Articles de revues sur le sujet « Vescovo e città »

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Scharf, Gian Paolo G. « Vescovo e Signore : la parabola di Guglielmino degli Ubertini ad Arezzo (1248-1288) ». SOCIETÀ E STORIA, no 138 (novembre 2012) : 699–728. http://dx.doi.org/10.3280/ss2012-138001.

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Résumé :
L'articolo presenta le vicende biografiche di un vescovo aretino del Duecento, noto per aver finito i suoi giorni sulla piana di Campaldino. Il lungo episcopato dell'Ubertini si caratterizza per un forte impegno politico, culminato nella signoria sulla sua cittÀ, che non andň tuttavia disgiunto dagli impegni propriamente pastorali, dato che il presule condusse un'accurata visita nella sua diocesi. Il momento assai turbolento in cui visse tuttavia ne fa una figura di spicco della politica toscana, dato che la sua forte personalitÀ gli permise di giostarsi abilmente nelle vicende dell'epoca, tanto in cittÀ quanto nella regione. Per tale motivo il suo caso puň essere considerato significativo di un modello di vescovo sicuramente minoritario rispetto alla sua epoca, ma non ancora del tutto scomparso.
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2

Lázár, István Dávid. « Il cinghiale Marsus in terra della Pannonia ». Tabula, no 17 (16 novembre 2020) : 275–92. http://dx.doi.org/10.32728/tab.17.2020.10.

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Résumé :
Appena nominato, il nuovo vescovo della diocesi di Győr, György Draskovich, aveva convocato il sinodo per l’estate dell’anno 1579, nella città di Szombathely. Nel primo giorno del sinodo, su invito del nuovo vescovo, il gesuita croato Marcus Pitačić pronunciò un discorso che trattava dei criteri per divenire prete, della morale che la comunità esigeva da parte del clero e dell’istituzione del celibato, attaccando e confutando le relative dottrine dei protestanti. La reazione al discorso di Pitačić da parte dei protestanti non arrivò subito ma si fece aspettare per un decennio e mezzo. Nel 1585 uscì il libro di Péter Beregszászi, Apologia pro ecclesiis reformatis, actis impiis Synodi Sabariensis opposita, che contiene sia l’Oratio di Pitačić sia la risposta di Beregszászi, in cui egli smentisce punto per punto le asserzioni del gesuita. Il fatto che, due anni dopo, venne pubblicato a Basel il volume De controversiis religionis hoc seculo motis adversaria quaedam scripta, in quibus utriusque partis dissidentium argumenta, ad Scripturae divinae canonem explorantur et Iesuitis potissimum respondetur, mostra l’importanza dei due testi dell’Apologia che, assieme ad alcuni libelli apparsi negli anni ’80, viene interamente riproposta nel detto volume. A seguito della breve presentazione riassuntiva della vita di Pitačić, l’articolo offre un quadro sintetico della sua controversia con Beregszászi, ricca di argomentazioni e di mezzi retorico-linguistici che servivano al predicatore protestante per rendere ridicoli i gesuiti e contestare l’autenticità delle parole del suo avversario.
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Clarke, Peter D. « The interdict on San Gimignano, c. 1289–93 : a clerical ‘strike’ and its consequences ». Papers of the British School at Rome 67 (novembre 1999) : 281–301. http://dx.doi.org/10.1017/s006824620000458x.

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L'INTERDETTO DI SAN GIMIGNANO, CIRCA 1289–93: UNO ‘SCIOPERO’ DEL CLERO E LE SUE CONSEGUENZEL'interdetto era una specie di sciopero ecclesiastico, che aveva lo scopo di esprimere un risentimento o una richiesta nei confronti del potere secolare. Verso la fine del 1289 il vescovo di Volterra dichiarò un'interdetto contro il comune di San Gimignano, probabilmente perchè questo aveva tassato il clero locale. I membri del clero lasciarono la città, portando con sé gli arredi dell'altare della chiesa parrocchiale, e si rifiutarono di servire la messa e perfino di battezzare i bambini per quasi tre anni. Nel frattempo il comune di San Gimignano dovette cooptare a sue spese altri preti, nonche combattere una lunga battaglia legale contro il clero, con il coinvolgimento dello stesso papa. La disputa fu infine arbitrata in favore del comune e il clero dovette così, suo malgrado, giungere a una pacificazione. Successivamente il comune promise di rispettare le libertà ecclesiastiche, ma è dubbio che una pace duratura tra il clero ed il comune fu effettivamente ottenuta. Questo esempio mostra come un'interdetto possa aver effettivamente funzionato e quali fossero state le reazioni del ceto laico e quello ecclesiastico. In conclusione sembra che la chiesa non avesse potere sufficiente per opporsi in maniera effettiva al potere secolare e che spesso potesse raggiungere un modus vivendi piu con il compromesso che con lo scontro diretto.
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Orlandis, José. « VV.AA., Il primato del Vescovo di Roma nel primo millennio. Ricerche e testimonianze. Atti del Symposium Storico-Teologico, Roma 9-13 Ottobre 1989, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, IX + 782 pp. » Anuario de Historia de la Iglesia 2 (15 mai 2018) : 387–89. http://dx.doi.org/10.15581/007.2.25135.

