Littérature scientifique sur le sujet « SCIENZE PENALISTICHE »

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Articles de revues sur le sujet "SCIENZE PENALISTICHE"

1

Bartoli, Roberto. « Il diritto penale dell'immigrazione : strumento di tutela dei flussi immigratori o mezzo di esclusione e indebolimento dello straniero ? » QUESTIONE GIUSTIZIA, no 2 (juin 2011) : 17–32. http://dx.doi.org/10.3280/qg2011-002003.

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Résumé :
1. Quale l'atteggiamento del giurista davanti a un diritto "punitivo" sempre piů illiberale? / 2. Dal diritto "punitivo" dell'annientamento e del nemico al diritto "punitivo" dell'esclusione e dell'indebolimento / 3. I caratteri strutturali del diritto "punitivo" dell'esclusione e dell'indebolimento / 4. Il rapporto tra scienza penalistica e diritto dell'immigrazione e la difficoltŕ ad affrontare i "reali" problemi di garanzia (4.1. I problemi di legittimitŕ costituzionale posti dal diritto "punitivo" dell'esclusione / 4.2. I problemi di legittimitŕ costituzionale posti dal diritto "punitivo" dell'indebolimento) / 5. I mezzi di tutela: tra giudici dei diritti e giudice delle leggi.
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2

Musumeci, Emilia. « La scienza giuridica penalistica in Italia tra otto e novecento : crisi o rinascita ? » DEMOCRAZIA E DIRITTO, no 4 (avril 2017) : 123–48. http://dx.doi.org/10.3280/ded2016-004006.

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3

Gentile, Gianluca. « Alice, Humpty Dumpty e la penalistica italiana : ovvero, una breve storia dell'interpretazione letterale dall'illuminismo all'ermeneutica giuridica ». Diacronìa, no 1 (2022) : 179–222. http://dx.doi.org/10.12871/97888331811965.

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4

Simón Castellano, Pere. « Basile, Fabio ; Caterini, Mario ; Romano, Sabato (eds.), Il sistema penale ai confini delle hard sciences. Percorsi epistemologici tra neuroscienze e intelligenza artificiale, Colección Quaderni dell’Istituto di studi penalistici «Alimena», Centro di ricerc ». Estudios de Deusto 69, no 2 (27 décembre 2021) : 367–72. http://dx.doi.org/10.18543/ed-69(2)-2021pp367-372.

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Résumé :
El Derecho, como reflejo de la sociedad que pretende regular, no puede quedar al margen de los cambios y transformaciones que en el seno de esta se producen. Luego las leyes son una suerte de traje a medida de la sociedad que pretenden regular; sólo así adquirirán estas la vigencia y eficacia deseables para cualquier norma jurídica.
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Thèses sur le sujet "SCIENZE PENALISTICHE"

1

RANZATTO, FABIANA. « LA RESPONSABILITA' PENALE DEL DIFENSORE : NOVITA' LEGISLATIVE E FATTISPECIE (APPARENTEMENTE) CONSOLIDATE ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2003. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12603.

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FOLADORE, CHIARA. « IL DELITTO DI AGGIOTTAGGIO BANCARIO ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2004. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12546.

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3

GIALUZ, MITJA. « IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2004. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12548.

