Littérature scientifique sur le sujet « Processo agli enti »

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Articles de revues sur le sujet "Processo agli enti"

1

Crialesi, Silvia. « Roma capitale del regno d'Italia : l'inserimento dei ministeri negli organismi conventuali ». STORIA URBANA, no 132 (février 2012) : 271–95. http://dx.doi.org/10.3280/su2011-132010.

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Résumé :
La vicenda dell'uso dei complessi conventuali romani, quali sedi di ministeri ed uffici governativi per la nuova capitale del Regno d'Italia, si inserisce nel piů vasto quadro del riuso degli immobili appartenenti agli enti religiosi soppressi dopo l'unificazione ed č un esempio della complessa situazione determinatasi a Roma dopo il 20 settembre 1870. I problemi che si affrontano in questa fase, inoltre, costituiscono un passaggio significativo nel lungo e travagliato processo di costituzione dell'ordinamento di tutela dei beni artistici del nuovo stato unitario, sia a livello centrale sia periferico.
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Benarros, Myriam. « INFORMATIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA. GARE TELEMATICCHE NELLE P.A. NUOVO ELEMENTO DI EFFICIENZA E ECONOMICITÀ ? ANALISI E PROSPETTIVE ». Revista Jurídica da FA7 5 (30 avril 2008) : 11–54. http://dx.doi.org/10.24067/rjfa7;5.1:210.

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Résumé :
Il tema trattato riguarda l’informatizzazione dell’attività amministrativa che si inserisce nel processo di attuazione della Società di Informazione. La Società dell’Informazione è quel lungo processo di modernizzazione attuato nel settore dell’informazione e della comunicazione che ha cambiato significativamente la vita privata, sociale e professionale di ciascun individuo. La rivoluzione tecnologica rappresenta un supporto fondamentale per favorire l’efficienza, la competitività e facilitare l’accesso alla conoscenza dei cittadini. Si intende per e-government il processo di informatizzazione della pubblica amministrazione, il quale unitamente ad azioni di cambiamento organizzativo consente di trattare la documentazione e di gestire i procedimenti con sistemi digitali, grazie all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict-Information and Communication Tecnologies), allo scopo di ottimizzare il lavoro degli enti e di offrire agli utenti (cittadini e imprese) sia servizi più rapidi, che nuovi servizi, attraverso i siti web delle amministrazioni pubbliche.
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Di Muzio, Francesca. « Le sezioni unite sull’inapplicabilità della messa alla prova dell’ente ». Fascicolo 1 | luglio-dicembre 2022, no 1 (11 décembre 2022) : 1–9. http://dx.doi.org/10.35948/rdpi/2023.13.

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Résumé :
La Corte di Cassazione torna sul tema dell’applicabilità dell’istituto della messa alla prova all’ente, ponendo fine al contrasto giurisprudenziale che negli ultimi anni ha visto orientamenti opposti dare origine a differenti pronunce. Con l’informazione provvisoria n.17 del 27/10/2022 la Cassazione afferma il seguente principio di diritto: «l’istituto della messa alla prova (art.168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001». The Supreme Court deals again with the issue of the possibility for an entity to resort institution of probation; with this decision the Supreme Court put an end to the jurisprudential contrast which in recent years has seen opposing orientations give rise to different rulings.With provisional information n. 17 of 10/27/2022, the Supreme Court affirms the following principle of law: «the institution of probation (art.168-bis of the criminal code) does not apply with reference to the entities indicated into d.lgs. 231/2001». Parole chiave: messa alla prova, ente, decreto legislativo 231/01, inapplicabilità.
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Pilia, Michele. « L’adeguatezza dei modelli 231 in relazione alla <i>safety</i> ; nelle società del settore <i>aviation</i> ; alla luce della recente interpretazione dell’art. 2638 c.c. » Fascicolo 1 | luglio-dicembre 2022, no 1 (8 décembre 2022) : 1–21. http://dx.doi.org/10.35948/rdpi/2022.11.