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McLynn, Neil. « R. Lizzi, Vescovi e strutture ecclesiastiche nella città tardoantica (l'Italia Annonaria Nel IV–V Secolo d.C.) (Biblioteca di Athenaeum ix). Como : New Press, 1989. Pp. 255. - S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio (Problemi e ricerche di storia antica IV). Rome : ‘l'Erma’ di Bretschneider, 1989. Pp. 101, 16 pls. ISBN 88-7062-664-4. » Journal of Roman Studies 80 (novembre 1990) : 257–58. http://dx.doi.org/10.2307/300343.

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Dybski, Henryk. « Życie monastyczne w Konstantynopolu w wypowiedziach autorów IV i V wieku ». Vox Patrum 44 (30 mars 2003) : 301–18. http://dx.doi.org/10.31743/vp.8080.

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Résumé :
Dall'analisi che abbiamo presentato sopra, relativa alle fonti patristiche del IV e del V secolo sul tema „Il monachesimo a Costantinopoli", si possono trarre le seguenti considerazioni. Gia l'imperatore Costantino il Grande presto interesse a questa forma di vita. Ció e testimoniato dalla lettera, non conservatasi, indirizzata dall’imperatore stesso a sant'Antonio del deserto. Oltre a questo, anche sant'Antonio il Grande scrisse al sovrano in difesa di sant'Atanasio il Grande. Nell'anno 320, Costantino riconobbe i privilegi delle persone di ambo i sessi che sceglievano di vivere nella verginita. Alla famiglia dell'imperatore fu legata la vita di Arsenio, il quale educó i figli di Teodoro il Grande e, dopo essersi convertito, si dedicó alla vita eremitica nel deserto, in Egitto. I monaci egiziani erano soliti recarsi dall'imperatore di Costantinopoli, per esempio, con la richiesta di essere dispensati dal versamento dei tributi. Le informazioni da noi raccolte e sopra riportate sono testimonianza della presenza di legami tra Costantinopoli e i monaci d'Egitto, nonche delle influenze di questi ultimi sulla vita della capitale dell'impero. Occorre aggiungere che al palazzo imperiale fu legata la figura di Marciano di Cira, il quale rinunció alla carriera a cortee, sotto il regno di Valente, visse da eremita nei deserto della Siria. Dopo la morte dell'imperatore, si dedicó alla vita monastica, non lontano da Antiochia, anche un certo Zenone, attivo nei servizi speciali „agentes in rebus" come spia della polizia. I primi monasteri maschili e femminili di Costantinopoli furono costruiti per opera del vescovo Macedonus e del diacono Maratone, entrambi semiariani. Contro di loro si schieró il Concilio di Calcedonia, il quale promulgó un canone avente lo scopo di sottomettere i monaci alla giurisdizione dei vescovi. Un ulteriore elemento di analisi e quello relativo ai legami tra il monaco Eutiche e le pratiche eretiche. Contro il suo insegnamento intervenne papa Leone con la lettera a Flaviano, vescovo di Costantinopoli. Inoltre, la dottrina di Eutiche fu condannata anche dal Concilio di Calcedonia. Qui vivevano ancora monaci legati all'eresia macedonese. A Costantinopoli si trovavano anche delle vergini. Fra loro vi erano: la diaconessa Olimpia, le figlie dell'imperatore Arcadio (Pulcheria, Arcadia e Marina). Nella citta vissero temporaneamente Egeria, Evagrio Pontico, Melania la Giovane e san Giovanni Cassiano.
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Atzin Bahena Pérez, Martha. « La configuración de una ciudad episcopal : Ciudad Real de Chiapa durante el siglo XVI ». CHEIRON, no 1 (janvier 2022) : 187–207. http://dx.doi.org/10.3280/che2020-009.