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Résumé :
2002/2003
Inserito nel tessuto codicistico quasi surrettiziamente, nel contesto di una manovra legislativa diretta a rafforzare gli strumenti normativi a «tutela della sicurezza dei cittadini», il «ricorso straordinario per errore materiale o di fatto» costituisce un unicum nella storia legislativa dell'Italia unita. Prima del 2001, non era mai stato previsto - almeno in ambito processuale penale - un mezzo destinato a porre rimedio agli errori della Corte di cassazione, i provvedimenti della quale, in virtù della posizione di vertice attribuita alla suprema istanza giurisdizionale (art. 65 o.g.), erano da sempre considerati assolutamente inoppugnabili. In passato, per la verità, non erano mancati tentativi - mai, peraltro, andati a buon fine - volti a superare la rigidità di tale canone: non nasce certo nel nuovo millennio quell'ansia di giustizia che reclama l'emendabilità degli errori palesi del giudice ultimo. Sennonché, prima del 200 l, il legislatore aveva sempre ritenuto prevalente l'esigenza di tutela del giudicato formale, mantenendo fermo il principio dell'assoluta intangibilità; con la conseguenza che la risposta alle esigenze di equità cui si è fatto cenno finiva per essere affidata esclusivamente ai rimedi pretori individuati dalla Cassazione: da un lato, alla correzione degli errori materiali e, dall'altro, alla revoca delle ordinanze. Si trattava, però, di istituti destinati ad altri fini, di guisa che il loro impiego in chiave impugnatoria implicava notevoli forzature, determinando una prassi comprensibilmente variegata e, ciò che più conta, incerta. In alcuni casi, il supremo Collegio sostituiva le proprie decisioni viziate da errori manifesti, mentre in altri, privilegiando l'istanza di tutela dei valori sottesi all'assoluta inoppugnabilità, rigettava le richieste di "correzione". A mutare il quadro sono intervenute alcune pronunce con cui la Corte costituzionale ha affermato - anzitutto in ambito processuale civile (Corte cast. 17/86 e 36/91 ), poi nell'orbita del rito penale (Corte cost. 395/2000)- la necessità di prevedere rimedi agli errori di fatto in cui incorra la Cassazione. Proprio per adeguare i distinti sistemi processuali alle sollecitazioni della giurisprudenza costituzionale, il legislatore ha introdotto, prima la revocazione delle decisioni della Cassazione civile e, più recentemente, il ricorso straordinario avverso le pronunce adottate dalla Cassazione in sede penale. La disciplina positiva dell'istituto di recente conio risulta- anche a causa delle sue vicende genetiche- per un verso ambigua, sia sul piano dell'inquadramento sistematico del rimedio, sia su quello del vizio censurabile; per altro verso, lacunosa, soprattutto in relazione ai profili procedimentali. Nell'elaborato si è, dunque, analizzato il concorso straordinario per errore di fatto, tentando di far luce su tre snodi cruciali: a) l profili sistematici -+ Da tale punto di vista, dopo aver preso atto dell'irriducibile eterogeneità del ricorso per errore materiale - avente natura stricto sensu correttiva - e del ricorso per errore di fatto, si è verificata la possibilità di ricondurre quest'ultimo alla categoria dogmatica della revoca. L'indagine ha avuto esito negativo e, pertanto, si è approdati ali' assunto secondo cui il mezzo in parola ha natura impugnatoria. A questo punto, si imponeva di specificare se esso appartenga alla species delle impugnazioni ordinarie o a quella dei mezzi straordinari. È sulla scorta di indici testuali e costituzionali, che si è giunti a ritenere che il mezzo de quo si collochi nel novero delle impugnazioni extra ordinem. Sempre valorizzando le direttive desumibili dalla Grzmdnorm, si è tentato di dimostrare che, se di impugnazione straordinaria si tratta, è pur sempre un mezzo dotato di duplice fisionomia. In particolare, nei casi in cui l'errore di fatto abbia condotto a negare al condannato il controllo di legittimità, il ricorso straordinario presenta carattere strettamente rescindente: in sintesi, il rimedio comporta l'annullamento della decisione della Cassazione, la conseguente caducazione del precedente giudicato fondato su di essa e, quindi, la riapertura del processo. Proprio perciò, esso mostra una forma ibrida. Al di fuori delle ipotesi di violazione del diritto al processo di cassazione, invece, il ricorso si atteggia a rimedio rinnovatori o. All'esito di questa prima parte, si sono esaminati i due corollari della natura straordinaria dell'impugnazione: da un canto, la regola secondo cui il mezzo si rivolge esclusivamente ai provvedimenti che definiscono il processo; dall'altro, la norma che ne limita l' operatività alle sole evenienze in cui la decisione viziata abbia concorso a perfezionare la fattispecie del giudicato di condanna. b) La nozione di errore di fatto -+ Con riferimento al vizio denunciabile mercé il ricorso, il codice impiega una locuzione - "errore di fatto" - i confini della quale appaiono piuttosto sfumati. Anzitutto, viene da chiedersi a quale nozione di fatto si riferisca la norma dell'art. 625-bis c.p.p., posto che la Cassazione è notoriamente giudice deputato a sindacare solo la quaestio iuris. Al fine di risolvere il quesito, ci si è brevemente intrattenuti sulla natura della cognizione della suprema Corte. Si è constatato come alla base del giudizio di legittimità si collochino sempre dei fatti: quelli, nella specie, espressi da enunciati relativi alle condotte tenute dalle parti o riguardanti l'attività svolta dal giudice nel corso del processo. Fatti, questi, per lo più rappresentati in documenti - intesi come supporto cartolare, frutto della verbalizzazione- suscettibili di essere interpretati. È qui che è sorto il secondo interrogativo: ci si è chiesti se, ai fini del ricorso straordinario, rilevi unicamente l'errore nella conoscenza immediata del fatto cartolare- ciò che si è ridefinito "errore protocollare"- oppure anche l'errore di interpretazione, di valutazione dello stesso. La tesi restrittiva si è giustificata facendo leva, in particolare, sulla necessità di tutela del giudicato. Appurato dunque che, nel contesto dell'art. 625-bis c.p.p., è destinato a rilevare il solo errore protocollare, si è posto in luce come questo non sia, per così dire, autosufficiente: in tanto risulta censurabile, in quanto si sia effettivamente tradotto nell'invalidità- intesa in senso ampio, come ingiustizia o nullità-- della pronuncia del supremo Collegio. Ne discende che l'errore di fatto si configura, in realtà, come figura complessa, risultante dalla somma di errore protocollare e invalidità, e destinata anch'essa - come l'impugnazione - ad acquisire lineamenti diversi: vero e proprio vizio, quando si traduce nella lesione del diritto al sindacato di legittimità; semplice condizione di ammissibilità di un nuovo giudizio da parte della Cassazione, negli altri casi. c) l profili procedimentali -+ In relazione al modus procedendi, la normativa contenuta nell'art. 625-bis c.p.p. si rivela alquanto lacunosa. Il che suscita molteplici questioni, la soluzione delle quali si è individuata suggerendo l'applicazione, vuoi delle regole generali tese a disciplinare i rimedi aventi natura impugnatoria, vuoi delle norme sul ricorso ordinario per cassazione. Alle disposizioni dettate dal titolo primo del libro nono si è fatto capo per integrare la disciplina sotto il profilo dei soggetti legittimati a impugnare e delle modalità di presentazione del ricorso; mentre, al fine di risolvere i dubbi legati al vaglio preliminare di inammissibilità del ricorso, si è prospettata la necessità di applicare la statuizione dell'art. 61 O c.p.p. Infine, si è affrontato il tema dei provvedimenti conclusivi dell'udienza camerale, destinata all'accertamento dell'errore di fatto: sebbene il codice menzioni genericamente i «provvedimenti necessari per correggere l'errore», ancora una volta, assumerà rilevanza la distinzione tra le fattispecie in cui il ricorso ha natura rescindente e quelle in cui presenta carattere rinnovatorio. Unicamente nelle prime, al termine dell'udienza in camera di consiglio, ove la Corte accerti l'effettiva sussistenza dell'errar facti, dovrà annullare il proprio precedente decisum e rescindere il giudicato di condanna. Nelle altre, invece, potrà rinnovare ~ se del caso, immediatamente ~ il sindacato sulle censure proposte con l'originario ricorso e, solo al termine del giudizio, sarà chiamata eventualmente a porre nel nulla il provvedimento impugnato.
XVI Ciclo
1975
Versione digitalizzata della tesi di dottorato cartacea.
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4

