provando che questa combinazione di farmaci aumenta la morte delle cellule linfomatose e può considerarsi un’efficace strategia terapeutica.
Martini, Veronica. "ESPRESSIONE DELLA CORTACTINA E SUO COINVOLGIMENTO NELL'AGGRESSIVITA' DELLA LEUCEMIA LINFATICA CRONICA B". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2011. http://hdl.handle.net/11577/3421601.
Pełny tekst źródłaLa leucemia linfatica cronica di tipo B (LLC-B) è la forma più comune di leucemia dell’adulto ed è caratterizzata dall’accumulo clonale di piccoli linfociti B CD5+ dovuto sia ad una crescita incontrollata che ad una resistenza all’apoptosi. Un ruolo importante nella sopravvivenza dei linfociti B leucemici è giocato dalla chinasi Lyn. Qualche anno fa abbiamo dimostrato che la Src chinasi Lyn è sovraespressa, costitutivamente attiva e distribuita in maniera anomala nelle cellule B neoplastiche rispetto ai linfociti B normali. Considerato che uno dei suoi substrati, la proteina HS1, si trova sovraespressa e coinvolta nella sopravvivenza del clone neoplastico, abbiamo focalizzato l’attenzione su un altro putativo substrato di Lyn: la proteina cortactina poiché omologa di HS1 e sovraespressa in diversi tumori. Mediante western blotting e real-time RT-PCR in questo studio abbiamo dimostrato che i linfociti B leucemici esprimono una maggiore quantità di cortactina rispetto ai linfociti B di soggetti sani. Correlando i dati di espressione con uno dei fattori prognostici più importanti della LLC-B, la presenza o assenza di ipermutazioni somatiche (SHM), abbiamo evidenziato che i livelli di espressione della cortactina sono più elevati in pazienti a prognosi sfavorevole (SHM-) rispetto a quelli a prognosi favorevole (SHM+). Inoltre, abbiamo dimostrato che nei linfociti B neoplastici la sovraespressione della cortactina correla sia con l’indice di migrazione cellulare (IdM) che con la produzione della metalloproteasi di matrice 9 (MMP-9), suggerendo come nei pazienti con LLC-B la cortactina possa essere in qualche modo coinvolta nel processo di invasione dei linfonodi e della milza. Come riportato in letteratura, la cortactina può influenzare la migrazione cellulare non solo attraverso la sua sovraespressione, ma anche mediante l’espressione di diverse varianti di splicing. Il nostro studio ha evidenziato che nei linfociti B normali è presente solo la variante di splicing SV1, mentre nei linfociti B di circa il 50% dei nostri pazienti è maggiormente espressa quella WT. Poiché è noto in letteratura che la variante WT rende alcuni tipi di cellule tumorali più aggressivi e mobili, si potrebbe pensare che l’espressione di tale isoforma abbia un ruolo rilevante nella diffusione della LLC-B. In conclusione, i dati finora ottenuti convergono tutti nell’affermare un ruolo negativo della cortactina nel decorso clinico della leucemia linfatica cronica di tipo B, suggerendo, quindi, che la cortactina possa essere coinvolta nella patogenesi della LLC-B.
Macaccaro, Paolo. "Immunophenotypic characterization of B-lymphopoiesis in KO mice for oncogenic Ser / Thr kinases by multiparameter flow cytometry". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2017. http://hdl.handle.net/11577/3422901.
Pełny tekst źródłaProtein kinase CK2 and CK1 are a pleiotropic and evolutionary conserved serin-threonin kinase that is involved in several cellular processes. A number of studies revealed many mechanisms through which this kinase regulates cell cycle, apoptosis, cell survival and tumorigenesis. CK2 participates in many developmental pathways, of which particularly relevant for hemo-lymphopoiesis are those dependent on Hedgehog, NF-κB and STAT3, which regulate cell differentiation, proliferation, self-renewal as well as lineage choice commitment.. CK1 regulates also molecular pathways which are important for multiple myeloma plasma cells survival, like WNT/β-catenin pathway and PI3K/AKT pathway. However, despite all this data, little is known about the role of CK2 and CK1 in B-lymphopoiesis and lymphomagenesis. To elucidate the physiological and pathogenetic role of CK2 and CK1 in B-lymphocytes, we generated B cell specific conditional KO mice, were we studied the effects of deletion during normal B cell development with multiparameter flow cytometry analysis. In the bone marrow (BM), CK2β KO mice displayed a reduction of B cells, especially of the recirculating population of transitional and follicular (FO) B-cells. In peripheral blood and spleen the number of B-cells was markedly reduced. In the spleen of CK2β KO we observed an imbalance between the amount of FO and marginal zone (MZ) B-cells was found with an absolute reduction of FO B cells by approximately 2-folds and an increase of MZ B-cells and MZB cell precursors by up to three folds.. In vitro class-switch recombination assays demonstrated impairment in IgG1 and IgG3 class-switch and a marked reduction of the generation of antibody-producing cells. In CK1 KO mice we observed the totally absence of mature B cells and the presence of early precursors B cells. CK1 HET mice showed a reduction of B cells in bone marrow and an light imbalance of FO B cells an MZB cells in spleen. In vitro class-switch recombination assays doesn’t showed significant difference between HET and CTRL mice in IgG1 and IgG3 class-switch. Here, we found that the β subunit of protein kinase CK2 is a novel regulator of peripheral B cell differentiation. CK2β has a role in regulation of the GC reaction and in homeostasis of FOB and MZB cells. Furthermore we found that CK1 has a pivotal role in early B cells development. On one side our data enrich the knowledge on the mechanisms regulating B-cell development, on the other side they inform about the potential mechanisms altered by CK2 and CK1 during B-cell tumorigenesis.
LORENZO, GARCIA MARIA MERCEDES. "SUBSTITUENT-DEPENDENT STEREOSELECTIVE SYNTHESIS OF HEXA-FUNCTIONALISED BORAZINES". Doctoral thesis, Università degli Studi di Trieste, 2017. http://hdl.handle.net/11368/2908171.
Pełny tekst źródłaAve, Elisa. "Le cellule mesenchimali staminali nella patogenesi della leucemia linfatica cronica di tipo B". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2010. http://hdl.handle.net/11577/3427362.