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Résumé :
L’attenzione alla sicurezza, connessa anche ai recenti sinistri relativi agli eventi del caso “Boeing 737 max”, il recente protocollo d’intesa raggiunto tra l’ENAC e la Scuola Superiore della Magistratura, finalizzato ad una maggiore consapevolezza reciproca per portare l’amministrazione della giustizia più vicina possibile alla realtà aviation in cui la stessa si troverà ad operare, e infine il crack Alitalia, hanno imposto un’ulteriore riflessione sulla natura dei problemi afferenti la safety degli aeromobili sia sotto il profilo tecnico (di progettazione, realizzazione o impiego), sia sotto il profilo normativo-giuridico. Questo ha condotto le società operanti nel settore a domandarsi se i loro modelli di raccolta delle segnalazioni e di comunicazione con l’ENAC dovessero essere ripensati, specie in considerazione dell’astratta configurabilità dell’art. 2638 c.c. e del conseguente illecito connesso con l’art. 25ter D.lgs. n. 231/2001. &nbsp; Parole chiave: comunicazioni obbligatorie, enti di vigilanza, ENAC, art. 2638 c.c., safety, modello 231 &nbsp; The recent attention about the safety related to the aviation incident, expecially the "Boeing 737 max" case, the new memorandum of understanding reached between Ente Nazionale Aviazione Civile (“ENAC”) and the Italian Scuola Superiore della Magistratura aimed at greater mutual awareness to bring the justice’s administration as close as possible to the aviation reality, and eventually the Alitalia’s crack, require further reflection on the aircraft safety from a technical standpoint (design, construction or use) and legal point of view. This has led the aviation’s companies to a rethinking of their reporting policy and their interactions with ENAC, especially in view of the potential configurability of art. 2638 civil code and the consequent offense connected with art. 25ter D.lgs. n. 231/2001. &nbsp; Keywords: mandatory communication, surveillance Authority, ENAC, art. 2638 c.c., safety, modello 231
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« La parola alle politiche. Come valutare successi e insuccessi dei provvedimenti sull'istruzione ? » RIVISTA TRIMESTRALE DI SCIENZA DELL'AMMINISTRAZIONE, no 1 (avril 2011) : 105–28. http://dx.doi.org/10.3280/sa2011-001008.

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Résumé :
Negli ultimi decenni il perseguimento di una migliore qualitŕ dell'istruzione - non disgiunta dalla necessitŕ di contenimento della spesa pubblica e di un uso efficiente delle risorse disponibili - ha incoraggiato i governi a ridisegnare i cicli d'istruzione, a istituire enti di valutazione scolastica, a rimodulare i curricula. Come appurare l'efficacia di queste riforme? Valutare le politiche dell'istruzione significa proporre un giudizio, sulla base di un processo di ricerca controllato, in merito alla pertinenza, all'opportunitŕ e agli effetti degli interventi intrapresi. Questo articolo esamina dimensioni, usi e scopi della valutazione delle politiche per l'istruzione e, a partire da esperienze nazionali e internazionali, presenta alcune lezioni di valutazione.
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Iannone, M. T., F. Bordin, C. Magnani, C. Mastroianni, G. Casale et D. Sacchini. « Ruolo ed attività di un Comitato di Bioetica in un Centro di cure palliative : l’esperienza di Antea ». Medicina e Morale 62, no 1 (28 février 2013). http://dx.doi.org/10.4081/mem.2013.112.

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L’articolo esamina l’attività del Comitato di Bioetica di Antea (CB-Antea), Associazione onlus dedicata all’assistenza gratuita a domicilio ai pazienti in fase avanzata di malattia, istituito nel 2008. Il CB-Antea si propone di proteggere e promuovere i valori della persona umana in tutte le attività assistenziali e scientifiche che si svolgono all’interno dell’Associazione. Tale attività si estrinseca attraverso la formulazione di linee-guida comportamentali per problemi clinico-assistenziali, l’espressione di pareri per rispondere a quesiti specifici su temi di bioetica, l’attenta valutazione dei princìpi e dei canoni che sottendono ad una buona relazione operatore-paziente, anche attraverso l’informazione e il consenso agli atti medici che vi si svolgono. Questo organismo si è proposto, sin dall’inizio, come il luogo di condivisione dell’attività assistenziale, in cui esperti di varie discipline potessero contribuire a supportare tanto il personale sanitario, motivandolo ad assumere uno stile etico condiviso e individuando percorsi di sensibilizzazione alle problematiche di etica e di bioetica di fine vita, quanto i pazienti ed i familiari per riflettere ed affrontare al meglio tutte le questioni potenzialmente conflittuali. Il CB-Antea, organizzato ai sensi della normativa italiana vigente, è organo consultivo per la direzione sanitaria, l’amministrazione, il personale – sanitario e non – di Antea, ed eventualmente di enti diversi ed altre persone interessate