Tagliani, Ida. « DIRITTO ALL'INFORMAZIONE SULL'ACCUSA E PROCESSO PENALE ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3079.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
E’ rintracciabile, nell’attuale sistema processualpenalistico, un paradigma del diritto alla “informazione sull’accusa”, quale consacrato nell’art. 111 comma III Cost.? La risposta a simile quesito – cui si propone di giungere la presente ricerca – impone di saggiare gli istituti funzionali, nella fase investigativa, a concretizzare tale diritto alla luce del connotati del “giusto processo”, mediante un duplice percorso che, per un verso, esplora la possibilità di reductio ad unum dell’apparato informativo e, per altro verso, ne sonda il grado di effettività. L'opera si articola nelle tre parti di seguito illustrate. La prima sezione è dedicata alla definizione del concetto di “diritto all’informazione sull’accusa” nella teoria delle fonti. Il primo capitolo è dedicato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al Patto internazionale sui diritti civili e politici che, per primi, hanno configurato una organico modello di fair trial, ove il diritto all’informazione sull’accusa partecipa della duplice natura di precipitato del diritto di difesa e presupposto per l’esercizio, all’interno del processo, delle singole facoltà difensive. A fronte della laconica previsione dell’art. 6 § 3 lett. a CEDU – che, al pari dell’omologa disposizione contenuta nell’art. 14 § 3 lett. a ICCPR si risolve in una mera enunciazione dei caratteri della comunicazione –, si impone la ricostruzione del paradigma informativo attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di Strasburgo affronta la tematica senza atteggiamenti preconcetti e sviluppa un modello di informazione, per un verso, dinamico e duttile, atto a modularsi attraverso le diverse fasi procedimentali, e, per altro verso, conforme ai canoni della tempestività e della efficienza. A tal fine, il concetto stesso di accusation, cui il diritto all’informazione è ancorato, non pare postulare formule o atti sacramentali, ma si traduce nella attività dell’organo inquirente che, nel caso concreto, sia abbia a determinare «ripercussioni importanti» sulla sfera personale della persona sottoposta alle indagini: l’avvio del procedimento, l’iscrizione della notizia di reato, l’esecuzione di una perquisizione o di un sequestro. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione del diritto all’informazione sull’accusa all’interno della nostra Carta costituzionale, muovendo dalla sua “archeologia”. Invero, sin dai primi anni ’60, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla possibilità di enucleare un modello di fair trial dalle disposizioni contenute nella Costituzione. Lo sforzo euristico degli interpreti si è inizialmente incentrato sull’art. 24 Cost., fino a giungere, nel 1996, all’esplicitazione, ad opera della giurisprudenza costituzionale, di un canone del “giusto processo” quale formula scaturente dal coordinamento dei «principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio». Parallelamente al consolidarsi di una via costituzionale ante litteram al due process of law, si assiste al progressivo manifestarsi dell’influenza delle norme contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti della persona e processo penale. Simile fenomeno – che intreccia la tematica del rango rivestito, nella gerarchia interna delle fonti, dalle disposizioni pattizie – assume particolare rilievo nelle pronunce della Consulta, ove l’art. 6 § 3 CEDU viene evocato, con crescente frequenza, quale parametro “ausiliario” nel giudizio di conformità delle norme subordinate alla Costituzione. L’escalation culmina, nel 1987, con l’inserzione dell’ossequio ai principi enunciati nelle convenzioni internazionali di riferimento tra i criteri direttivi atti guidare, ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegato alla redazione dell’attuale codice di procedura penale. La questione della diretta precettività, nel nostro ordinamento, delle norme pattizie – elette a principio informatore del codice di rito – viene, peraltro, messa in secondo piano dalla introduzione, ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, della disciplina del giusto processo nel tessuto costituzionale. In controtendenza rispetto alla concezione “minimalista” postulata dai giudici costituzionali, da ultimo, con la sentenza n. 361 del 1998, il legislatore del 1999 introduce, nell’art. 111 Cost., un concetto “forte” di contraddittorio, che partecipa della duplice natura di canone oggettivo di esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto fulcro del giusto processo, e di garanzia soggettiva operante nell’ambito penale. La centralità del diritto di contraddire consente di attribuire spessore teleologico alla prerogativa, riconosciuta a ogni persona sottoposta a procedimento, di essere informata, nel più breve tempo possibile e in via riservata dell’accusa elevata a suo carico: si attua in tal modo quel “diritto a difendersi conoscendo” che costituisce imprescindibile prodromo per imbastire qualsivoglia tutela processuale delle ragioni dell’imputato. Esaurita la disamina dei principi, la ricerca si impernia sulla ricognizione della fenomenologia informativa nell’attuale sistema codicistico, con riferimento a quegli istituti che sono funzionali a consentire la conoscenza “sul processo” e “nel processo” nella fase investigativa, che, sulla scorta dell’esegesi operata sull’art. 111 comma III Cost., costituisce la naturale sedes materiae del diritto all’informazione sull’accusa. Viene in rilievo l’istituto della informazione di garanzia, funzionale nell’impianto originario del codice di rito, a squarciare la segretezza investigativa con una seppur embrionale parentesi di discovery connessa all’espletamento di un atto cui il difensore abbia diritto ad assistere. Lo strumento informativo in argomento permette di focalizzare l’attenzione sul canone della riservatezza, oggetto di positivo richiamo da parte dell’art. 111 comma III Cost. Dotato di un requisito interno atto, in tesi, a consentire il massimo riserbo – ossia l’invio mediante piego chiuso raccomandato – l’istituto in argomento ha patito, nei primi anni novanta, una sistematica strumentalizzazione che, da presidio di garanzia per la persona sottoposta alle investigazioni quale era stato concepito, l’ha trasformato in veicolo di condanna anticipata. Il conseguente tentativo, operato dal legislatore del 1995, di restituire respiro all’informazione di garanzia ha, invece, finito per comprimere il diritto della persona indagata alla conoscenza della sussistenza di un’investigazione a suo carico attraverso la compressione dell’ambito di operatività dell’art. 369 c.p.p. Contestualmente alla modifica della disciplina dell’informazione di garanzia, in una logica di “pesi e contrappesi” si è inteso recuperare uno spazio di discovery mediante la modifica della disciplina del registro delle notizie di reato, regolato dall’art. 335 c.p.p., il cui accesso, nella lettera originaria del codice di rito, era interdetto sino alla formulazione dell’imputazione. Il riconoscimento del diritto della persona cui il reato è attribuito di ricevere comunicazione delle iscrizioni a proprio carico non ha, invero, sortito un effetto compensativo, atteso che la disciplina dell’accesso – lungi dal configurare una inviolabile prerogativa – patisce due testuali eccezioni. La prima, connessa alla tipologia della notitia criminis, è funzionale ad interdire ex ante la conoscibilità delle iscrizioni relative a procedimenti che abbiano ad oggetto reati di particolare gravità. La seconda è ricondotta al potere, attribuito al pubblico ministero, di secretazione delle inscrizioni in presenza di specifiche esigenze investigative. In una logica di disorganica stratificazione degli istituti, nel 1999 – dopo il fallimento dell’esperienza della contestazione della “imputazione provvisoria” di cui alla l. n. 234 del 1997 – fa il suo ingresso, sulla scena processuale, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi del quale si onera il pubblico ministero, nell’ipotesi in cui non intenda richiedere l’archiviazione, di provvedere, a pena della nullità del successivo atto di esercizio dell’azione penale, di notificare alla persona sottoposta alle indagini un’informativa in cui l’ostensione degli atti di indagine si coniuga al riconoscimento di un corredo di facoltà difensive. L’avviso in argomento, contrariamente agli auspici del legislatore, lungi dall’attestarsi quale strumento principe per l’attuazione del diritto all’informazione sull’accusa, si è rivelato un «garanzia incompiuta» che, seppur dotata dei requisiti della comprensibilità e del dettaglio, contraddice il richiamo al «tempo più breve possibile», in tal modo deprivando il suo destinatario (anche) del beneficio della fruizione del tempo e delle facilitazioni necessarie per la predisposizione della strategia difensiva. A tale aporia funzionale si assomma la progressiva compressione, anche sulla scorta dell’esegesi giurisprudenziale, dell’ambito di operatività dell’istituto che, pertanto, non è idoneo a fungere da paradigma del diritto all’informazione sull’accusa. Dopo una breve analisi della disciplina dell’informazione sul diritto di difesa, regolato dall’art. 369-bis c.p.p., e sugli strumenti informativi operanti nel procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato (d.lgs. n. 231 del 2001), il presente lavoro si chiude con un bilancio sulla funzionalità dell’apparato informativo configurato nel codice di rito penale alla concretizzazione del principio consacrato nell’art. 111 comma III Cost. Sul profondo deficit della strumentazione – al di là della mancata rispondenza ai singoli connotati della tempestività, del dettaglio e della riservatezza – pare pesare la carenza di organicità nell’affidare l’attuazione del diritto all’informazione ad una pluralità di istituti privi di coordinamento e suscettibili di applicazione solo eventuale.
XIX Ciclo
1973
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5