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Nell'articolo, l'autrice indaga il ruolo svolto dalle autorità locali di Ciudad Real nell'istituzione della diocesi di Chiapa e nel tentativo di prevenire il passaggio delle decime dei parrocchiani alle altre città episcopali. La ricerca mette in luce come nella diocesi, alla fine del XVI secolo, le decime furono utilizzate per sostenere i vescovi e, specialmente, per garantire benefici alla cattedrale e al suo consiglio, che iniziarono a provvedere ai figli dei vecinos che erano nati nella provincia. Il lavoro analizza inoltre il consolidamento della diocesi in seguito ai negoziati avviati tra i consigli e i vescovi e pone altresì l'accendo sull'interesse manifestato dalle autorità al fine di espandere le cariche ecclesiastiche nel consiglio della cattedrale e nelle parrocchie, per le quali il ruolo di mediazione svolto dei prelati presso gli ordini religiosi, il clero e il consiglio secolare era fondamentale. L'articolo si sofferma inoltre ad analizzare il processo che, durante l'episcopato di Andrés de Ubilla, portò la diocesi di Chiapa a incorporare nel suo distretto il Soconusco, territorio conteso con la diocesi del Guatemala.
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Testa, Rita Lizzi. « I vescovi et il governo della cità (IV-VI secolo d.C.) ». Antiquité Tardive 26 (janvier 2018) : 149–62. http://dx.doi.org/10.1484/j.at.5.116752.

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De Virgilio, Giuseppe. « Istanze e prospettive teologiche dell’Esortazione Apostolica Verbum Domini ». Ruch Biblijny i Liturgiczny 68, no 4 (31 décembre 2015) : 293. http://dx.doi.org/10.21906/rbl.22.

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Lo studio riassume i punti principali dell’Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI riguardante «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa» (2010). La riflessione affronta il ruolo della Parola di Dio nella Chiesa, ampliando e attualizzando il cap. VI della costituzione dogmatica Dei Verbum. L’Esortazione costituisce un importante verifica del «cammino biblico» della Chiesa post-conciliare. Le indicazioni basilari provengono dal vasto lavoro di sintesi, riassunto nelle 55 Propositiones redatte nel corso della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (Città del Vaticano, 5–26 ottobre 2008). Come una «sinfonia musicale», l’articolo propone un percorso ermeneutico riprendendo le tre parti dell’Esortazione: 1) La «Parola di Dio» (nn. 6–49); 2) la «Parola nella Chiesa» (nn. 50–89); 3) la «Parola al mondo» (nn. 90–120). In conclusione si propongono alcune chiavi di lettura teologica e pastorale del ruolo della Parola di Dio per l’uomo di oggi.
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McEvoy, Meaghan. « Rome and the transformation of the imperial office in the late fourth–mid-fifth centuries AD ». Papers of the British School at Rome 78 (novembre 2010) : 151–92. http://dx.doi.org/10.1017/s0068246200000854.

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Résumé :
Sommarii:Questo articolo identifica una ragione finora non riconosciuta circa la crescente presenza imperiale a Roma dall'ascesa di Onorio nel 395 d.C. fino all'assassinio di Valentiniano III nel 455, nella forma della trasformazione dell'ufficio imperiale stesso, che stava prendendo piede in questo periodo, come risultato della ripetuta ascesa degli imperatori-bambini nel Occidente tardo-romano. Questi prolungati governi dei minori, che si verificano a un certo punto nella storia tardo-romana quando la crescita della cerimonializzazione e owiamente della cristianizzazione andarono a costituire un importante parte del ruolo delrimperatore, portarono con loro anche una piu grande necessita che la citta di Roma agisse come stage politico chiave per l'esposizione del cerimoniale imperiale, in particolare tanto il supporto della ricchezza deH'aristocrazia senatoria fondata a Roma, divenne ancora piu cruciale quanta le fonti delle entrate imperiali andarono perdute all'impero d'Occidente per via delle invasioni barbariche. In aggiunta, la fondazione del mausoleo di Onorio, adiacente alia basilica di San Pietro, e l'estesa costruzione delle chiese e gli sforzi decorativi della famiglia imperiale durante il regno di Valentiniano III, illuminarono le credenziali cristiane dell'imperatore d'Occidente, e contestano la vecchia visione che i vescovi di Roma avevano gia preso il soprawento sul ruolo delrimperatore' all'interno della citta a partire dal V secolo d.C.
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Tammaro, Ciro. « La giurisdizione episcopale nell'Alto Medievo. Riflessioni sul principio «un solo vescoso per città» sancito dal can. VIII del Concilio di Nicea I (325) ». Ius Canonicum 46, no 92 (20 décembre 2017) : 623–36. http://dx.doi.org/10.15581/016.46.14615.