che ne facciano richiesta. I principali ambiti di attività del Comitato di Bioetica del Centro Antea sono: formazione e sensibilizzazione bioetica; analisi etica di casi clinici; ideazione, approvazione, coordinamento e attuazione di progetti di ricerca in ambito farmacologico, clinico non farmacologico, assistenziale, sociale, psicologico e formativo; formulazione di linee guida comportamentali e raccomandazioni per problemi clinico-assistenziali interni ad Antea. Dalla sua istituzione ad oggi, il CB-Antea si è dedicato ad alcuni temi importanti, quali la Carta dei Valori Antea; la promozione e riconoscimento di Antea come Centro di Ricerca; la produzione di protocolli, procedure operative e materiale facilmente fruibile per il personale della struttura; supporto alla stesura dei progetti di ricerca; rivalutazione dei processi informativi e di consenso. ---------- The article deals with the activities of the “Antea” Ethics Committee (CB-Antea), a non-profit association dedicated to providing free care for advanced/ terminal patients. CB-Antea was established in 2008, aimed to protect and promote the values of the human person in all scientific and charitable activities that take place within the Association. This activity is expressed through the formulation of behavioral guidelines and the expression of advices for addressing issues in palliative medicine and care; the careful evaluation of the principles and standards that underlie a good health professional – patient relationship, through information and consent to medical procedures that take place in Antea. This body has been proposed, from the outset, as the place for sharing the care process, in which experts from different disciplines could help support both the medical staff to assume a shared ethical professional style and the patients and their families to better address all potentially conflicting issues. The CB-Antea has an advisory role for the Antea healthcare work and administration. The main activities are: training in bioethics; clinical ethics consultation; support for designing and conducting of Antea clinical-sociale research projects; development of internal behavioral guidelines and recommendations. From 2008, CB-Antea is devoted to some important issues, such as the drafting of Antea Charter of Values; the promotion of Antea as Research Centre; the production of protocols, operating procedures and material easily accessible for clinical staff; support for the preparation of research projects; revaluation of information processes and consent
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Thèses sur le sujet "Processo agli enti"

1

Guido, Elisabetta. « I giudizi speciali nel sistema del processo penale de societate ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3078.

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Résumé :
2007/2008
Lo studio dei procedimenti speciali nel sistema della responsabilità amministrativa derivante da reato, introdotta nell’ordinamento italiano con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha preso le mosse dalla scelta operata dal legislatore di prediligere il processo penale quale paradigma di accertamento dell’illecito dell’ente. Si è anzitutto evidenziato, anche attraverso il raffronto con altre esperienze, europee ed extra europee, che l’assegnazione al giudice penale della decisione su una res iudicanda amministrativa rappresenta una soluzione fortemente innovativa, tant’è che nessun parallelismo potrebbe instaurarsi tra tale cognizione e l’accertamento amministrativo richiesto dalla legge di depenalizzazione e modifiche del sistema penale (art. 24 l. 24 novembre 1981, n. 698). Lasciando a latere la questione della natura della responsabilità dell’ente – se si tratti, cioè, al di là dell’etichetta, di responsabilità amministrativa, penale o di altro genere – e precisato che l’importazione del modello processuale penale implica l’estensione alla persona giuridica dell’impianto garantistico offerto alla persona fisica, sono state passate in rassegna le cause di tale originale combinazione. A parte la valenza politica che l’attrazione dell’illecito della societas all’interno del processo penale reca con sé in termini di riprovevolezza del crimine d’impresa, è l’esistenza di un reato, primo tassello del mosaico raffigurante la complessa fattispecie dell’illecito amministrativo, a legittimare la devoluzione della vicenda dell’ente alla giurisdizione penale anziché all’autorità amministrativa, unitamente a ragioni di garanzia ed efficienza. Proprio in relazione a questi ultimi parametri emerge la pertinenza della previsione di giudizi speciali nel rito de societate; scelta, che avrebbe nondimeno potuto essere ostracizzata, data la mancata attenzione del legislatore delegante verso questa materia e in presenza dell’indicazione che ancorava la riduzione della sanzione amministrativa a situazioni di particolare tenuità del fatto (art. 11 comma 1 lett. g l. n. 300 del 2000) ovvero all’adozione da parte dell’ente di