Kalaja, Kledi. « La frode nel settore asicurativo : profili problematici e prospettive di riforma ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10377.

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Résumé :
2012/2013
La scelta della frode assicurativa, come oggetto della tesi di dottorato, nasce dalla curiosità di meglio conoscere il fenomeno fraudolento in un settore, quello assicurativo, in cui sono impiegato da più di due anni, e con attenzione ad un tema non approfondito dalla letteratura e dalla giurisprudenza. Allo scopo di determinare il fenomeno illecito si è proceduto da prima ad un’analisi statistica del fenomeno fraudolento in Italia, operando anche un’analisi comparativa con alcuni sistemi stranieri; secondariamente l’analisi si orienterà verso la sfera giuridica, in questo senso, di particolare interesse, sia da un punto di vista dottrinale che giurisprudenziale, sono gli istituti della frode di cui all’art. 640 c.p. e della frode assicurativa di cui all’art. 642 c.p. Al termine dello studio, in fase conclusiva, si procederà ad un’analisi dei dati emersi, prospettando alcune possibili riforme che paiono indispensabili per combattere uno dei più diffusi fenomeni illeciti del nostro paese.
XXVI Ciclo
1985
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6

Lorenzetto, Elisa. « Dal difensore inquirente al difensore istruttore.Genesi, evoluzioni e involuzioni del diritto di difendersi indagando ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2636.