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Résumé :
El artículo consiste en un examen sintético, en clave histórico-jurídica, de la administración del sacramento del orden en la Alta Edad Media. Dado que en la época apostólica e inmediatamente posterior los límites territoriales de las estructuras organizativas eclesiásticas no eran claros ni estaban definidos en el sentido actual, la potestad propia de los obispos se expresaba no como un poder sobre un espacio territorial en cuanto tal, sino sobre las personas y cosas que les habían sido confiadas por efecto de la consagración recibida y del correspondiente encargo pastoral. La necesidad, ligada a la concreta praxis de gobierno, de un ejercicio ordenado de la potestad episcopal parece ser el único motivo que se encuentra en la base de las disposiciones contenidas en el canon VIII del Concilio I de Nicea que previeron, en el despliegue de la actividad espiritual, la conocida regla «un solo obispo por ciudad», y que son analizadas en el presente estudio. El principio cardinal de la potestad episcopal era siempre el apostólico de la discretio potestatis, mitigado por el criterio de la competencia exclusiva del obispo propio sobre los fieles confiados a su cuidado pastoral.
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Zöller, Wolf. « Saeculum obscurum – der epigraphische Befund (ca. 890–1000) ». Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 99, no 1 (1 novembre 2019) : 79–114. http://dx.doi.org/10.1515/qufiab-2019-0007.

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Riassunto Questo saggio offre gli esiti di un’indagine condotta sulla produzione epigrafica della Roma altomedioevale, ponendo in particolare l’accento sugli aspetti topologici e materiali delle iscrizioni commissionate da parte dei vescovi romani e degli esponenti della nobiltà cittadina durante il X secolo. Nonostante esistano ponderosi corpora che raccolgono le iscrizioni romane, manca purtroppo a tutt’oggi una rassegna specifica della produzione epigrafica dell’Urbe per il periodo che va dall’anno 890 all’anno 1000, periodo comunemente noto come saeculum obscurum. Proprio le testimonianze epigrafiche, invece, consentono di giungere a una comprensione più profonda del linguaggio materiale e dei meccanismi di comunicazione utilizzati per la rappresentazione del potere all’interno della struttura urbana della città di Roma. Due casi di studio, riguardanti, da un lato, gli epitaffi papali conservati nella basilica di S. Pietro e, dall’altro, le iscrizioni commemorative nella basilica di S. Giovanni in Laterano dimostrano come le epigrafi siano state opportunamente ed efficacemente integrate all’interno del contesto architettonico e liturgico. Un’organizzazione più attenta dello spazio epigrafico permise infatti una interazione per così dire intensificata tra le iscrizioni e il loro contesto tanto materiale che sociale, in particolare nel momento della controversia che coinvolse papa Formoso e della ricostruzione, così carica di valori anche simbolici, della cattedrale di Roma, quando i papi rivali si misero in competizione per il controllo dello spazio urbano. Seguendo un comportamento analogo, gli esponenti dell’aristocrazia cittadina utilizzarono lastre marmoree dalle dimensioni considerevoli al fine di esibire e consolidare in forme monumentali la loro posizione politica dominante. Soprattutto i famosi Teofilatti occuparono, per così dire, le basiliche patriarcali di S. Lorenzo fuori le mura e S. Maria Maggiore per custodirvi la memoria famigliare, mentre le iscrizioni commemorative delle loro imprese edilizie attestavano il loro sforzo di ridefinire il paesaggio urbano di Roma.
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Sordyl, Krzysztof. « Powstanie i rozwój Kościoła nowacjańskiego ». Vox Patrum 55 (15 juillet 2010) : 553–67. http://dx.doi.org/10.31743/vp.4356.