comportamenti di reintegrazione dell’offesa (art. 11 comma 1 lett. n l. n. 300 del 2000). Sul versante dell’efficienza, è nota la genetica finalizzazione dei riti speciali alla celere definizione dei carichi giudiziari, obiettivo imposto dal canone costituzionale della ragionevole durata dei processi (art. 111 comma 2 Cost.). Tale esigenza deflativa viene avvertita anche nel processo all’ente poiché il modello di accertamento confezionato per l’illecito dell’ente ricalca quello previsto per il reato, impostato cioè sulla classica successione fatta di indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, di talché presenta le stesse ricadute che l’acquisizione della prova in contraddittorio comporta sui tempi processuali. Inoltre, occorre sottolineare che la scelta di procedere contestualmente per il reato nei confronti della persona fisica e per l’illecito nei riguardi della persona giuridica (art. 38 comma 1), seppur giustificata dal presupposto di pregiudizialità esistente tra illecito penale e illecito amministrativo, duplica l’attività processuale con conseguenti rallentamenti sul funzionamento della macchina giudiziaria. Si è, quindi, appuntato che, se alla base dell’inserimento dei riti speciali nel processo all’ente vi sono giustificazioni di economia processuale, nessuna valida ragione, a fronte dell’esigenza di coerenza sistematica, può sussistere nel ritenere inammissibili il giudizio immediato e il giudizio direttissimo, i quali non figurano nel decreto giacché il legislatore non ha ritenuto di dover dettare un’apposita disciplina. A ciò si aggiunga che l’efficienza processuale si salda con l’effettività della sanzione, obiettivo caldeggiato dal legislatore delegante (art. 11 comma 1 lett. f l. n. 300 del 2000), in cui risultano assorbiti scopi di prevenzione generale e speciale; quest’ultimo, peraltro, risulta predominante nel sistema della responsabilità amministrativa da reato, in cui tanto le sanzioni quanto, e impropriamente, il processo partecipano della finalità di recupero dell’ente alla legalità. In relazione all’aspetto garantistico, si è sottolineato come sia la legge a suggerire che anche all’ente vengano assicurati i benefici derivanti da scelte processuali alternative, laddove prevede il riconoscimento al soggetto collettivo degli stessi diritti e delle medesime facoltà spettanti all’imputato (art. 35); vantaggi, da reputare compatibili con la natura astratta del presunto responsabile amministrativo. Vero è che la praticabilità di soluzioni alternative all’ordinario iter processuale, tanto nel procedimento relativo al reato quanto in quello riguardante l’illecito amministrativo, determina la separazione delle regiudicande, fenomeno che ha comportato la trattazione delle conseguenze che tale divaricazione produce sul simultaneus processus (art. 38). In particolare, si è parlato dell’incompatibilità del giudice della responsabilità amministrativa a decidere in ordine al reato della persona fisica, e viceversa; si è, poi, affrontato il tema dell’acquisizione della sentenza irrevocabile emessa nei confronti dell’ente o dell’imputato, nel procedimento dell’altro (art. 238-bis c.p.p.), con la precisazione che esula da tale meccanismo acquisitivo la sentenza di patteggiamento, sia essa applicativa della pena all’imputato o della sanzione all’ente, poiché carente sotto il profilo dell’accertamento di responsabilità e, quindi, inidonea ad influire sulla decisione da assumere nell’altro procedimento. A seguire, sempre gravitando sul tema della circolazione probatoria, si è visto come sia recuperabile nel processo all’ente, seppur con qualche aggiustamento, la norma di cui all’art. 238 c.p.p.; infine, l’attenzione si è focalizzata sulle regole che governano l’assunzione delle dichiarazioni dell’imputato del reato presupposto e del legale rappresentante dell’ente nel separato procedimento a carico, rispettivamente, del soggetto collettivo e della persona fisica; compito, questo, che ha messo in luce il problema della qualificazione penalistica del rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. La seconda parte del lavoro è dedicata alla trattazione dei singoli procedimenti speciali, la cui disciplina è stata ricostruita tenendo presente gli aspetti peculiari di ciascun rito e rinviando – in subordine – alle disposizioni del codice di rito penale nonché alle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto compatibili (art. 34), al fine di colmare lacune e superare incongruenze. In sostanza, questo particolare approccio metodologico ha richiesto di stabilire, di volta in volta, quali norme codicistiche possano essere trasferite nel microsistema del processo agli enti. Tanto precisato, vale qui riportare le problematiche più significative emerse dall’analisi della materia che, a ben vedere, si concentrano soprattutto attorno ai riti deflativi del dibattimento, vale a dire il giudizio abbreviato (art. 62), l’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63) e il procedimento per decreto (art. 64). Partendo