Texte intégral
Résumé :
2006/2007
ABSTRACT A dispetto di un’intitolazione tutt’altro che equivoca, le «disposizioni in materia di indagini difensive», innestate con l. 7 dicembre 2000, n. 397, nel tessuto dei codici di diritto penale – sostanziale e processuale –, introducono nuove prerogative per i soggetti della difesa che vanno ben oltre il riconoscimento espresso della facoltà investigativa, dovendo osservarsi come il tratto saliente dell’interpolazione sia rappresentato dall’estensione al difensore del potere di formazione unilaterale della prova. Innovazione epocale, quest’ultima, che viene attuata quasi in sordina dal legislatore, attraverso una disposizione di collegamento – l’art. 391 decies c.p.p. – che legittima il passaggio delle risultanze difensive attraverso i canali di comunicazione che tuttora intercorrono tra la fase preliminare e il processo, consentendo l’eccezionale trasfigurazione dell’elemento d’indagine in prova. Un autentico potere creativo compete, in perfetta simmetria all’accusatore, anche al difensore, complice un sistema votato negli intenti all’accoglimento del contraddittorio forte per la formazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) ma, di fatto, propenso a darvi attuazione lasciando sopravvivere – nelle ipotesi impossibili, consensuali ovvero inquinate (art. 111 comma 5 Cost.) – il pieno valore probatorio dell’atto di matrice unilaterale. A scontarne gli eccessi, tuttavia, è proprio la dimensione puramente inquirente dell’agire difensivo che sfuma i propri confini sovrapponendosi a inusitate doti istruttorie, delle quali si trova a condividere investiture formali, tassatività di previsioni, rigide forme d’azione e di documentazione nonché il severo regime di sanzioni, processuali e penali, smarrendo l’agilità di movimento che per definizione connota la fase di investigazione. Un effetto anomalo che svilisce il ruolo parziale e privatistico del difensore proprio mentre ritiene di elevarlo a profili pubblicistici di partecipazione – addirittura di collaborazione – con l’amministrazione della giustizia, secondo una combinazione dissonante che condanna il sistema all’insanabile contraddizione. Urge il recupero di una funzione privata, quella difensiva, cui competono nella fase preliminare l’attività di ricerca, in quanto strumentale alla successiva impostazione della strategia – anche probatoria – ovvero l’acquisizione di elementi, da spendere variamente negli incidenti procedimentali, senza soffrire limitazioni o inibizioni derivanti dall’inappropriato riconoscimento di un’attitudine creativa unilaterale in punto di prova. La strada da percorre per pianificare una simile rivoluzione, quindi, non può che snodarsi lungo il versante oggettivo del metodo dialettico, da attuare pienamente attraverso il deciso ripudio del potere di formare unilateralmente la prova ad opera delle parti, unico presupposto cui ancorare un progetto di tendenziale emancipazione del diritto di difendersi indagando. Questa è l’impostazione che si è cercato di imprimere al seguente studio, volto a individuare ragionevoli spazi di liberalizzazione e deformalizzazione dell’agire difensivo, autenticamente inquirente e non più istruttorio. A cominciare dal confronto con l’apparato delle fonti del diritto di difendersi indagando (Parte Prima), articolato nelle sue componenti di principio, normative e deontologiche, la cui evoluzione e stratificazione ha consentito di porre in luce come la genesi del libero potere inquirente privato riposi sull’implicazione oggettiva di sistema che riconosce valore indefettibile al contraddittorio nella formazione della prova, attraverso l’irrigidimento del rapporto tra regola e sue eccezioni e l’ostruzione dei canali che consentono all’elemento unilaterale di essere apprezzato come prova in vista della decisione sul merito dell’imputazione. Particolare attenzione si è dedicata, quindi, alla disamina puntuale del dato normativo attuale (Parte Seconda), tramite la ricognizione e l’esegesi delle singole disposizioni – segnatamente, gli artt. 391 bis e ss. c.p.p., ma non solo – introdotte nel codice di rito dalla nuova legge, ove il dato sorprendente è rappresentato dall’estrema cavillosità che ha accompagnato l’innesto codicistico del “microsistema” delle investigazioni difensive, agli antipodi del libero agire inquirente che dovrebbe potersi riconoscere al difensore. All’evidenza, un ansiogeno horror vacui ha indotto il legislatore a non lasciare sforniti di previsione i molteplici aspetti dell’inchiesta privata, adoperandosi alacremente a disciplinare i profili soggettivi e temporali di legittimazione, le forme d’azione e di documentazione, i canali di presentazione e utilizzazione delle risultanze nonché le patologie sanzionabili in via processuale, penale o disciplinare. Un’opera mastodontica, eppure insoddisfacente. Invero, nella preoccupazione di varare un efficiente statuto di legalità formale, idoneo a sopperire al deficit di genuinità sostanziale che non consentirebbe alla risultanza privata – in quanto unilaterale – di assurgere al rango di prova in giudizio, si è tralasciato di dotare la difesa di incisivi poteri inquirenti nel momento dell’effettivo bisogno, condannando alla sterilità dimostrativa, anche nei contesti procedimentali, i materiali raccolti senza l’osservanza di protocolli formali (art. 391 bis comma 6 c.p.p.). A conferma dell’assunto, si è ritenuto di analizzare gli approdi applicativi cui è giunta – o si prevede perverrà – la prassi giurisprudenziale (Parte Terza), autentiche involuzioni che segnano una drastica battuta d’arresto a quella che avrebbe dovuto rappresentare la sospirata evoluzione del diritto di difendersi indagando. Anomalie, queste utlime, germinate dall’avarizia di un dettato normativo restìo a riconoscere strumenti d’azione efficaci al difensore inquirente ovvero – sul versante opposto – fin troppo generoso nell’approntare lo statuto di legalità formale che supporta l’utilizzabilità processuale della risultanza privata. Eppure irrigidimenti imposti, fin tanto che l’«elemento» investigativo, ancorché unilaterale, è idoneo a valere come «prova» sul tema della responsabilità. Prioritario, quindi, recuperare il massimo tasso di dialetticità del sistema nel momento deputato alla pronuncia sul merito dell’imputazione, restituendo rigidità al rapporto tra metodo dialettico di elaborazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) e sue eccezioni (art. 111 comma 5 Cost.), presupposto indefettibile per progettare un’ipotetica rivoluzione che svincoli da formalismi inadeguati il potere inquirente del difensore (Parte Quarta). Una via, peraltro, che affonda le proprie radici nel dibattito autorevolmente fiorito all’epoca della primordiale iniziativa di riforma che avrebbe condotto all’emanazione del nuovo codice di rito, proseguito altrettanto validamente nei primi anni di vigore del rinnovato modello processuale onde correggere le vistose disfunzioni applicative che ne sconfessavano l’effettiva dimensione accusatoria. Attraverso un tentativo di mediazione tra le diverse soluzioni prospettate, dunque, si è giunti a enucleare alcune linee guida che potrebbero orientare un’opera ragionata di emancipazione del diritto di difendersi indagando, suddividendo i diversi gradi di intensità attribuibili all’agire investigativo nelle fasi della ricerca, dell’acquisizione di elementi nonché della precostituzione della prova, limitata ai casi di ontologica impossibilità originaria di ripetizione ovvero alla procedura incidentale di elaborazione dialettica anticipata. Un programma di liberalizzazione che, si vedrà, sfuma alquanto la propria autonoma portata innovativa al cospetto con il presupposto primo che ne legittima l’attuazione: il ripudio generalizzato del potere di formazione unilaterale della prova, culla autentica in cui riposa ogni idea di rivoluzione.
XX Ciclo
1977
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7

Malacorti, Giulia. « La conoscibilità dell'accusa nel procedimento penale ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4944.