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Nel periodo iniziale dello sviluppo dello scisma romano di Novaziano niente lasciava prevedere che potesse minacciare l’intera Chiesa. In quel periodo Novaziano aveva mandato in Africa, Alessandria e Antiochia i suoi emissari. Grazie alla loro attività la comunità dei novaziani cresceva in potenza, e sviluppando in modo progressivo la propria dottrina è diventato un rivale significativo della Chiesa cattolica. La Chiesa di Novaziano si è diffusa in Gallia, nei terreni dell’Italia settentrionale (Milano), a Roma, in Africa, Egitto e Siria. In Oriente si è lottato a lungo contro le sue regole e abitudini. Anche nell’Asia minore i novaziani erano numerosi. Socrate fornisce molte informazioni su di loro. Racconta dettagliatamente la storia della comunità novaziana a Costantinopoli: descrive la disposizione delle loro chiese nella città e presenta la successione dei vescovi novaziani fino alla sua epoca. Eppure non vi è modo di stabilire, anche approssimativamente, il numero di singole comunità. L’ottavo canone del concilio di Nicea presumeva che in alcuni posti la chiesa di Novaziano avesse attratto la totalità della popolazione cristiana. Le informazioni sul presbitero romano e la sua chiesa non sono precise. I trattati, che si sono conservati, mostrano piuttosto la polemica teologica che la dimensione storica. La legge civile del 326 ha creato una situazione favorevole per gli appartenenti alla chiesa di Novaziano, riconoscendogli il diritto di possedere i luoghi di culto e i cimiteri. Le comunità novaziane in Oriente si sono trovate al centro della reazione antiniceana, le cui conseguenze avevano il carattere non solo teologico, ma anche esistenziale. Socrate riporta i momenti drammatici vissuti a Costantinopoli dai cattolici e dai novaziani che non volevano accettare il credo dei seguaci degli homoios. Nella prima metà del V secolo a Roma, il papa Innocente I, Bonifacio I e Celestino I chiudono le chiese dei novaziani. Cirillo invece combatteva i novaziani ad Alessandria. Socrate ricorda che a Costantinopoli, dove sicuramente era più difficile scordarsi delle sofferenze comuni, la situazione della comunità novaziana è rimasta buona fino all’ascesa al trono di Nestorio (428). La collaborazione della Chiesa e dello stato porta gradualmente alla sparizione, prima nelle grandi città, a poi addirittura in campagna, delle comunità organizzate, e finalmente degli ultimi rappresentanti della setta. Probabilmente gli ultimi novaziani asiatici collaboravano con i pauliciani. In Oriente dalla metà dell’VIII secolo sparisce la questione dei novaziani come eretici viventi. Gli ultimi cenni risalgono ai tempi di Giovanni di Damasco e Eulogio di Alessandria. In Occidente erano spariti già da molto prima: non se ne trova quasi nessuna informazione già dalla metà del V secolo. Secondo alcuni ricercatori le idee propagate dalla chiesa di Novaziano hanno influito sui bogomilisti, e anche sui catari dell’Occidente.
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Villar, José R. « Philip GOYRET (a cura di), I Vescovi e il loro ministero, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, 221 pp., 17 x 24, ISBN 88-209-2930-9 ». Scripta Theologica 33, no 1 (7 novembre 2017) : 316. http://dx.doi.org/10.15581/006.33.12900.

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Holmes, George. « Pastori di Popolo, Storie e leggende di Vescovi e di Città nell' Italia Medievale. By Anna Benvenuti Papi. (Politica e storia, 7.) Pp. 264. Florence : Arnaud Editore, 1988. £26. » Journal of Ecclesiastical History 43, no 3 (juillet 1992) : 511. http://dx.doi.org/10.1017/s0022046900001767.

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Zuliani, Federico. « En samling politiske håndskrifter fra slutningen af det 16. århundrede : Giacomo Castelvetro og Christian Barnekows bibliotek ». Fund og Forskning i Det Kongelige Biblioteks Samlinger 50 (29 avril 2015). http://dx.doi.org/10.7146/fof.v50i0.41248.