Pełny tekst źródłaLa leucemia linfatica cronica di tipo B (LLC-B) è la forma più comune di leucemia nell’adulto ed è caratterizzata dall'accumulo clonale di piccoli linfociti B CD5+ nel sangue periferico, nel midollo osseo e negli organi linfatici, dovuto sia ad un aumento della proliferazione che ad un difetto dei meccanismi di morte cellulare programmata. La resistenza all’apoptosi in questi linfociti favorisce la progressione della malattia attraverso un’aumentata sopravvivenza del clone neoplastico e l’induzione della resistenza ai farmaci citostatici. Tali alterazioni sono imputabili sia a fattori intrinseci che a fattori estrinseci derivanti dal microambiente. Poiché l’aumentata sopravvivenza ed il progressivo accumulo del clone linfocitario risultano selettivamente favoriti dall'interazione con cellule accessorie non tumorali presenti nel microambiente in cui esso risiede, in questa tesi abbiamo focalizzato l’attenzione sulle cellule mesenchimali staminali (MSC), allo scopo di valutare il loro ruolo nella sopravvivenza e nella compartimentalizzazione del clone B leucemico. Le MSC costituiscono una frazione esigua (inferiore allo 0,01%) della popolazione di cellule midollari, sono cellule staminali multipotenti in grado di differenziare in diversi tessuti di origine mesenchimale; sono inoltre dotate di proprietà immunomodulatorie verso linfociti B, T, Natural Killer e cellule dendritiche. In questa tesi le MSC sono state isolate dal sangue midollare di 47 pazienti affetti da LLC-B e sono state caratterizzate fenotipicamente e funzionalmente mediante analisi citofluorimetrica (positività per CD73, CD90 e CD105, negatività per CD31, CD34 e CD45) e colture differenziative (adipociti ed osteociti) confrontandole con MSC di donatori sani. Successivamente si sono allestite co-colture di linfociti B di pazienti affetti da LLC e MSC allo scopo di valutare l’effetto delle MSC sul clone neoplastico di LLC. Le MSC ottenute dai pazienti non hanno presentato alterazioni dal punto di vista fenotipico né funzionale rispetto alle MSC di donatori sani, tuttavia esse hanno sviluppato interazioni capaci di favorire la sopravvivenza del clone leucemico. Gli esperimenti di co-coltura hanno dimostrato infatti che le MSC esercitano un effetto anti-apoptotico sui linfociti B neoplastici, documentato da un aumento significativo della sopravvivenza delle cellule B di LLC dopo 7 giorni di coltura, effetto verificatosi anche con MSC di donatori sani e invece molto meno marcato nei linfociti B normali. Tale attività anti-apoptotica si è osservata, seppur di minore intensità, anche nei linfociti B di pazienti sottoposti a trattamento chemioterapico in vivo con Fludabarina e Ciclofosfamide, suggerendo che le MSC possano essere implicate anche nei meccanismi di chemio resistenza del clone di LLC. Infine l’analisi della migrazione cellulare dei linfociti B patologici in presenza di terreno condizionato derivante dalle colture di MSC ha dimostrato la capacità delle MSC di produrre stimoli chemiotattici in grado di richiamare in sede midollare il clone maligno, ma non i linfociti B normali. I dati riportati suggeriscono che le MSC nei pazienti affetti da LLC-B, sebbene non mostrino alterazioni dal punto di vista fenotipico e funzionale, svolgono un ruolo attivo nel favorire la sopravvivenza e la compartimentalizzazione delle cellule B neoplastiche a livello midollare.
Boscaro, Elisa. "Fattori prognostici nella leucemia linfatica cronica di tipo B". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2010. http://hdl.handle.net/11577/3427364.
Pełny tekst źródłaLa leucemia linfatica cronica di tipo B (LLC-B) è la forma più comune di leucemia dell'adulto ed è caratterizzata dall’accumulo nel sangue periferico, nel midollo osseo e negli organi linfatici di piccoli linfociti B monoclonali esprimenti il marcatore CD5. È una patologia eterogenea, la cui evoluzione varia da un decorso clinico indolente, che non necessita di alcuna terapia, ad una rapida progressione che richiede un trattamento. L’identificazione di fattori che permettano di stratificare pazienti a prognosi differente fin dalle fasi iniziali della malattia è uno dei principali obiettivi degli studi riguardanti la LLC-B. Negli anni sono stati definiti fattori di prognosi classici (il tempo di raddoppiamento linfocitario, l’infiltrazione del midollo osseo, la percentuale di prolinfociti, i livelli di β2 microglobulina, di timidina chinasi e di CD23 solubile), e, più recentemente, fattori prognostici correlati a caratteristiche molecolari del clone leucemico, tra i quali la presenza di alterazioni citogenetiche, lo stato mutazionale dei geni della catena pesante delle immunoglobuline (SHM), l’espressione dell’enzima telomerasi e di molecole quali CD38 e ZAP-70. Un possibile fattore prognostico, ancora in fase di valutazione, è infine il leucocyte-associated Ig-like receptor-1 (LAIR-1 o CD305), un recettore inibitorio, espresso sulla superficie delle cellule B, che può indurre la defosforilazione di diverse chinasi. Il progetto di ricerca sviluppato nei tre anni di dottorato mirava a definire il valore di alcuni fattori prognostici di recente definizione (CD38, CD305, ZAP-70 e SHM) e le possibili correlazioni esistenti tra essi. In particolare, poiché le modalità di determinazione dell’espressione della chinasi ZAP-70 sono oggetto di discussione a livello internazionale, una parte rilevante del triennio di questo dottorato di ricerca è stata dedicata alla valutazione ed alla comparazione di diversi metodi sperimentali, al fine di identificare un procedimento affidabile e ripetibile per la quantificazione di questa proteina. L’individuazione di un metodo affidabile e riproducibile per l’analisi di ZAP-70 mediante analisi citofluorimetrica ha portato alla scelta del metodo raziometrico, che valuta l’intensità media di fluorescenza di ZAP-70 nei linfociti B patologici in rapporto all’intensità media di fluorescenza della proteina nei linfociti T. Il metodo si è rivelato infatti più indipendente dall’operatore rispetto alle altre metodiche analizzate. Una volta stabilito il metodo più appropriato, abbiamo adeguato la metodica alla strumentazione del nostro laboratorio di Ematologia e Immunologia Clinica. Abbiamo quindi stabilito il valore soglia che meglio distingueva tra pazienti positivi e negativi e che ci permetteva di ottenere le maggiori specificità e sensibilità e abbiamo infine confrontato i dati ottenuti dall’utilizzo di diversi anticorpi monoclonali in grado di riconoscere la proteina ZAP-70 dimostrando che i due anticorpi che davano risultati maggiormente riproducibili e più simili tra loro erano l’anticorpo anti-ZAP70 Alexa Fluor 488, Caltag Laboratories e l’anticorpo anti-ZAP70 FITC, Upstate cell signaling solution. Per quanto riguarda gli altri fattori prognostici esaminati, abbiamo innanzitutto confermano il ruolo prognostico delle SHM nei 247 pazienti da noi analizzati e afferenti all’Unità operativa di Ematologia e Immunologia Clinica. Infatti il valore medio di sopravvivenza globale per i pazienti con SHM≥2% rispetto alle sequenze germline è risultato pari a 260 mesi e 99 mesi rispettivamente (p<0,001). La valutazione del repertorio VH ha evidenziato una prevalente espressione della famiglia VH3 (58% del campione). Le altre famiglie VH più rappresentate erano la famiglia VH1 (18% del campione) e VH4 (18%). L’espressione della famiglia VH1, era associata ad un’elevata probabilità di avere uno stato mutazionale <2% delle IgVH (58%). L’espressione della famiglia VH4, invece, si associa ad uno stato mutato (≥2%) delle IgVH (67%) e ad una sopravvivenza globale media di 220 mesi, significativamente superiore rispetto alla media dell’intero campione (p<0,001). Anche CD38 e ZAP-70 hanno dimostrato un ruolo prognostico importante: la sopravvivenza globale media per i pazienti CD38 positivi e negativi era pari rispettivamente a 123 mesi e 250 mesi (p=0,002); la sopravvivenza globale media per i pazienti ZAP-70 positivi e negativi era pari a 135 e 220 mesi (p=0,009). Lo studio dell’espressione di LAIR-1 ha dimostrato che questo recettore è espresso mediamente in quantità minore (41%±32) rispetto ai soggetti sani (84%±1), ed in particolare i pazienti ad alto rischio (stadio 3 e 4) avevano un’espressione minore della proteina rispetto al gruppo a minor rischio (stadio 0-2). Abbiamo valutato l’esistenza di correlazioni tra i diversi fattori prognostici. Abbiamo così rilevato una correlazione statisticamente significativa tra l’espressione di CD38 e l’assenza di ipermutazioni somatiche (p<0,01). Analogamente, abbiamo osservato una correlazione tra la positività di espressione di ZAP-70 e la mancanza di SHM (p<0,05). Per quanto riguarda LAIR-1, il recettore risulta espresso in quantità minore sia nei pazienti con SHM<2% sia in quelli CD38 positivi, mentre non è emersa alcuna differenza quando si sono considerati i pazienti per l’espressione di ZAP-70. I risultati ottenuti confermano l’efficacia dei fattori prognostici innovativi nel predire fin dal momento della diagnosi il possibile decorso clinico della malattia. Lo stato mutazionale rimane il fattore prognostico di riferimento e attualmente non sostituibile. Per quanto riguarda la proteina ZAP-70, promettente per la praticità e la rapidità della metodica impiegata per la sua valutazione, va sottolineato che ogni laboratorio deve standardizzare la metodica adeguandola agli strumenti ed ai reagenti in dotazione.