Texte intégral
Résumé :
2009/2010
Con il varo della Costituzione si affermava nel nostro ordinamento l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento. Ora come allora, l’effettività di questo diritto ha quali ontologiche premesse, da un lato, la possibilità per la persona accusata di un reato di compiere investigazioni parallele a quelle condotte dal p.m., la necessità che la stessa possa conoscere, in tempi contenuti, l’esistenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e l’addebito contestato in via provvisoria. Su questi presupposti veniva coniata la nozione di “diritto di difendersi provando”, quale più completa e dinamica espressione del diritto di difesa, da garantire fin dalla fase prodromica al processo. Muovendo dalla prospettiva di realizzare un processo di parti, il codice tendenzialmente accusatorio del 1988 fissava il principio dispositivo della prova (art. 190 c.p.p.) e riconosceva alla difesa la facoltà di compiere indagini private tese all’individuazione e al reperimento degli elementi di prova a discarico (art. 38 disp. att. c.p.p.). Facoltà successivamente rafforzata dalla compiuta disciplina (artt. 391 bis e ss. c.p.p.) delle investigazioni difensive introdotta con la l. 7 dicembre 2000, n. 397. Difettava, tuttavia, la previsione di meccanismi che garantissero, al contempo, anche la condizione primaria e ineliminabile affinché il diritto di difendersi provando nella fase delle indagini preliminari non rimanesse un diritto di carta. E le novelle susseguitesi nell’arco di oltre un ventennio, nonostante i dichiarati intenti di conferire maggiore consistenza alle prerogative difensive dell’indagato, hanno stentato ad affermarla. Benché la conoscibilità dell’accusa sia stata assurta al rango di principio costituzionale (art. 111 comma 3 Cost.), quale diritto che, sulle linee da lungo tempo tracciate dall’ordinamento internazionale, concorre a delineare la fisionomia di un giusto processo, il sistema codicistico non sembra, ancora oggi, annoverare istituti idonei a rendere certa e indiscriminata, in capo alla persona sottoposta alle indagini, la “tempestiva” consapevolezza dell’avvio di indagini nei propri confronti e a porre la stessa nella possibilità di operare concretamente le scelte defensionali più adeguate alla propria posizione. In altri termini, nonostante gli sforzi del legislatore volti a potenziare gli strumenti difensivi per la realizzazione di una par condicio effettiva tra le parti contrapposte, l’attuale normativa rischia di vanificare i poteri e le facoltà che la stessa pur conferisce all’indagato, impedendone il concreto e proficuo esercizio. La conoscenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e del fatto di reato che ne costituisce la “regiudicanda” – pur fluida e perfettibile, in quanto necessariamente parametrata al grado di maturità di un’attività investigativa ancora in fieri – può non avvenire affatto o essere procrastinata sino a divenire oggettivamente intempestiva. Perdura una legislazione foriera di spazi discrezionali in capo all’organo inquirente a tutela del segreto istruttorio, a fronte del quale nessuna reale garanzia è riconosciuta alle aspettative dell’inquisito in relazione al momento cognitivo. Gli artt. 335 e 369 c.p.p. – che regolamentano i principali canali attraverso i quali la persona sottoposta alle indagini può acquisire contezza del procedimento penale a suo carico – anche dopo la riforma introdotta con la l. 8 agosto 1995, n. 332, si sono rivelati inidonei ad assicurare sollecite iniziative della difesa. Il meccanismo di ostensione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) se, da un lato, presuppone l’attivazione della parte interessata, dall’altro, risulta fortemente condizionato da valutazioni arbitrarie e insindacabili del p.m. Né una maggiore sensibilità verso le istanze difensive sembra trasparire dalla disciplina dell’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), istituto sorto dalle ceneri della previgente comunicazione giudiziaria, senza averne, tuttavia, mutuato le finalità puramente informative nei confronti di ogni persona accusata di un reato. Nell’attuale assetto normativo, essa parrebbe configurasi quale atto precipuamente funzionale a consentire la nomina di un difensore di fiducia in occasione del compimento (eventuale) di atti garantiti, piuttosto che ad assicurare una tempestiva conoscenza delle indagini in corso in capo all’indagato. Rispetto al codice del 1930, infatti, l’art. 369 c.p.p. non soltanto ha sensibilmente posticipato il momento d’invio dell’avviso, impoverito, altresì, nel suo contenuto descrittivo, ma lo ha, altresì, vincolato all’espletamento di un’attività investigativa garantita, governata da logiche puramente inquisitorie e, dunque, non imposta ai fini dell’esercizio dell’azione penale. In base al combinato disposto degli artt. 335 e 369 c.p.p., può, dunque, accadere che, qualora il p.m. non ritenga necessario procedere ad atti istruttori al cui compimento il difensore ha diritto di intervenire, l’indiziato – il quale non sospetti di essere destinatario di un’indagine giudiziaria e, dunque, non si attivi ex art. 335 comma 3 c.p.p. – rimanga il protagonista ignaro di un procedimento penale, per lungo tempo ovvero sino alla conclusione delle investigazioni, senza avere avuto, di conseguenza, la possibilità di ricercare, tanto prontamente quanto utilmente, elementi di prova a discarico e predisporre una ponderata strategia difensiva in vista del successivo ed eventuale giudizio. Il suo diritto a un’informazione completa e tendenzialmente stabile è garantito unicamente nell’ipotesi in cui l’organo dell’accusa, all’esito delle indagini preliminari, intenda promuovere l’azione penale nelle forme ordinarie della richiesta di rinvio a giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio (artt. 416 comma 1 e 552 comma 2 c.p.p.). In questi casi, il magistrato del pubblico ministero dovrà inoltrare all’indagato (e al suo difensore) l’avviso di conclusione delle indagini e, se v’è richiesta in tal senso, invitarlo a presentarsi per rendere l’interrogatorio (art. 415 bis c.p.p.). La l. 16 dicembre 1999, n. 479 – finalizzata, in parte qua, a colmare il deficit difensivo residuato dalla precedente riforma (l. 16 luglio 1997, n. 234) – ha, infatti, garantito all’inquisito, oltre alla “sommaria” cognizione dell’addebito, in facto e in iure, la preventiva discovery degli atti di indagine raccolti dal p.m., ai fini di un oculato e consapevole esercizio delle facoltà che lo stesso art. 415 bis c.p.p. attribuisce alla difesa. Tuttavia, l’avviso in parola si colloca, nella maggior parte dei casi, in un momento troppo avanzato rispetto all’avvio del procedimento penale perché possa assicurare proficue ed efficaci iniziative difensive, spesso irrimediabilmente pregiudicate se intraprese tardivamente. Né integra una garanzia per tutte le persone sottoposte alle indagini, incontrando limiti operativi in relazione sia ai procedimenti speciali che al “rito di pace”, limiti, invero, non sempre pienamente condivisibili in ragione delle connotazioni tipiche degli stessi. Rappresenta, dunque, un istituto per molti aspetti inidoneo a dare completa attuazione alle affermazioni di valore consacrate nell’art. 111 comma 3 Cost., destinato a rimanere desolatamente irrealizzato nella parte in cui riconosce a ogni persona accusata di un reato il diritto di esserne informata «nel più breve tempo possibile». Sotto quest’ultimo profilo, se l’imperativo costituzionale evoca la necessità di un giusto contemperamento tra istanze difensive e garanzie di efficienza delle indagini preliminari, lo sforzo del (coevo) legislatore verso l’individuazione di un equilibrio tra le opposte esigenze è stato, a ben vedere, pressoché impercettibile. Nel momento in cui, conclusa l’attività investigativa dell’organo inquirente, il segreto è, in ogni caso, destinato a cadere, non potrebbe più invocarsi alcuna pretesa di tutela della genuinità dei risultati. Se il codice contempla altri meccanismi idonei, in concreto, a notiziare l’inquisito dell’esistenza di un procedimento penale a carico e, con gradi diversi di specificità, dell’addebito contestato in via provvisoria, è da osservare che essi, eterogenei e variabili sotto il profilo temporale, rimangono sempre caratterizzati dall’eventualità e da valutazioni di opportunità legate alle dinamiche investigative. Una realtà normativa siffatta se, con molte riserve, poteva considerarsi accettabile nell’assetto originario del codice del 1988 – nell’ambito del quale l’inchiesta di parte del p.m. acquisiva, di regola, una rilevanza meramente interna alla fase delle indagini preliminari –, nell’attuale sistema – ove ogni risultanza investigativa può, non solo, costituire la piattaforma probatoria in sede di riti deflattivi del dibattimento, ma essere variamente spesa, a fini decisori, nelle successive fasi del giudizio – risulta difficilmente giustificabile e certo distonica rispetto alla prospettiva costituzionale di garantire il diritto di difesa e l’egalité des armes in ogni stato e grado del procedimento.
XXII Ciclo
1978
Styles APA, Harvard, Vancouver, ISO, etc.
8