dal primo, è il presupposto speciale negativo del rito, consistente nella preclusione al suo accesso quando per l’illecito amministrativo sia prevista l’applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva (art. 16), il punto su cui si sono addensate le maggiori perplessità. Seppure nobile è apparso il tentativo del legislatore di contemperare esigenze efficientistiche con obiettivi di specialprevenzione, non si è taciuta, per un verso, la disparità di trattamento in tal modo creata tra ente e imputato, per il quale non vigono limiti di ammissione al rito speciale in vista del tipo di pena da applicare; per altro verso, non sono mancate riserve circa l’ampia discrezionalità che deriva dal sistema di applicazione delle sanzioni interdittive perpetue, congegnato, ad eccezione del caso dell’impresa illecita (art. 16 comma 3), su una valutazione prognostica di irrecuperabilità dell’ente alla legalità, di intuibile precocità se agganciata al momento processuale deputato alla valutazione di ammissibilità del rito speciale. Altra questione degna di nota attiene alla possibilità per il soggetto collettivo dichiarato contumace, cioè a dire non costituitosi in giudizio secondo le formalità prescritte dall’art. 39 d. lgs. n. 231 del 2001, di richiedere il rito abbreviato. Di fronte a opinioni dottrinali divergenti, si è ritenuto di proporre una soluzione positiva, agganciandola alla previsione normativa che estende all’ente lo status processuale dell’imputato (art. 35); si è, infatti, osservato come rispetto a questa precisa indicazione non meritino accoglimento interpretazioni che considerano l’atto formale di costituzione (art. 39) presupposto necessario affinché l’ente possa esercitare il proprio diritto di difesa. Se, infatti, tale adempimento si profila doveroso per il compimento di atti che implicano la presenza dell’ente, naturalmente nella persona del suo legale rappresentante, resta superfluo per tutti quegli atti che tale materializzazione non richiedono. Ciò ha permesso di ritenere legittimato ad avanzare richiesta di giudizio abbreviato, come pure quella di patteggiamento, anche il difensore dell’ente, non costituitosi, purché munito di procura speciale. Si aggiunga, inoltre, che la scissione tra costituzione e diritto di difesa è, parimenti, alla base della ritenuta ammissibilità dell’opposizione al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria dell’ente che abbia deciso di non partecipare attivamente al processo. Occorre, per inciso, sottolineare come la questione esposta si profili incerta anche a livello giurisprudenziale; non può quindi che auspicarsi un intervento chiarificatore che tenga nella giusta considerazione le esigenze di garanzia e di difesa dell’ente. Ulteriore aspetto che si è ritenuto di approfondire concerne il ruolo della parte civile nel rito abbreviato instaurato nei confronti dell’ente. Preso atto che l’ammissibilità della pretesa civilistica nel procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo conosce orientamenti difformi e, appurato che la soluzione negativa pare essere quella maggiormente convincente, si è voluto nondimeno precisare che laddove dovesse ammettersi la costituzione di parte civile contra societatem, al danneggiato da illecito amministrativo verrebbe riconosciuta la classica alternativa tra accettazione del rito – con il consueto limite in tema di diritto alla prova e l’efficacia extrapenale della sentenza di esclusione della responsabilità per insussistenza dell’illecito (art. 66) – e il trasferimento della domanda risarcitoria in sede civile. Passando all’istituto dell’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63), si è innanzitutto proceduto ad esaminare i presupposti speciali del rito che si schiudono in tre diverse, e alternative, condizioni oggettive di accesso. Tra queste, non sono mancate riserve, per l’ampia discrezionalità implicata, circa il presupposto che àncora la praticabilità dell’accordo sulla sanzione alla “definibilità”, con patteggiamento, del procedimento per l’accertamento della responsabilità penale dell’autore del reato. In altri termini, al fine di valutare l’ammissibilità della richiesta dell’ente, il giudice dell’illecito amministrativo deve, fittiziamente sostituendosi a quello del reato, stabilire in via preliminare se la vicenda dell’imputato persona fisica si presti ad essere definita attraverso il concordato sulla pena. Tale momento non è, peraltro, l’unico a presentare connotati di discrezionalità, dovendosi tenere presente che essa ricorre anche in riferimento al limite all’accesso al rito, derivante dal fatto che si faccia luogo in concreto all’irrogazione di una sanzione interdittiva in via definitiva; decisione che viene rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Rilevante è apparsa, anche per l’interesse che ha suscitato nella prassi, la questione relativa all’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto dell’illecito da reato in sede di sentenza patteggiata. Si è ritenuto di fornire sul punto