Muraro, Elena. "IGHV1-69 as a promising candidate for the development of a shared immunotherapy to B-cell lymphomas". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2013. http://hdl.handle.net/11577/3423387.
Pełny tekst źródłaI Linfomi Non-Hodgkin a cellule-B (B-NHL) rappresentano un gruppo eterogeneo di patologie, ampiamente diffuse nel mondo e caratterizzate da frequenti ricadute in seguito a trattamenti standard o terapia con rituximab. Vaccini terapeutici che hanno come bersaglio l’Idiotipo (Id) dei B-NHL, costituiscono un approccio promettente nel mantenere la risposta completa indotta con trattamenti standard. Tuttavia, i vaccini idiotipici personalizzati rappresentano ancora un approccio terapeutico sperimentale e non approvato su larga scala, principalmente perché paziente-specifici e perché privi di marcatori attendibili per l’identificazione di pazienti elegibili e di risposta alla terapia. Ciononostante, la caratterizzazione molecolare di differenti istotipi di tumori di origine linfoide, ha rivelato la presenza di una serie di immunoglobuline stereotipate anche fra linfomi di diverso tipo. Su questi presupposti, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla proteina IGHV1-69, frequentemente espressa in linfomi associati all’infezione da HCV, nella leucemia linfatica cronica (CLL) e in linfoproliferazioni associate ad auto-immunità, e abbiamo valutato in vitro l’immunogenicità di questa proteina. Inizialmente, abbiamo confrontato 70 sequenze relative alla proteina IGHV1-69 e ottenute da pazienti affetti da differenti B-NHLs o linfoproliferazioni pre-maligne, allo scopo di ideare una sequenza ottimizzata, caratterizzata dal maggior grado di similarità fra i tumori presi in esame, e pertanto priva della regione ipervariabile CDR3. All’interno di questa nuova sequenza, abbiamo identificato 13 epitopi potenzialmente riconoscibili da linfociti T citotossici (CTLs) nell’ambito di 7 alleli HLA di classe I, e abbiamo sintetizzato i corrispondenti pentameri (Pent). Tramite citofluorimetria a flusso abbiamo quindi valutato la presenza di risposte T-cellulari specifiche per gli epitopi derivati da IGHV1-69, in campioni di sangue periferico ottenuti da pazienti affetti da linfoproliferazioni esprimenti IGHV1-69 e da donatori sani. Abbiamo inoltre validato questi dati tramite saggi ELISPOT (Enzyme-linked immunosorbent spot) per l’identificazione del rilascio di IFN-γ. Infine abbiamo stimolato in vitro le risposte specifiche per IGHV1-69, inducendo i linfociti del sangue periferico (PBLs) di donatori sani e pazienti, attraverso diversi protocolli per la generazione di colture CTL epitopo-specifiche. E’ stato interessante osservare come nei campioni ottenuti da paziente la popolazione di linfociti T CD8+ positiva ai pentameri specifici per gli epitopi di IGHV1-69 sia risultata generalmente più numerosa della corrispondente popolazione osservata in donatori sani. Questo dato supporta l’esistenza di risposte memoria T cellulari nei confronti di IGHV1-69, almeno in alcune restrizioni HLA. Inoltre, nei campioni ottenuti da paziente le cellule T specifiche per gli epitopi di IGHV1-69 hanno rivelato in saggi ELISPOT un maggior rilascio di IFN-γ rispetto ai linfociti T specifici per epitopi virali. In aggiunta, stimolando parallelamente PBLs di donatori sani e pazienti, abbiamo ottenuto linee CTL peptide-specifiche, in grado di riconoscere debolmente, ma in modo specifico target caricati con il peptide d’interesse, soprattutto quando derivate da PBLs di pazienti. Inoltre, tramite l’utilizzo di antigen-presenting cells artificiali, prodotte allo scopo di indurre ed espandere linee CTL caratterizzare da bassa affinità nei confronti di antigeni tumorali, abbiamo anche generato cloni CTL specifici per un epitopo di IGHV1-69 a partire da linfociti T CD8+ di donatori. Infine, si è evidenziato che colture CTLs indotte in seguito a stimolo con epitopi derivanti da IGHV1-69, sono in grado di riconoscere in modo specifico una linea cellulare naturalmente esprimente IGHV1-69, suggerendo in questo modo che le risposte memoria T-cellulari specifiche per IGHV1-69, possano essere stimolate ed espanse a scopi terapeutici. Questi risultati dimostrano che IGHV1-69 costituisce un target potenziale per lo sviluppo di un vaccino Id applicabile su un sottogruppo di linfomi a cellule B. Inoltre, l’immunomonitoraggio tramite marcatura con multimeri (tetrameri o pentameri) e saggi ELISPOT potrebbe eludere almeno parzialmente i principali limiti degli attuali vaccini idiotipici, al fine di incrementare ulteriormente la loro efficacia clinica.
Paderi, Francesca. "Bone metabolism involvement in acute lymphocytic leukemia: the receptor Activator Nuclear Factor Kappa B Ligand pathway". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2015. http://hdl.handle.net/11577/3424235.
Pełny tekst źródłaLo studio parte dall’osservazione che i pazienti pediatrici affetti da leucemia, presentano un interessamento osseo ancora prima della diagnosi e che persiste durante e dopo la terapia. La principale via regolatrice del metabolismo osseo è quella del Receptor Activator Nuclear Factor Kappa B Ligand (RANKL), anche noto come CD254. Questo ligando esiste sia in forma solubile sia di membrana (CD254). Il CD254 è espresso soprattutto dagli Osteoblasti (OBs), le cellule responsabili della formazione dell’osso, mentre il suo recettore, RANK, dagli Osteoclasti (OCs), le cellule deputate al riassorbimento. Gli osteoclasti degradano l’osso dopo l’attivazione attraverso il legame del RANKL. Altre cellule possono esprimere il RANKL e l’alta espressione del RANKL è associata alla capacità delle cellule di indurre osteolisi. L’analisi al citofluorimetro ha dimostrato che l’espressione della forma di membrana CD254 è up-regolata nei pazienti all’esordio B LLA Common rispetto ai controlli fuori terapia o a fine mantenimento. Mediante esperimenti di co-cultura è stata studiata la capacità dei blasti di influenzare il differenziamento dei precursori degli osteoclasti. E’ stata valutata quindi la capacità dei precursori CD14+ di fondersi a formare una cellula multinucleata, l’osteoclasto maturo, il quale in seguito diventa attivo e in grado di degradare la matrice ossea. La capacità di degradazione dell’osso è stata valutata usando una linea cellulare leucemica (SEM) esprimente il CD254, messa in co coltura con i CD14+. Le cellule coltivate in un terreno contenente frammenti di osso sono state in grado di degradare il substrato osseo. E’ stata poi valutata la capacità di multinucleazione da parte dei blasti da BM degli esordi ed esprimenti CD254 rispetto a quella dei controlli. Si è visto che l’alta espressione del RANKL sui blasti CD19+ dei pazienti alla diagnosi induce multinucleazione dei CD14+. Inoltre studi di Gene Expression Profile (GEP) sono stati fatti per valutare se ci fosse un’alterazione dei geni coinvolti nell’osteoclastogenesi e nell’osteopetrosi e alcuni di questi sono risultati down regolati in modo significativo. In questo network d’interazioni cellulari abbiamo voluto studiare un aspetto della comunicazione cellulare che riguarda le Microvescicole circolanti o “Extracellular Vesicles” (EVs). Le EVs sono state caratterizzate al citometro per l’espressione di marcatori di leucemia (CD19), piastrine (CD61) e per il metabolismo osseo (CD254). I risultati indicano che la produzione di EVs negli esordi dei pazienti B ALL è down regolata e che solo poche vescicole esprimono il CD19. Nel complesso questi dati suggeriscono che esiste un coinvolgimento diretto dei blasti nella via che regola il metabolismo osseo e che i blasti possono influenzare gli osteoclasti.