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Résumé :
Federico Zuliani: Una raccolta di scritture politiche della fine del sedicesimo secolo. Giacomo Castelvetro e la biblioteca di Christian Barnekow. Alla pagina 68 recto del manoscritto Vault Case Ms. 5086, 73/2, Newberry Library, Chicago, ha inizio il “Registro di tutte le scritture politiche del S[igno]r Christiano Bernicò”. Il testo è preceduto da un altro elenco simile, sebbene più breve, che va sotto il titolo di “Memoriale D’alcune scritture politiche, che furon donate alla Reina Maria Stuarda Prigioniera in Inghilterra l’anno di salute m.d.lxxxiii. Dal S[igno]re di Cherelles”. Il manoscritto 5086, 73/2 fa parte di una collezione di dieci volumi (originariamente undici) appartenuti a Giacomo Castelvetro e oggi conservati negli Stati Uniti. I codici, le cui vicende di trasmissione sono, in parte, ancora poco chiare, furono sicuramente compilati da Castelvetro durante il periodo che passò in Danimarca, tra l’estate del 1594 e l’autunno del 1595. Il soggiorno danese di Castelvetro ha ricevuto attenzioni decisamente minori di quelle che invece meriterebbe. Alla permanenza in Danimarca è riconducibile infatti l’opera più ambiziosa dell’intera carriera del letterato italiano: vi vennero assemblati, con l’idea di darli poi alle stampe, proprio i volumi oggi negli Stati Uniti. La provenienza è provata tanto dall’indicazione, nei frontespizi, di Copenaghen come luogo di composizione, quanto dalle annotazioni autografe apportate da Castelvetro, a conclusione dei testi, a ricordare quando e dove fossero stati trascritti; oltre a Copenaghen vi si citano altre due località, Birkholm e Tølløse, entrambe sull’isola danese di Sjællad, ed entrambe amministrate da membri dell’influente famiglia Barnekow. E’ a Giuseppe Migliorato che va il merito di aver identificato per primo in Christian Barnekow il “Christiano Bernicò” della lista oggi alla Newberry Library. Christian Barnekow, nobile danese dalla straordinaria cultura (acquisita in uno studierejse durato ben diciassette anni), a partire dal 1591 fu al servizio personale di Cristiano IV di Danimarca. Barnekow e Castelvetro si dovettero incontrare a Edimburgo, dove il primo era giunto quale ambasciatore del monarca danese e dove il secondo si trovava già dal 1592, come maestro di italiano di Giacomo Stuart e di Anna di Danimarca, sorella di Cristiano IV. Sebbene non si possa escludere un ruolo di Anna nell’introdurli, è più probabile che sia stata la comune amicizia con Johann Jacob Grynaeus a propiziarne la conoscenza. Il dotto svizzero aveva infatti dato ospitalità a Barnekow, quando questi era studente presso l’università di Basilea, ne era divenuto amico e aveva mantenuto i rapporti nel momento in cui il giovane aveva lasciato la città elvetica. Grynaeus era però anche il cognato di Castelvetro il quale aveva sposato Isotta de’ Canonici, vedova di Thomas Liebler, e sorella di Lavinia, moglie di Grynaeus sin dal 1569. Isotta era morta però nel marzo del 1594, in Scozia, ed è facile immaginare come Barnekow abbia desiderato esprimere le proprie condoglianze al marito, cognato di un suo caro amico, e vedovo di una persona che doveva aver conosciuto bene quando aveva alloggiato presso la casa della sorella. Castelvetro, inoltre, potrebbe essere risultato noto a Barnekow anche a causa di due edizioni di opere del primo marito della moglie curate postume dal letterato italiano, tra il 1589 e il 1590. Thomas Liebler, più famoso con il nome latinizzato di Erasto, era stato infatti uno dei più acerrimi oppositori di Pietro Severino, il celebre paracelsiano danese; Giacomo Castelvetro non doveva essere quindi completamente ignoto nei circoli dotti della Danimarca. La vasta cultura di Christian Barnekow ci è nota attraverso l’apprezzamento di diversi suoi contemporanei, quali Grynaeus, Jon Venusinus e, soprattutto, Hans Poulsen Resen, futuro vescovo di Sjælland e amico personale di Barnekow a cui dobbiamo molte delle informazioni in nostro possesso circa la vita del nobile danese, grazie all’orazione funebre che questi tenne nel 1612 e che venne data alle stampe l’anno successivo, a Copenaghen. Qui, ricordandone lo studierejse, il vescovo raccontò come Barnekow fosse ritornato in Danimarca “pieno di conoscenza e di storie” oltre che di “relazioni e discorsi” in diverse lingue. Con questi due termini l’ecclesiastico danese alludeva, con tutta probabilità, a quei documenti diplomatici, relazioni e discorsi di ambasciatori, per l’appunto, che rientravano tra le letture preferite degli studenti universitari padovani. La lista compilata da Castelvetro, dove figurano lettere e istrutioni ma, soprattutto, relationi e discorsi, era un catalogo di quella collezione di manoscritti, portata dall’Italia, a cui fece riferimento l’ecclesiastico danese commemorando Christian Barnekow. Tutti