risposta positiva, alla luce del carattere indefettibile ed obbligatorio accordato a tale misura ablatoria dalla norma di cui all’art. 19, laddove il giudizio si concluda con sentenza di condanna. Tale riferimento, peraltro, non è stato ritenuto decisivo a supportare un approdo di segno opposto; senza entrare nella complessa tematica dell’identità della sentenza di patteggiamento, si è voluto ricordare il recente approccio esegetico delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 novembre 2005, Diop Oumar, in Cass. pen., 2006, p. 2769 ss.) secondo cui la clausola di equiparazione (art. 445 comma 1-bis c.p.p.) deve essere letta nel senso di ritenere la sentenza di patteggiamento siccome produttiva dei consueti effetti della condanna, salve le deroghe previste dalla legge. Pertanto, sulla scorta di tale assunto, si è sostenuto che se si fosse voluto escludere la confisca dalla decisione patteggiata lo si sarebbe dovuto esplicitare, restando il silenzio sintomatico della parificazione ad una pronuncia di condanna. Seguendo questa impostazione, si è ritenuta poco convincente l’ipotesi che sia incompatibile con il rito in esame l’applicazione della sanzione della pubblicazione della sentenza, solo per il fatto che essa venga riferita ad una pronuncia di condanna (art. 18). Tale misura stigmatizzante non rientrerebbe, infatti, tra le pene accessorie che, ex art. 445 comma 1 c.p.p., il patteggiamento preclude, poiché la classificazione tra pene principali e pene accessorie, cui la citata norma allude, risulta sconosciuta al sistema sanzionatorio delineato per le persone giuridiche. D’altro canto, proprio la peculiarità dello strumentario sanzionatorio ha richiesto di vagliare, di volta in volta, la compatibilità con il patteggiamento relativo all’ente dei premi che tradizionalmente afferiscono a questa alternativa processuale. Quanto al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, tra le varie problematiche affrontate, quella su cui si sono concentrati i maggiori dubbi interpretativi concerne la confisca. Esclusa, nel processo all’ente, l’operatività della norma secondo cui il giudice che pronuncia decreto penale di condanna dispone la confisca cosiddetta obbligatoria (art. 460 comma 2 c.p.p.), poiché essa è ivi misura di sicurezza, categoria non prevista nel sottosistema di riferimento, ci si è chiesti se trovi o meno applicazione la confisca sanzione (art. 19). Taluna dottrina ha ritenuto di fornire una risposta negativa, sostenendo che se venisse disposta si andrebbe incontro ad una soluzione affetta da illogicità, poiché, da un lato, la confisca è sanzione che deve sempre essere disposta, dall’altro, il decreto può pronunciarsi se deve essere irrogata unicamente la sanzione pecuniaria. Si è nondimeno, proposto un differente ragionamento, che porta, per contro, alla soluzione positiva. In prospettiva sistematica e meno agganciata al dato formale, si potrebbe ritenere che il limite della sanzione pecuniaria, quale presupposto del rito, non può intendersi come deroga alla norma che stabilisce l’indefettibilità della confisca in presenza di una sentenza di condanna; espressione suscettiva di lettura estensiva, così da ricomprendere anche il decreto che, in effetti, ha natura di sostanziale condanna. Al contrario, proprio il carattere imperativo della sanzione in oggetto risulterebbe dato utile ad interpretare il limite della sanzione pecuniaria siccome preclusivo della sanzione interdittiva e, a fortiori, di quella della pubblicazione della sentenza che ad essa accede. Così postulando, si verrebbe a ricostruire un parallelo, per un verso, con la logica codicistica che, con il presupposto della pena pecuniaria, intende escludere dall’ambito operativo del procedimento monitorio la pena detentiva e, per altro verso, con l’istituto dell’applicazione della sanzione all’ente che, come visto supra, pure è stato ritenuto compatibile con la confisca. Altra questione degna di essere segnalata afferisce all’operatività dell’effetto sospensivo (art. 463 c.p.p.) ed estensivo (art. 464 comma 5 c.p.p.) dell’opposizione nel processo cumulativo, quello cioè instaurato contemporaneamente per l’accertamento tanto della responsabilità amministrativa dell’ente quanto di quella penale della persona fisica, qualora, pronunciato decreto di condanna a carico di entrambi, solo uno di essi faccia opposizione. Premesso che la produzione dei suindicati effetti risulta ancorata alla situazione della commissione del medesimo reato da parte di più soggetti, la risposta dipende dal tipo di lettura che si vuole prediligere nel decifrare il rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. Pertanto, ove si ritenga che la responsabilità dell’ente configuri un’ipotesi di concorso di persone nel reato, nessun ostacolo potrebbe esserci a che l’esecuzione del decreto opposto dall’ente, o dall’imputato, venga sospesa nei confronti del non opponente, con il conseguente verificarsi dell’effetto estensivo della pronuncia di proscioglimento. Viceversa, se si esclude