Consolaro, Francesca. "Role of FOXM1 and FOXO3a in B-lymphoblastic leukaemia progression and glucocorticoid responsiveness". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2015. http://hdl.handle.net/11577/3423872.
Pełny tekst źródłaLa leucemia linfoblastica acuta di tipo B (B-ALL) è un tumore caratterizzato dall’accumulo nel midollo osseo di linfociti immaturi, blasti, di tipo B che successivamente invadono il sangue, raggiungendo anche i linfonodi, la milza, il fegato e il sistema nervoso centrale. I pazienti B-ALL che alla diagnosi non rispondono al trattamento con glucocorticoidi, sono spesso soggetti a prognosi infausta e a ricaduta della malattia. Comprendere quindi quali siano i meccanismi molecolari sottostanti a questa resistenza ai glucocorticoidi permetterebbe di evitare fenomeni di ricaduta e potenzialmente di trovare nuove efficaci terapie antitumorali. FOXO3a e FOXM1 appartengono alla stessa famiglia di fattori di trascrizione denominati forkhead. Sebbene non sia ancora stato chiarificato quale sia il ruolo svolto da questi due fattori di trascrizione nelle B-ALL, i lavori riportati in letteratura dimostrano che FOXO3a e FOXM1 generalmente svolgono ruoli opposti all’interno della cellula. FOXM1 infatti è un importante oncogene che regola principalmente la proliferazione cellulare promuovendo la progressione tumorale. Per questo motivo, FOXM1 è spesso sovraespresso in diversi tipi di tumori, contribuendo quindi alla resistenza terapeutica e alla progressione tumorale. FOXO3a al contrario è un noto soppressore tumorale la cui attivazione è fondamentale per favorire la citotossicità di molti composti chemioterapici. Tuttavia la sua localizzazione intracellulare ed attività trascrizionale sono regolate da una complicata rete di modificazioni post-traslazionali, quali la fosforilazione, l’acetilazione, la metilazione e l’ ubiquitinazione. Nella prima parte di questo studio abbiamo quindi esaminato se questi due fattori di trascrizione, FOXO3a e FOXM1, svolgono un ruolo nelle B-ALL. In particolare abbiamo analizzato se FOXM1 è coinvolto nella proliferazione cellulare e nella risposta al trattamento chemioterapico. Inoltre abbiamo svolto una serie di esperimenti per comprendere se FOXO3a è coinvolto nella risposta al trattamento coi glucocorticoidi (desametasone) e se la sua attività trascrizionale viene modulata da modificazioni post transazionali quali la fosforilazione e l'acetilazione. I dati ottenuti hanno dimostrato che entrambi i fattori di trascrizione, FOXM1 e FOXO3a svolgono un ruolo chiave nelle leucemie B-ALL. FOXM1 è un importante regolatore della proliferazione tumorale, infatti la sua downregolazione provoca una significativa diminuzione della proliferazione cellulare associata all’arresto del ciclo cellulare in G2/M. FOXM1 inoltre risulta essere un importante target terapeutico per le B-ALL in quanto la sua inibizione può significativamente incrementare l’effetto citotossico dei chemioterapici che sono normalmente utilizzati per trattare i pazienti affetti da B-ALL. Il fattore di trascrizione FOXO3a gioca un ruolo centrale nel mediare la risposta al trattamento con desametasone. Infatti, in seguito al trattamento, FOXO3a diventa trascrizionalmente attivo solo nelle cellule che sono sensibili (RS4;11 e SUP-B15). FOXO3a trasloca nel nucleo dove regola l’espressione di geni proapoptotici. Diversamente nelle cellule resistenti al desametasone, REH, FOXO3a rimane inattivo e localizzato nel citoplasma. Inoltre, FOXO3a diventa maggiormente fosforilato e acetilato, nei siti Ser7 e Lys242/245 rispettivamente, solo nelle cellule sensibili, suggerendo che probabilmente queste due modificazioni post-translazionali contribuiscono nel promuovere la sua attivazione trascrizionale. Nella seconda parte dello studio ho analizzato il meccanismo molecolare di due classi di composti antitumorali, gli arilamino triazoli e le fenilcinammidi, entrambi sintetizzati per inibire, in maniera selettiva, la proliferazione ed indurre morte cellulare nelle cellule tumorali. In particolare, è stato studiato l'effetto di tali molecole sulla polimerizzazione della tubulina, sul ciclo cellulare e sull'attivazione dell'apoptosi per la delucidazione di un possibile meccanismo d'azione. I composti testati hanno mostrato attività antiproliferativa comparabile o superiore rispetto ai composti di riferimento. Per quanto riguarda il meccanismo d'azione, in generale, entrambi questi composti inducono un blocco del ciclo cellulare in fase G2/M il quale porta all'attivazione del processo apoptotico caspasi- dipendente. Tuttavia gli arilamino triazoli agiscono principalmente come inibitori della polimerizzazione della tubulina, mentre le fenilcinammidi agiscono riducendo significativamente i livelli di antiossidante intracellulare glutatione, provocando quindi un aumento dello stress ossidativo intracellulare che in ultima analisi porta ad apoptosi
Petrara, Maria Raffaella. "Dynamics of Epstein-Barr Virus (EBV) in human immunodeficiency virus (HIV)-1 infected adults and children". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2013. http://hdl.handle.net/11577/3426293.