Campeis, Carlotta. « Il diritto penale europeo a tutela dell'ambiente ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3676.

Texte intégral
Résumé :
2008/2009
Lo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell’individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L’introduzione mira a porre le basi dell’analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell’evoluzione dell’Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l’Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un’unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell’Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l’espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni “istituzionali”, c.d. comunitari, strettamente funzionali all’esistenza dell’Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni “satellite” rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni “normativi” e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell’ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la “necessità di pena” in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all’Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa “bidimensionalità”, possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L’interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all’interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l’intervento del singolo Stato membro. E’ per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell’azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell’Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L’interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all’implementazione e all’armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L’influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l’assenza di un’affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un’influenza dell’attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall’attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale”, attuata attraverso “posizioni comuni” ed “azioni comuni” e la cooperazione in materia penale, nell’ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell’Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell’ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l’ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell’assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell’ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell’ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall’attribuzione all’organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall’attribuzione di una potestà penale ad un’entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l’aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all’applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall’incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell’ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell’ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato “dall’incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime”. Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un’offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all’intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell’ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell’attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L’assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l’idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E’ però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l’opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l’Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l’influenza diretta e l’influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l’ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L’attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell’ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell’affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell’influenza lato sensu diretta anche quell’attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell’efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui “le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale “applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria”. Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall’influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un’interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l’ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell’incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell’integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell’ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l’intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall’influenza disapplicatrice, promanante da un’incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell’ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall’incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un’integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l’incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l’area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l’ipotesi in cui l’influenza, ancora discussa su tal punto dell’ordinamento comunitario, comporti un’espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce “conflitti triadici” ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l’applicazione di un’altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l’evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L’intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell’attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell’ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un’ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell’ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un’armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull’eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell’ambito degli effetti che l’ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell’esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell’ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l’operatività di tutta la normativa in materia, nonché l’efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell’intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell’illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l’evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell’ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L’occasione di contrasto deve rinvenirsi nell’annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L’argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza “generale” della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all’effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l’armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l’apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l’incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l’obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell’ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l’evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell’art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all’unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L’ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell’evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un’evidente battuta d’arresto, deferendo inevitabilmente l’individuazione delle linee evolutive all’attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell’esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l’esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell’Unione nonché l’ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una “mise en compatibilité” degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un “pluralisme juridique ordonnè” ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all’altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l’intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim’ordine la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l’Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell’intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un’unificazione ed un’armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un’opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l’esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale “di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all’interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri”. E’ indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale.
XXII Ciclo
1981
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9

Pietrunti, Carlo. « Le intercettazioni telefoniche ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7442.

Texte intégral
Résumé :
2010/2011
La tesi di dottorato ha come titolo “le intercettazioni telefoniche”. In tale elaborato si è cercato di affrontare gli elementi caratterizzanti tale istituto, oggi ancor di più al vertice delle dispute non solo di carattere giurisprudenziale e dottrinale, ma anche, e soprattutto, socio-politico. L’elaborato di tesi ha analizzato gli aspetti codicistici di tale mezzo di ricerca della prova, esponendo anche lo studio di istituti, che pur non disciplinati nel Codice di Procedura Penale, determinano, al pari delle intercettazioni telefoniche, una notevole compromissione del diritto costituzionalmente garantito (art. 15, Cost.) della libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione. Uno spazio particolare si è voluto dedicare al commento degli ultimi interventi del legislatore in materia: la normativa dell’acquisizione dei tabulati telefonici e il cosi’ detto “privilegio dei parlamentari”, oltre che delle brevi considerazioni riguardanti le intercettazioni delle comunicazioni effettuate tramite Internet. Gli elementi della fattispecie codicistica, così affrontati, non potevano che essere proiettati anche alla luce della recenti proposte di riforma, ed in particolar modo di quella, tanto discussa, prospettata lungo la XVI Legislatura che, dopo una forzata approvazione al Senato, giace da tempo arenata presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Il capitolo ad essa dedicato, immancabile soprattutto alla luce dell’acceso dibattito sorto nell’immediatezza della presentazione del D.D.L., N°1415,, ha evidenziato quali sono i punti di maggior attrito sia con l’attuale normativa, sia con le reazioni dottrinali e, in particolar modo, con i commenti della stampa nazionale coinvolta nel delicato rapporto tra diritto di cronaca e tutela della privacy. Un’analisi, quindi, sia della normativa in vigore che del progetto di riforma, che interessa tutti i portatori di interessi costituzionalmente protetti e coinvolti nella partita delle intercettazioni: L’autorità giudiziaria, che si fa carico della tutela della sicurezza dei cittadini attraverso l’accertamento dei reati; L’indagato-imputato, titolare del diritto alla difesa, della presunzione di non colpevolezza nonché della tutela delle comunicazioni e del domicilio; il terzo estraneo, garantito al livello sovranazionale e nazionale dai diritti della persona e della sua dignità, se non anche della privacy; la stampa e l’informazione la cui attività è riconducibile al diritto di cronaca. Il mutare di tale istituto, certamente bisognoso di un’attualizzazione largamente condivisa, rispecchia il mutare del processo penale oramai incamminato in un percorso ricco di profonde trasformazioni legate allo sviluppo tecnologico, all’esigenza di sicurezza, e al delicatissimo rapporto esistente tra elementi conoscitivi assunti in indagine penale, la loro rilevanza all’interno del processo e diffusione degli stessi in un ambito extraprocessuale.
XXIII Ciclo
1974
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10