il vincolo concorsuale poiché trattasi di illeciti diversi, il richiamato meccanismo non potrebbe funzionare, a meno che non si voglia adattare il dato letterale della norma codicistica attraverso una lettura estensiva che valorizzi il rapporto di pregiudizialità esistente tra i due illeciti, penale e amministrativo. Tale impostazione avrebbe il pregio di evitare che il rimedio della revisione – istituto che nel processo agli enti tende a favorire un’esigenza di omogeneità dei giudicati quando non sia stato possibile procedere unitariamente all’accertamento del reato e dell’illecito amministrativo che ne deriva (art. 73) – diventi strumento ordinario per risolvere l’eventualità del conflitto tra la pronuncia emessa nei riguardi dell’ente e quella relativa alla persona fisica. La terza parte del lavoro nasce dalla presa d’atto che i riti premiali non rappresentano le uniche occasioni difensive vantaggiose in termini di sollievo sanzionatorio. Si è così proceduto ad analizzare gli istituti processuali che, improntati alla logica specialpreventiva di neutralizzazione del rischio di commissione di futuri reati, propiziano l’attuazione da parte dell’ente delle condotte riparatorie previste dall’art. 17, vale a dire il risarcimento integrale del danno, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato – ovvero un efficace impegno in tal senso –, la predisposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire il rischio di commissione di reati all’interno dell’impresa e, infine, la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca. La realizzazione di tali comportanti, suscettivi se allo stadio di semplice “promessa di attuazione” di provocare la sospensione della misura cautelare interdittiva (art. 49) oppure la sospensione del processo (art. 65), consentono alla persona giuridica incolpata di sfuggire dall’applicazione della sanzione interdittiva e di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria, in caso di condanna. Certo, un simile congegno, che sollecita l’ente ad attivarsi durante il processo per rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo, prima di approdare ad un accertamento di responsabilità anche non definitivo, è anomalia che mal si concilia con il canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.), la cui operatività non incontra, nonostante qualche perplessità manifestata al riguardo, limiti dovuti alla natura astratta della persona giuridica. Proprio il ruolo centrale assegnato all’impegno riparatorio onde neutralizzare gli effetti dei soli strumenti interdittivi (nell’immediato, se applicati in funzione cautelare, ex art. 9 e 45 comma 1, e in vista di futura condanna), con conseguente superfluità di tale impegno ove si prospetti l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, nonché l’inversione dell’onere della prova che grava sull’ente (art. 6) – il quale deve provare l’insieme dei fatti impeditivi descritti in tale disposizione per andare esente da responsabilità – ha permesso di mettere in risalto la congenialità dei riti alternativi al sistema processuale pensato per gli enti; adattabilità, peraltro, favorita anche dalla peculiare disciplina della prescrizione dell’illecito amministrativo ex art. 22. Il congegno ivi formulato, di fatto improntato alla potenziale imprescrittibilità dell’illecito – poiché la contestazione dell’illecito interrompe la prescrizione, la quale «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» (comma 3) – fa sì che le garanzie processuali non possano essere strumentalizzate dal responsabile amministrativo al fine di differire la decisione finale onde sfruttare l’epilogo favorevole della prescrizione dell’illecito. Questa situazione, da sempre censurata dalla dottrina nel processo alla persona fisica siccome fonte di inefficienza processuale e ragione della scarsa capacità deflazionistica dei riti speciali, si presenta, nel contesto dell’accertamento della responsabilità amministrativa, come fattore incentivante la definizione del procedimento tramite percorsi semplificati. Siffatta congenialità, tuttavia, non è sfuggita ad un approccio critico, segnatamente laddove le difficoltà connesse alla dimostrazione di innocenza indurrebbero l’ente ad affrettare i tempi di un processo in cui la contestazione dell’addebito diventa sintomatica di una presunzione di illegalità dell’impresa. In altri termini, la presenza dei riti alternativi nel processo agli enti sembrerebbe superare le premesse logiche del relativo inserimento, cioè a dire esigenze di economia processuale e riconoscimento all’ente delle stesse opportunità difensive spettanti alla persona fisica in virtù dell’equiparazione voluta dall’art. 35 con l’imputato, per risolversi in occasioni di giustizia sommaria. E ciò striderebbe con le ragioni stesse della scelta del processo penale come sede di accertamento dell’illecito amministrativo; preferenza che si giustifica in quanto all’ente vengano riconosciute le fondamentali garanzie del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza.