Pełny tekst źródłaIl virus di Epstein-Barr (EBV) è coinvolto nello sviluppo di un ampio spettro di malattie linfoproliferative, in particolare nei soggetti immunocompromessi. Oltre all’immunodepressione, l’attivazione immunitaria cronica può indurre la stimolazione della cellula B, promuovendo l’espansione delle cellule infettate da EBV. I fattori che possono contribuire all’attivazione e all’espansione delle cellule B infettate da EBV, anche nei soggetti con infezione da HIV-1, sono per lo più sconosciuti. In Africa l’infezione primaria da EBV insorge durante la prima infanzia e i linfomi associati ad EBV sono un'importante causa di morbidità e mortalità nei bambini. Elevati livelli di EBV costituiscono un fattore di rischio per l’insorgenza dei tumori associati al virus. Ad oggi, non sono disponibili dati circa l’infezione da EBV e le patologie associate nei bambini africani con infezione da HIV-1. La mancanza di questi dati è in parte dovuta alla difficoltà di analisi di laboratorio nei Paesi in via di sviluppo. L'utilizzo di Dried Blood Spot (DBS) potrebbe rappresentare un metodo semplice per raccogliere, conservare campioni di sangue, e consentire il loro trasporto in laboratori specializzati. Gli scopi della ricerca svolta durante il corso di Dottorato sono stati i seguenti: 1) studiare la relazione tra viremia di EBV e marcatori di attivazione immunitaria nei soggetti con infezione da HIV-1. 2) studiare l’infezione da EBV nei bambini africani con infezione da HIV-1 e/o con tumori EBV-correlati. 3) sviluppare una nuova applicazione di DBS per la rilevazione della clonalità delle cellule B, per la diagnosi e il monitoraggio della patologia neoplastica. 1) Viremia di EBV e attivazione immunitaria in soggetti con infezione da HIV-1 Nello studio sono stati inclusi 156 pazienti con infezione da HIV-1. 85 pazienti erano in terapia antiretrovirale (ART). Il DNA di EBV è stato rilevato in 114 pazienti, e in tutti i casi tranne 3 era EBV tipo 1. I livelli mediani di EBV-DNA erano di 43[1-151] copie/105 cellule. I livelli di EBV erano più elevati nei soggetti con plasmaviremia di HIV-1 rilevabile, nonostante un buono stato immunologico (CD4>500 cellule/µl), rispetto a pazienti con plasmaviremia di HIV-1 non rilevabile, indipendentemente dallo stato immunologico (46[5-136] vs 17[1-56] copie/105 cellule, p=0.008). Pazienti con alti livelli di EBV-DNA (> valore mediano) avevano livelli più alti di lipopolisaccaride batterico (LPS) e di citochine proinfiammatorie (IL-6, IL-10 e TNF-α) rispetto a pazienti con bassa viremia di EBV. Inoltre, la percentuale di cellule B attivate correlava con i livelli di EBV (r=0.754; p<0.001). Nell'insieme, questi dati indicano una significativa associazione tra plasmaviremia di HIV-1, marcatori di attivazione immunitaria e citoviremia di EBV e suggeriscono che la persistenza di HIV-1 e l’attivazione immunitaria, indipendentemente dalla ripopolazione dei linfociti CD4 periferici, possono favorire l’espansione delle cellule B infettate con EBV. 2) Associazione tra livelli di EBV e NHL nei bambini della Tanzania e parametri relativi a EBV nei bambini con infezione da HIV-1 in Uganda E' stato condotto uno studio caso-controllo in bambini con linfomi non-Hodgkin (NHL) ammessi in tre centri clinici della Tanzania e controlli comparabili per età. I campioni di sangue sono stati raccolti in DBS. Ventuno di 35 (60%) pazienti con NHL e solo 21 di 70 (30%) controlli avevano EBV rilevabile nel sangue periferico (OR=4.77 [95% CI 1.71–13.33], p=0.003). Inoltre, i livelli di EBV erano più alti nei casi NHL rispetto ai controlli EBV-positivi (p=0.024). Nell'insieme, questi dati indicano che la viremia di EBV nel sangue periferico potrebbe avere rilevanza diagnostica. In un secondo studio, i campioni di sangue di 213 bambini con infezione da HIV-1 sono stati raccolti su DBS presso l’ospedale Nsambya, in Kampala, Uganda. Novantadue di 140 (66%) bambini in ART e 57 di 73 (78%) naive sono risultati positivi per EBV. In un'analisi multivariata per CD4 Z-score, età e stadio WHO, bambini in ART avevano minori probabilità di avere EBV rilevabile rispetto ai bambini naive (OR=0.39 [95% CI 0.16-0.94], p=0.036). La viremia di EBV era significativamente più elevata nei bambini naive rispetto a quelli in ART (4.22 [3.87-4.58] vs 3.99 [3.55-4.33] log10 copie/ml; p=0.016). I livelli di 16S rDNA, utilizzato come marcatore di traslocazione microbica, erano significativamente più elevati nei bambini naive rispetto a quelli in ART (2.16 [2.11-2.28] vs 2.09 [2.02-2.22] log10 copie/μl; p=0.007) e correlavano con i livelli di EBV-DNA (r= 0.382, p=0.016), suggerendo che i prodotti microbici circolanti promuovono l’attivazione e l’espansione della cellula B infettata da EBV. Il trattamento con ART, probabilmente limitando la viremia di HIV-1 e la conseguente attivazione immunitaria, può ridurre la replicazione di EBV e l’espansione delle cellule infettate da EBV. 3) Rilevabilità delle popolazioni clonali B da campioni di DBS: uno strumento per la diagnosi e il monitoraggio dei tumori delle cellule B In primo luogo, utilizzando campioni di sangue di diversa origine, è stato verificato che i DBS contenessero un numero sufficiente di linfociti per stimare la clonalità senza ottenere risultati falsi positivi. Mediante l'impiego di cellule Namalwa, che contengono 2 copie di EBV/cellula, è stata trovata una ottima correlazione tra i risultati attesi e le copie di EBV rilevate (r=0.987, p<0.0001); si è potuto quindi stabilire che una popolazione clonale B è rilevabile su DBS quando sono presenti almeno 200 cellule clonali nel campione analizzato. Inoltre, sono stati ottenuti risultati molto simili per la clonalità cellulare analizzando il DNA ottenuto da DBS e da sangue fresco di pazienti con leucemia linfatica cronica. Questo studio, dimostrando che è possibile valutare la clonalità su campioni di sangue conservato su DBS, allarga le opzioni diagnostiche e di monitoraggio. Conclusioni In questi studi abbiamo trovato una relazione significativa tra marcatori di traslocazione microbica, livelli di citochine pro-infiammatorie e livelli di EBV-DNA negli adulti e nei bambini con infezione da HIV-1. Di interesse e in accordo con studi precedenti, abbiamo anche dimostrato che i livelli di EBV sono più elevati nei pazienti con aumento di linfociti CD4 ma incompleta soppressione della viremia di HIV-1 rispetto a pazienti con plasmaviremia non rilevabile, indipendentemente dal numero di linfociti CD4. Nell'insieme, questi dati suggeriscono che l'attivazione immunitaria indotta da HIV-1 può risultare nella stimolazione e nell’espansione delle cellule B infettate con EBV, un fattore di rischio per lo sviluppo di neoplasie EBV-associate. La relazione tra attivazione immunitaria e livelli di EBV è risultata anche negli studi effettuati nei bambini con infezione da HIV-1, dove abbiamo trovato che i livelli di EBV-DNA e di 16S rDNA erano significativamente più elevati nei bambini in ART rispetto a quelli naive. Il trattamento con ART, probabilmente limitando l’attivazione immunitaria, potrebbe prevenire la stimolazione della cellula B e l’espansione della cellula B. Queste osservazioni possono essere di particolare interesse anche per pianificare strategie terapeutiche nei soggetti con infezione da HIV-1. Inoltre, la dimostrazione che i linfomi NHL sono significativamente associati ad elevati livelli di EBV nel sangue periferico, suggerisce che la determinazione di EBV nel sangue potrebbe avere una rilevanza diagnostica e prognostica per le neoplasie delle cellule B associate ad EBV. In questo contesto abbiamo potuto stimare che i campioni di DBS sono anche idonei ad identificare la presenza di una popolazione clonale B. Questo è importante perché estende le opzioni di diagnosi e monitoraggio dei linfomi B anche dove non sono di facile accesso queste analisi.
Sopúch, Martin. "Zesílení panelového objektu". Master's thesis, Vysoké učení technické v Brně. Fakulta stavební, 2020. http://www.nusl.cz/ntk/nusl-409779.