Volpatti, Giulia. « Imputabilità e neuroscienze : problematiche e prospettive ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8634.

Texte intégral
Résumé :
2011/2012
L’imputabilità rappresenta uno degli istituti più importanti, ma anche più controversi del nostro diritto penale. Identificata come la capacità di intendere e di volere, essa non trova nel codice penale una definizione in positivo, ma viene descritta attraverso le c.d. cause di esclusione dell’imputabilità, di cui agli artt. 88 e seguenti del codice (vizio di mente totale e parziale, ubriachezza ed intossicazione da stupefacenti, sordomutismo e minore età). Uno degli aspetti più problematici dell’imputabilità è la sua collocazione nella sistematica del reato; la dottrina, infatti, non è unanime nel considerarla quale presupposto della colpevolezza in quanto vivide sono ancora le correnti di pensiero che, coerentemente con la scelta codicistica operata dal legislatore, identificano l’imputabilità con una condizione del soggetto, uno status dell’uomo. Ciononostante, accantonate le divergenze di opinione su questo primo snodo (ritenute, peraltro, da alcuni superate a seguito della presa di posizione della Corte di Cassazione), di difficile soluzione risultano anche i rapporti tra l’imputabilità ed il vizio di mente, che ne rappresenta la principale causa di esclusione. In particolare, il concetto di vizio di mente ha subìto nel corso dei decenni numerose interpretazioni: il suo legame diretto con la scienza psichiatrica ne ha inevitabilmente influenzato l’evoluzione. Ed analogamente, anche la crisi della scienza ha svolto un ruolo fondamentale nel dibattito relativo a cosa debba intendersi con il concetto di infermità mentale. Abbandonata la convinzione che la scienza sia connotata da infallibilità e paragonabile a verità assoluta, viene così a mancare quel sicuro punto di riferimento a cui era solito rivolgersi il giudice al fine di trovare ausilio in tema di vizio di mente. Oggigiorno, pertanto, le incertezze scientifiche si riverberano nel processo penale quando l’interrogativo è capire se un soggetto era capace di intendere e di volere al momento in cui ha commesso una fattispecie di reato. Tanto la crisi si è fatta sentire, tanto da trasformarsi in vera e propria crisi dell’imputabilità, al punto da far sollevare voci in merito alla possibilità di eliminarne dal nostro codice il concetto stesso. Proposte inaccettabili considerata in primis la valenza costituzionale dell’imputabilità (come presupposto della colpevolezza) ed, in secundiis, il contrasto con i principi di tassatività e determinatezza. In questo quadro, alcuni neuroscienziati propongono, quale strumento per sopperire alle lacune ed ai limiti delle metodologie tradizionali in tema di perizia psichiatrica, l’utilizzo delle recenti tecniche di neuroimaging. Trattasi di un gruppo di discipline scientifiche che studia il funzionamento del cervello e del sistema nervoso; vengono analizzati la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta il pensiero stesso, mediante l’utilizzo di strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule, reti nervose. Queste nuove metodologie hanno permesso ai neurologi di giungere a scoperte che, da alcuni punti di vista non possono non dirsi davvero interessanti (e per certi versi anche sensazionali): si pensi alla correlazione tra comportamento aggressivo e geni o alla possibilità di prevedere le scelte che il paziente farà grazie all’osservazione del funzionamento dei suoi neuroni. Non con altrettanto entusiasmo, però, i giuristi hanno accolto le neuroscienze come nuove alleate nella risoluzione delle difficoltà interpretative legate al concetto di vizio di mente e, quindi, di imputabilità. Tutt’altro. Si può affermare che l’opinione dominante serba un atteggiamento diffidente ed alle volte anche di totale rigetto di queste nuove tecnologie. La motivazione risiede nella paura che le nuove scoperte, se amplificate e portate agli estremi, possano cancellare il principio del libero arbitrio dell’uomo, possano portare all’assurdo di considerare gli uomini come tutti inimputabili perché dominati dal cervello ed incapaci, quindi, di autodeterminarsi nel mondo esterno. Come sempre, il punto di vista più corretto per valutare gli effetti e le conseguenze di una novità è quello che non si arrocca agli estremi, bensì prende le medesime distanze dagli stessi. Così come nei confronti delle neuroscienze: nessuna rivoluzione copernicana, l’uomo resta sempre l’essere libero e capace di muoversi tra motivi antagonistici operando delle scelte consapevoli, senza essere dominato dal suo sistema nervoso. Le tecniche di neuroimaging, però, e questo non lo si può e non lo si deve negare, apportano un grande ausilio nella redazione della perizia psichiatrica. La complessità e particolarità dei nuovi test introdotti permette di avere una visione più completa e più attendibile sulle condizioni mentali dell’individuo. Se accostate ai metodi tradizionali, il giudice dalle stesse potrà fruire, in fine, di una perizia più attendibile e completa, giovandosene così in sede di decisione e successiva motivazione.
XXIV Ciclo
1982
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