coloro i quali si sono occupati dei volumi oggi negli Stati Uniti si sono trovati concordi nel ritenerli pronti per la pubblicazione: oltre alle abbondanti correzioni (tra cui numerose alle spaziature e ai rientri) i volumi presentano infatti frontespizi provvisori, ma completi (con data di stampa, luogo, impaginazione dei titoli – a loro volta occasionalmente corretti – motto etc.), indici del contenuto e titolature laterali per agevolare lettura e consultazione. Anche Jakob Ulfeldt, amico e compagno di viaggi e di studi di Barnekow, riportò a casa una collezione di documenti (GKS 500–505 fol.) per molti aspetti analoga a quella di Barnekow e che si dimostra di grande importanza per comprendere peculiarità e specificità di quella di quest’ultimo. I testi di Ulfeldt risultano assemblati senza alcuna coerenza, si rivelano ricchi di errori di trascrizione e di grammatica, e non offrono alcuna divisione interna, rendendone l’impiego particolarmente arduo. Le annotazioni di un copista italiano suggeriscono inoltre come, già a Padova, potesse essere stato difficoltoso sapere con certezza quali documenti fossero effettivamente presenti nella collezione e quali si fossero smarriti (prestati, perduti, pagati ma mai ricevuti…). La raccolta di Barnekow, che aveva le stesse fonti semi-clandestine di quella dell’amico, doveva trovarsi in condizioni per molti versi simili e solo la mano di un esperto avrebbe potuto portarvi ordine. Giacomo Castelvetro – nipote di Ludovico Castelvetro, uno dei filologi più celebri della propria generazione, e un filologo egli stesso, fluente in italiano, latino e francese, oltre che collaboratore di lunga data di John Wolfe, editore londinese specializzato nella pubblicazione di opere italiane – possedeva esattamente quelle competenze di cui Barnekow aveva bisogno e ben si intuisce come mai quest’ultimo lo convinse a seguirlo in Danimarca. I compiti di Castelvetro presso Barnekow furono quelli di passarne in rassegna la collezione, accertarsi dell’effettivo contenuto, leggerne i testi, raggrupparli per tematica e area geografica, sceglierne i più significativi, emendarli, e prepararne quindi un’edizione. Sapendo che Castelvetro poté occuparsi della prima parte del compito nei, frenetici, mesi danesi, diviene pure comprensibile come mai egli portò con sé i volumi oggi negli Stati Uniti quando si diresse in Svezia: mancava ancora la parte forse più delicata del lavoro, un’ultima revisione dei testi prima che questi fossero passati a un tipografo perché li desse alle stampe. La ragione principale che sottostò all’idea di pubblicare un’edizione di “scritture politiche” italiane in Danimarca fu la presenza, in tutta l’Europa centro settentrionale del tempo, di una vera e propria moda italiana che i contatti tra corti, oltre che i viaggi d’istruzione della nobiltà, dovettero diffondere anche in Danimarca. Nel tardo Cinquecento gli autori italiani cominciarono ad essere sempre più abituali nelle biblioteche private danesi e la conoscenza dell’italiano, sebbene non completamente assente anche in altri settori della popolazione, divenne una parte fondamentale dell’educazione della futura classe dirigente del paese nordico, come prova l’istituzione di una cattedra di italiano presso l’appena fondata Accademia di Sorø, nel 1623. Anche in Danimarca, inoltre, si tentò di attrarre esperti e artisti italiani; tra questi, l’architetto Domenico Badiaz, Giovannimaria Borcht, che fu segretario personale di Frederik Leye, borgomastro di Helsingør, il maestro di scherma Salvator Fabris, l’organista Vincenzo Bertolusi, il violinista Giovanni Giacomo Merlis o, ancora, lo scultore Pietro Crevelli. A differenza dell’Inghilterra non si ebbero in Danimarca edizioni critiche di testi italiani; videro però la luce alcune traduzioni, anche se spesso dal tedesco, di autori italiani, quali Boccaccio e Petrarca, e, soprattutto, si arrivò a pubblicare anche in italiano, come dimostrano i due volumi di madrigali del Giardino Novo e il trattato De lo schermo overo scienza d’arme di Salvator Fabris, usciti tutti a Copenaghen tra il 1605 e il 1606. Un’ulteriore ragione che motivò la scelta di stampare una raccolta come quella curata da Castelvetro è da ricercarsi poi nello straordinario successo che la letteratura di “maneggio di stato” (relazioni diplomatiche, compendi di storia, analisi dell’erario) godette all’epoca, anche, se non specialmente, presso i giovani aristocratici centro e nord europei che studiavano in Italia. Non a caso, presso Det Kongelige Bibliotek, si trovano diverse collezioni di questo genere di testi (GKS 511–512 fol.; GKS 525 fol.; GKS 500–505 fol.; GKS 2164–2167 4º; GKS 523 fol.; GKS 598 fol.; GKS 507–510 fol.; Thott 576 fol.; Kall 333 4º e NKS 244 fol.). Tali scritti, considerati come particolarmente adatti per la formazione di coloro che si fossero voluti