Pełny tekst źródłaMouhieddine, Maria. "Aspects formels du dîwân de Jamîl Buṯayna". Phd thesis, Ecole normale supérieure de lyon - ENS LYON, 2011. http://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00682573.
Pełny tekst źródłaZangrossi, Manuela. "Study of the extra-telomeric functions of telomerase in in vitro and in vivo models". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2018. http://hdl.handle.net/11577/3426233.
Pełny tekst źródłaIl mantenimento dei telomeri, necessario per la proliferazione illimitata delle cellule tumorali, è esercitato dalla telomerasi, un complesso ribonucleoproteico contenente una trascrittasi inversa specializzata, codificata dal gene TERT, che utilizza un templato ad RNA per sintetizzare nuove sequenze telomeriche, svolgendo quindi un ruolo critico nella formazione e nella progressione dei tumori. TERT viene infatti solitamente represso in normali cellule somatiche, mentre è rilevabile nella maggior parte dei tumori. Studi recenti hanno suggerito che TERT è coinvolto in altre funzioni cellulari e può contribuire alla carcinogenesi anche attraverso meccanismi indipendenti dal mantenimento dei telomeri, quindi la sua inibizione potrebbe rappresentare una strategia promettente per migliorare il trattamento antitumorale, al di là dell’effetto sui telomeri. I possibili effetti terapeutici di BIBR1532 (BIBR), un inibitore specifico del TERT, sono stati valutati in diversi contesti cellulari, ma non sono attualmente disponibili dati ottenuti su modelli di neoplasie delle cellule B sia associate al virus di Epstein-Barr (EBV) che virus-indipendenti. Lo scopo di questo studio era di caratterizzare gli effetti biologici dell'inibizione di TERT a breve termine da parte del BIBR su linee cellulari linfoblastoidi immortalizzate da EBV (LCL) e su modelli in vitro di linfoma di Burkitt (BL); inoltre, sono stati studiati gli effetti del trattamento con BIBR a breve termine in vivo negli embrioni di zebrafish. I risultati ottenuti hanno dimostrato che l'inibizione a breve termine di TERT da parte di BIBR, in modelli in vitro di tumori delle cellule B, ha portato a una diminuzione della proliferazione cellulare, all'accumulo di cellule nella fase S e infine all'aumento dell'apoptosi. L'arresto del ciclo cellulare e l'apoptosi, conseguenti all'inibizione di TERT a breve termine, erano associati e probabilmente dipendenti dall'attivazione della risposta al danno del DNA, come evidenziato dall’aumento dei livelli di γH2AX e dall'attivazione dei pathway di ATM e ATR. L’analisi della media e del range di lunghezza dei telomeri e dei foci di danno al DNA ha indicato che la risposta al danno attivata in seguito all’inibizione TERT a breve termine non era legata a disfunzioni telomeriche, suggerendo quindi che TERT, oltre a stabilizzare il telomero, può proteggere il DNA tramite meccanismi telomero-indipendenti. In particolare, LCL-TERT positive trattate con BIBR in combinazione con fludarabina o ciclofosfamide hanno mostrato un aumento significativo del numero di cellule apoptotiche rispetto a quelle trattate con agenti chemioterapici da soli. In accordo con i risultati in vitro, l'inibizione a breve termine di Tert da parte del BIBR in embrioni di zebrafish ha ridotto la proliferazione cellulare, indotto un accumulo di cellule nella fase S, aumentato il tasso di apoptosi e innescato l'attivazione della risposta al danno al DNA. Questi effetti non erano legati a disfunzioni telomeriche, poiché il range di lunghezza dei telomeri non era influenzato dal trattamento a breve termine con BIBR e i foci di danno al DNA erano distribuiti casualmente, piuttosto che localizzati in modo specifico sui telomeri. Tutti questi effetti erano specificamente associati all'inibizione di Tert poiché il trattamento con BIBR non mostrava alcun effetto negli embrioni di zebrafish Tert-negativi. Nel complesso questi dati dimostrano che l'inibizione del TERT compromette la proliferazione cellulare e induce effetti pro-apoptotici non associati a disfunzioni telomeriche, rafforzando il concetto che TERT esercita di per sé funzioni pro-tumorali indipendenti dalla lunghezza del telomero e quindi supportando l'introduzione di inibitori di TERT per integrare le attuali modalità di trattamento antitumorale.
SINGH, MEENAKSHI. "Synthesis of Group B Streptococcus tipe II (GBSII) Oligosaccharide of Vaccine Development". Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano, 2019. http://hdl.handle.net/2434/680023.
Pełny tekst źródłaZaffino, Fortunato. "Analysis of Protein Kinase CK2 in B-lymphopoiesis and lymphomagenesis in a mouse conditional Knockout model". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2015. http://hdl.handle.net/11577/3424270.
Pełny tekst źródłaCK2 è una serin-treonin chinasi pleiotropica costituita da due subunità α catalitiche e due subunità β regolatorie. Recentemente questa proteina è stata coinvolta nella patogenesi di neoplasie delle cellule B del sistema ematopoietico, come la Leucemia Linfatica Cronica (CLL), il Linfoma Mantellare (MCL) ed il Mieloma Multiplo(MM). CK2 agisce attraverso un meccanismo definito "non - oncogene addiction", favorendo la sopravvivenza delle cellule neoplastiche proteggendole dall’ apoptosi, attraverso la fosforilazione di proteine pro-sopravvivenza e stimolando chinasi oncogeniche attivando, in questo modo, la loro attività enzimatica. Alcuni studi inerenti il ruolo di CK2 nelle neoplasie di tipo B, suggeriscono che questa chinasi potrebbe agire a valle di recettori di fattori di crescita e citochine. Sulla base di questi dati, per ottenere maggiori informazioni sul ruolo di CK2 nella B-linfopoiesi e, di conseguenza, su un suo ipotetico ruolo nello sviluppo di neoplasie B, abbiamo generato un knockout (KO) condizionale della subunità β di CK2 esclusivamente nei linfociti B, incrociando topi CK2β Flox / Flox con topi transgenici CD19 - CRE. Mediante approfondite analisi abbiamo dimostrato che l'attività chinasica di CK2 risulta diminuita nelle cellule di topi CK2β KO. Nel midollo osseo, i topi KO evidenziano una riduzione delle cellule B, in particolare della popolazione di linfociti B ricircolanti, mentre l’analisi dei precursori dei linfociti B, cioè i pro-B e i pre-B, evidenzia che essi sono solo leggermente ridotti. In sangue periferico, milza e cavità peritoneale si ha una marcata riduzione dei linfociti B, in più i topi CK2β KO presentano nel siero una ridotta quantità di immunoglobuline di tutte le classi (ipogammaglobulinemia). Un’analisi approfondita dei linfociti B splenici ha evidenziato che nei topi CK2β KO si ha uno squilibrio tra la quota di linfociti B della zona follicolare (FO) ed i linfociti B della zona marginale (MZ). L’analisi istologica e l’immunofluorescenza, effettuate su milze di topi CK2β KO, hanno rivelato entrambe un cambiamento di dimensione/forma dei follicoli ed una significativa espansione della zona marginale, che sembra invadere il follicolo stesso. Attraverso un approccio in vitro abbiamo valutato lo switch isotipico, dimostrando che, nei topi CK2β KO, si ha una compromissione dello switch verso IgG1 e IgG3 ed una marcata riduzione della produzione di cellule secernenti anticorpi. In vivo, il trattamento con globuli rossi di montone (SRBC) ha mostrato una conservata regolazione di marcatori del centro germinativo (GC), quali CD38, GL7 e PNA; tuttavia, l'architettura dei follicoli nei topi CK2β KO presenta, rispetto ai topi di controllo, un evidente cambiamento architettonico/topografico. L'analisi, mediante Real-Time PCR, di geni associati alle zone follicolare e marginale, oltre che al centro germinativo, ha messo in luce, che i topi CK2β KO hanno livelli normali di bcl6 , elevati livelli di espressione di lrf e, soprattutto, una mancata up-regolazione di geni coinvolti nel pathway di Notch2, come hes1 e deltex1. Sulla base di quest’ultimo dato, abbiamo ritenuto risolutivo bloccare in vivo il recettore Notch2, mediante l’utilizzo di uno specifico anticorpo neutralizzante evidenziando, nei topi CK2β KO, una notevole riduzione del numero dei linfociti B marginali. Un’analisi “High-Throughput” , mediante RNA-seq, ha rivelato, nei topi CK2β KO, una significativa alterazione dei processi che regolano la formazione di MZB o FoB. Dai risultati di questo studio si può, quindi, ipotizzare che la subunità β della protein chinasi CK2 sia un nuovo regolatore del processo di differenziamento dei linfociti B periferici. Inoltre, CK2β sembra implicata nella corretta trasmissione del segnale a valle del BCR, nella reazione di formazione del GC e nella regolazione del pathway di Notch2. Possiamo, perciò, definirla un nuovo “master regulator” del differenziamento di FoB e MZB e della definizione dell’architettura topografica della zona marginale della polpa bianca splenica. In conclusione, i dati ottenuti con questo lavoro di tesi, da un lato arricchiscono la conoscenza dei meccanismi che regolano lo sviluppo dei linfociti B, dall'altro ci danno informazioni sui potenziali meccanismi su cui agisce CK2 durante lo sviluppo di neoplasie dei linfociti B.
IBRAGIMOV, ANTON. "G - Expectations in infinite dimensional spaces and related PDES". Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano-Bicocca, 2013. http://hdl.handle.net/10281/44738.
Pełny tekst źródłaBellano, Marco. "Accanto allo schermo. Il repertorio musicale de Le Giornate del Cinema Muto". Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2011. http://hdl.handle.net/11577/3427459.
Pełny tekst źródłaIl fatto che il cinema muto non possa essere considerato un mero precursore del cinema sonoro, secondo una logica «biologica e teleologica», è oggi ampiamente riconosciuto. Le riflessioni di studiosi quali Tom Gunning, André Gaudreault, Richard Abel, Noël Burch e Charles Musser hanno inoltre invitato a considerare il muto non solo come un altro cinema rispetto al sonoro, ma come un sistema di pratiche cinematografiche concorrenti ed essenzialmente diverse da quella del sonoro, decisamente mal raccolte sotto l’etichetta generica “cinema muto”. Ciascuna di queste maniere cinematografiche, numerose e dall’identificazione e denominazione controversa– cinematografia-attrazione, cinema dei primi tempi, cinema primitivo, ecc. – necessita di distinti strumenti d’analisi, quale che sia il punto di vista (storiografico, estetico, sociologico, ecc.) scelto per studiarla. È tuttavia strano come uno di questi possibili punti di vista si stia ancor oggi dimostrando piuttosto riluttante nell’accettare tale genere di consapevolezza nei confronti del muto. Si tratta del punto di vista musicale. È vero che non sono mancati gli studi teorici capaci di trattare la musica per il cinema muto tenendo conto della molteplicità e delle differenti necessità dei linguaggi visivi di quell’epoca: Rick Altman ha in particolare offerto alcune delle riflessioni più interessanti in tal senso. Ma tali riflessioni sono rimaste una minoranza. Il panorama dei discorsi sulla musica per film nel 2010 è ancora in grado di accogliere contributi importanti che tuttavia non differenziano le strategie audiovisive del sonoro da quelle del muto, sostenendo che nella maniera generale in cui la musica interagisce con l’immagine in movimento «poco o nulla è cambiato dalle origini ad oggi». Segni di questa tendenza si riscontrano persino nell’ambito della preservazione dei film. Gli archivi cinematografici attivi nella conservazione del muto, infatti, raramente accompagnano le loro collezioni con archivi paralleli destinati alla documentazione relativa alla musica. Esiste, bisogna riconoscere, la consapevolezza dell’importanza che i documenti musicali possono avere nelle operazioni di restauro e preservazione dei film. Esistono inoltre casi particolari di raccolte di musica per il muto gestite in sinergia con archivi di film, come le collezioni di musica per il muto conservate alla Library of Congress di Washington, DC, o al Museum of Modern Arts (MoMA) di New York, oppure la Eyl/Van Houten Collection presso il Nederlands Filmmuseum. Ma si tratta di eccezioni: e fino alla fine degli anni ’80 in effetti non esistevano significative raccolte di musica per il cinema muto al di fuori di quella del MoMA. Questo stato delle cose sembra in apparente contrasto con la necessità di una «ricerca storica coscienziosa» che Altman raccomanda parlando dell’approccio contemporaneo al muto. Infatti, allo stato attuale delle cose, una ricerca sul muto svolta in un singolo archivio rischia plausibilmente di essere molto carente sul versante delle pratiche sonore e musicali. Durante l’epoca del muto, i musicisti interagivano con i film restando accanto allo schermo, nell’ombra vicina alla luce del proiettore. È piuttosto ironico come oggi i discorsi sviluppati attorno alla loro musica siano nuovamente costretti in un’“ombra” – metaforica, stavolta – che sta ai confini della “luce” costituita dai moderni studi sul cinema muto, senza però poter ben interagire con essa. «È tempo», come ha scritto Altman, «di includere il suono nella rinascita storiografica del cinema muto». Un archivio della musica per il cinema muto dovrebbe porsi all’intersezione tra una biblioteca musicale ed una collezione di materiali legati alle arti performative. Le partiture scritte, durante l’epoca del muto, erano infatti una minoranza: la maggior parte della pratica musicale si fondava su cue sheet, compilazioni, repertori o improvvisazioni – che non possono aver lasciato alcuna traccia al di fuori di occasionali resoconti di membri del pubblico o degli stessi musicisti. In più, pratiche di sonorizzazione non musicali erano spesso concomitanti e complementari alle esecuzioni: esiste dunque una chiara urgenza di preservare anche qualsiasi tipo di documentazione parli di esse. In aggiunta a ciò, occorre ricordare che, almeno dalla presentazione del 1980 del Napoleon di Abel Gance prodotta da Thames Television, che ha mostrato il film ricostruito da Kevin Brownlow con una nuova musica di Carl Davis, il repertorio della musica per il muto ha cominciato a crescere di nuovo. Negli ultimi trent’anni, i luoghi dove i film muti vengono proiettati in maniera rispettosa di pratiche musicali storiche si sono moltiplicati, assieme alla produzione di partiture, cue sheet e improvvisazioni. Sembra ragionevole offrire a questa “nuova” tradizione di musica per il muto un posto accanto ai documenti che ne sono origine ed ispirazione. La mia tesi di dottorato utilizza queste considerazioni come premessa per ricostruire e studiare una collezione particolare e circoscritta di musica per il cinema muto: il repertorio di partiture eseguite al Festival internazionale Le Giornate del Cinema Muto, dal 1982 al 2010. L’accuratezza filologica dimostrata da tale Festival nella presentazione e nella divulgazione delle pratiche musicali del muto offre infatti una solida base per studi di questo genere. Inoltre, Le Giornate del Cinema Muto hanno già espresso, nel 2009, l’intenzione di fondare concretamente un archivio come quello sopra descritto, in seguito ad un suggerimento da me avanzato nel corso del XI Collegium di studi organizzato dalla manifestazione. La tesi è divisa in due parti. La prima include un capitolo introduttivo, dove vengono discussi problemi riguardanti la conservazione archivistica delle fonti musicali pertinenti alla musica per il muto; dopodiché, un primo capitolo tratta della storia della musica per il muto, scegliendo un approccio non lineare guidato dallo sviluppo delle pratiche musicali, e non da una consequenzialità cronologica; infine, la prima parte si conclude con un capitolo descrivente l’estetica della musica per il muto, nel quale si offre una rassegna della letteratura sull’argomento ed una descrizione delle strategie audiovisive utilizzate dai compositori. La seconda parte presenta il repertorio della musica che è stata eseguita a Le Giornate del Cinema Muto sulla base di partiture scritte. Si tratta di un elenco di 115 film, coprente la 29 edizioni del Festival e completo di informazioni filmografiche. Ogni scheda di film è accompagnata da una breve analisi delle principali strategie audiovisive. Le fonti di questa ricerca sono principalmente le registrazioni audiovisive delle proiezioni a Le Giornate del Cinema Muto conservate presso La Cineteca del Friuli, Gemona. Altri dettagli si sono ottenuti tramite conversazioni (di persona o tramite email) con alcuni degli autori delle musiche: Gillian B. Anderson, Neil Brand, Günter A. Buchwald, Philip Carli, Antonio Coppola, Berndt Heller, Stephen Horne, Maud Nelissen, Donald Sosin e Gabriel Thibaudeau.