dedicare all’attività politica in senso lato, supplivano a una mancanza propria dei curricula universitari dell’epoca: quella della totale assenza di qualsivoglia materia che si occupasse di “attualità”. Le relazioni diplomatiche risultavano infatti utilissime agli studenti, futuri servitori dello Stato, per aggiornarsi circa i più recenti avvenimenti politici e religiosi europei oltre che per ottenere informazioni attorno a paesi lontani o da poco scoperti. Sebbene sia impossibile stabilire con assoluta certezza quali e quante delle collezioni di documenti oggi conservate presso Det Kongelige Bibliotek siano state riportate in Danimarca da studenti danesi, pare legittimo immaginare che almeno una buona parte di esse lo sia stata. L’interesse doveva essere alto e un’edizione avrebbe avuto mercato, con tutta probabilità, anche fuori dalla Danimarca: una pubblicazione curata filologicamente avrebbe offerto infatti testi di gran lunga superiori a quelli normalmente acquistati da giovani dalle possibilità economiche limitate e spesso sprovvisti di una padronanza adeguata delle lingue romanze. Non a caso, nei medesimi anni, si ebbero edizioni per molti versi equivalenti a quella pensata da Barnekow e da Castelvetro. Nel 1589, a Colonia, venne pubblicato il Tesoro politico, una scelta di materiale diplomatico italiano (ristampato anche nel 1592 e nel 1598), mentre tra il 1610 e il 1612, un altro testo di questo genere, la Praxis prudentiae politicae, vide la luce a Francoforte. La raccolta manoscritta di Barnekow ebbe però anche caratteristiche a sé stanti rispetto a quelle degli altri giovani danesi a lui contemporanei. Barnekow, anzitutto, continuò ad arricchire la propria collezione anche dopo il rientro in patria come dimostra, per esempio, una relazione d’area fiamminga datata 1594. La biblioteca manoscritta di Barnekow si distingue inoltre per l’ampiezza. Se conosciamo per Ulfeldt trentadue testi che questi portò con sé dall’Italia (uno dei suoi volumi è comunque andato perduto) la lista di “scritture politiche” di Barnekow ne conta ben duecentoottantaquattro. Un’altra peculiarità è quella di essere composta inoltre di testi sciolti, cioè a dirsi non ancora copiati o rilegati in volume. Presso Det Kongelige Bibliotek è possibile ritrovare infatti diversi degli scritti registrati nella lista stilata da Castelvetro: dodici riconducibili con sicurezza e sette per cui la provenienza parrebbe per lo meno probabile. A lungo il problema di chi sia stato Michele – una persona vicina a Barnekow a cui Castelvetro afferma di aver pagato parte degli originali dei manoscritti oggi in America – è parso, di fatto, irrisolvibile. Come ipotesi di lavoro, e basandosi sulle annotazioni apposte ai colophon, si è proposto che Michele potesse essere il proprietario di quei, pochi, testi che compaiono nei volumi oggi a Chicago e New York ma che non possono essere ricondotti all’elenco redatto da Castelvetro. Michele sarebbe stato quindi un privato, legato a Barnekow e a lui prossimo, da lui magari addirittura protetto, ma del quale non era al servizio, e che doveva avere presso di sé una biblioteca di cui Castelvetro provò ad avere visione al fine di integrare le scritture del nobile danese in vista della sua progettata edizione. Il fatto che nel 1596 Michele fosse in Italia spiegherebbe poi come potesse avere accesso a questo genere di opere. Che le possedesse per proprio diletto oppure che, magari, le commerciasse addirittura, non è invece dato dire. L’analisi del materiale oggi negli Stati Uniti si rivela ricca di spunti. Per quanto riguarda Castelvetro pare delinearsi, sempre di più, un ruolo di primo piano nella diffusione della cultura italiana nell’Europa del secondo Cinquecento, mentre Barnekow emerge come una figura veramente centrale nella vita intellettuale della Danimarca a cavallo tra Cinque e Seicento. Sempre Barnekow si dimostra poi di grandissima utilità per iniziare a studiare un tema che sino ad oggi ha ricevuto, probabilmente, troppa poca attenzione: quello dell’importazione in Danimarca di modelli culturali italiani grazie all’azione di quei giovani aristocratici che si erano formati presso le università della penisola. A tale proposito l’influenza esercitata dalla letteratura italiana di “maneggio di stato” sul pensiero politico danese tra sedicesimo e diciassettesimo secolo è tra gli aspetti che meriterebbero studi più approfonditi. Tra i risultati meno esaurienti si collocano invece quelli legati all’indagine e alla ricostruzione della biblioteca di Barnekow e, in particolare, di quanto ne sia sopravvissuto. Solo un esame sistematico, non solo dei fondi manoscritti di Det Kongelige Bibliotek, ma, più in generale, di tutte le altre biblioteche e collezioni scandinave, potrebbe dare in futuro esiti soddisfacenti.
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