Valenti, Fabio. "Study on b-Catenins mechanisms of regulation in zebrafish blastula embryo". Doctoral thesis, 2012. http://hdl.handle.net/10447/94635.
Pełny tekst źródłaArciniegas, Jaimes Diana Marcela. "Estudio de nuevas perovskitas AA'BB'06 : influencia de los cationes A y B sobre sus propiedades físicas y estructuras cristalinas y magnéticas". Doctoral thesis, 2018. http://hdl.handle.net/11086/15299.
Pełny tekst źródłaEl objetivo general de esta tesis doctoral consiste en diseñar, sintetizar y caracterizar a través de diversas técnicas, nuevos materiales que posean potenciales aplicaciones en dispositivos tecnológicos, con propiedades ferroeléctricas, magnéticas, multiferroicas y/o magnetorresistentes. Para obtener los materiales propuestos, se hizo uso de dos métodos de síntesis, siendo el más explorado el método cerámico tradicional. La síntesis fue lograda con éxito en la mayoría de los casos. Todos los materiales presentados en la tesis tienen estructura de tipo perovskita con fórmula ABO3, AA’BB’O6 o A2BB’O6, en donde B suele ser un catión de los metales de transición 3d; y B’ generalmente es un catión de los metales de transición 4d o 5d o un ion diamagnético del bloque p. Este tipo de estructuras han sido ampliamente estudiadas debido a que exhiben múltiples propiedades interesantes en aplicaciones tecnológicas. Los materiales obtenidos no han sido previamente informados en la literatura, generando un impacto positivo en la ciencia de materiales, lo cual es un aspecto fundamental del grupo de investigación al cual pertenezco. Estos nuevos compuestos obtenidos se describen en esta tesis de manera resumida de la siguiente forma: La serie de perovskitas Ba1+xLa1-xMnSbO6 con 0,1 ≤ x ≤ 0,7, cuya síntesis fue realizada a través del método cerámico tradicional, fue caracterizada estructuralmente mediante las técnicas de difracción de rayos X de polvos y difracción de neutrones de polvos. Por medio de estas técnicas, se pudo determinar que las perovskitas dobles formadas poseen un grupo espacial I 2/m para pequeños valores de x, generándose una transición de fase, que pasa a una estructura tetragonal con grupo espacial I 4/m a partir de x = 0,3. A través de espectroscopía de emisión de rayos X, se determinó el estado de oxidación del Mn, observándose una mezcla de Mn2+ y Mn3+. Los cationes Mn2+/3+ y Sb5+ se distribuyen de manera altamente ordenada en los sitios octaédricos. Por otro lado, la caracterización magnética se realizó mediante medidas de magnetización vs. temperatura y vs. el campo magnético, lo que ha sido importante para poder entender y explicar el comportamiento magnético de cada una de las muestras, corroborando la existencia de nanoclusters magnéticos con supermomentos. Además, esta mezcla de estados de oxidación para el Mn le da ciertas características magnéticas notables al sistema. Es importante mencionar que al haber contado con estas técnicas para la caracterización de las perovskitas, se logró obtener una correlación más clara entre estructura y propiedades. La familia de perovskitas CaLaBSbO6 con B = Mn, Co y Ni; obtenida a partir del método cerámico tradicional, fue caracterizada mediante DRXP, medidas magnéticas y espectroscopía de emisión de rayos X. Estos materiales cristalizan con el grupo espacial monoclínico P21/n y poseen una alta distorsión de la estructura a través del giro de los octaedros, los cuales poseen ángulos de giro grandes. De las medidas magnéticas, se observa un comportamiento complejo que es más notable para el caso de B = Mn, observándose distintos fenómenos como XIV fase de Griffith y superparamagnetismo, entre otros. Por medio de la caracterización espectroscópica, se pudieron determinar los estados de oxidación para el Mn y Co en cada uno de los compuestos. La familia de perovskitas La2MnB’O6 con B’ = Zr, Ti; se obtuvo por vía seca y fue caracterizada estructuralmente por DRXP y DNP. Con esta última técnica se pudo definir el grupo espacial con el que cristaliza cada perovskita, siendo Pnma para B’ =Zr y P21/n para B’ = Ti. Además, a bajas temperaturas las estructuras magnéticas correspondientes son inconmensuradas, siendo el primer antecedente de este tipo de estructuras en el grupo de investigación de Nuevos Materiales del Departamento de Fisicoquímica de la Facultad de Ciencias Químicas de la Universidad Nacional de Córdoba, lo que permite incursionar en la formación y estudio de este tipo de estructuras, las cuales pueden inducir estados ferroeléctricos que consigan acoplarse más fuertemente al ordenamiento magnético en comparación con materiales multiferroicos convencionales. En el caso de la muestra con B’ = Zr, se realizaron las medidas magnéticas, observándose un comportamiento superparamagnético.
2020-12-31
Arciniegas Jaimes, Diana Marcela. Universidad Nacional de Córdoba. Facultad de Ciencias Químicas; Argentina.
Carbonio, Raul Ernesto. Universidad Nacional de Córdoba. Facultad de Ciencias Químicas. Departamento de Fisicoquímica. Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas. Instituto de Investigaciones en Fisicoquímica de Córdoba; Argentina.
Bercoff, Paula Gabriela. Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas. Instituto de Física Enrique Gaviola; Argentina.
Dassie, Sergio Alberto. Universidad Nacional de Córdoba. Facultad de Ciencias Químicas. Departamento de Fisicoquímica. Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas. Instituto de Investigaciones en Fisicoquímica de Córdoba; Argentina.
Reinaudi, Luis. Universidad Nacional de Córdoba. Facultad de Ciencias Químicas. Departamento de Química Teórica y Computacional. Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas. Instituto de Investigaciones en Fisicoquímica de Córdoba; Argentina.
Aurelio, Gabriela. Comisión Nacional de Energía Atómica. Gerencia de Área Investigación y Aplicaciones No Nucleares. Departamento de Haces de Nuetrones del RA10 - CAB; Argentina.