XXI Ciclo
1978
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2

Baresi, Monica. « Il sistema cautelare nel processo penale de societate tra esigenze di effettività e profili di incostituzionalità ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3076.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
L’interesse per il processo de societate, con particolare riguardo alla disciplina dettata in tema di misure cautelari applicabili agli enti, nasce senza dubbio dalla considerazione che il d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231 rappresenta uno dei provvedimenti più rilevanti e più significativi degli ultimi decenni nel panorama normativo italiano, in quanto l’introduzione, per effetto del medesimo, di una diretta responsabilità sanzionatoria dei soggetti collettivi dipendente da reato costituisce una svolta epocale, specie per coloro che ritengono che con esso sia stato definitivamente messo al bando il “costoso” principio societas delinquere (et puniri) non potest. Esigenze di politica criminale, tese ad introdurre risposte sanzionatorie per fronteggiare la sempre più dilagante criminalità d’impresa, da un lato, e sollecitazioni provenienti in ambito comunitario ed internazionale, finalizzate alla armonizzazione delle risposte sanzionatorie degli Stati, dall’altro, hanno indotto il legislatore, delegante prima e delegato poi, a disciplinare la materia, superando i dubbi sull’an della responsabilità. Con riferimento al quomodo della sua formulazione, la l. delega n. 300 del 2000 e il d. lgs n. 231 del 2001 hanno qualificato come amministrativa la forma di responsabilità addebitabile all’impresa e, al contempo, hanno previsto che il suo accertamento avvenga ad opera del giudice penale con le forme del relativo processo. Tale peculiarità – giustificata dalla necessità di coniugare efficienza e garanzie – ha originato la querelle circa la reale natura (amministrativa, penale o mista, tale da dar luogo alla nascita di un tertium genus) della responsabilità introdotta dal d. lgs. n. 231 del 2001. Si è constatato che la vexata quaestio non costituisce esercizio esegetico fine a se stesso, bensì risponde all’esigenza di comprendere quali siano i principi informatori della disciplina, allo scopo di verificarne anche l’ortodossia costituzionale. Ad esempio, stabilire che, al di là della etichetta adottata, si tratti in realtà di responsabilità penale significa, in primo luogo, dover superare - sul piano della dogmatica - i tradizionali ostacoli (innanzitutto il principio della responsabilità penale personale e quello rieducativo della pena ex art. 27 commi 1 e 3 Cost.) al riconoscimento di una siffatta responsabilità in capo alle persone giuridiche. In secondo luogo, vuol dire analizzare e verificare se la costruzione dell’illecito contestabile all’ente e il relativo procedimento di accertamento rispettino i canoni costituzionali propri della citata responsabilità, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, vengono chiamati in causa la garanzia del giudice terzo ed imparziale, il diritto ad una (effettiva) difesa, le regole del giusto processo e, non ultimo, il principio della presunzione di non colpevolezza, intesa sia come regola di trattamento - che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole - sia come regola di giudizio - che impone all’accusa l’onere della prova della colpevolezza - sia, ancora, come norma fondante il riconoscimento del diritto al silenzio, con il divieto di far discendere dall’esercizio di tale facoltà conseguenze sfavorevoli per l’imputato (e, a maggior ragione, per l’indagato). Evidente che ogni qual volta si palesasse una loro ingiustificata ed irragionevole violazione si prospetterebbe l’incostituzionalità della disciplina. Tuttavia, anche qualora non si volesse giungere a qualificare come propriamente penale la natura della responsabilità in parola, non potrebbero essere revocati in dubbio i principi costituzionali che governano il processo penale, riproponendosi ugualmente la necessità di verificare il loro rigoroso rispetto, pena – ancora – l’illegittimità della disciplina. Tale conclusione, sul piano dell’accertamento processuale dell’illecito, consegue proprio all’opzione processual-penalistica del legislatore. Infatti, l’aver affidato l’accertamento dell’illecito amministrativo degli enti al giudice penale in seno al relativo processo (oltre che l’aver attinto ai meccanismi imputativi e punitivi dell’universo penalistico) rappresenta qualcosa in più, in termini di garanzia, rispetto all’etichetta formale adottata dal legislatore. Poichè la ratio posta a fondamento della scelta del processo penale come luogo di accertamento della responsabilità della persona giuridica risiede proprio nella necessità di assicurare alla medesima standards di garanzie maggiori di quelli offerti in sede di procedimento amministrativo (sul paradigma delineato dalla l. 689 del 1981) e poichè tali garanzie affondano le loro radici nella Costituzione, ne consegue che le previsioni sovraordinate inerenti i diritti e le facoltà dell’imputato nel processo penale sono destinate ad assisterlo sia che questi abbia una natura fisica, sia che abbia natura giuridica, indipendentemente appunto dalla qualifica della natura della responsabilità chiamata in causa. Dunque, più che alimentare la diatriba sulla reale etichetta da attribuire alla responsabilità in esame, si è cercato di verificare la “qualità” dell’impianto garantistico offerto alla societas nel corso del procedimento di accertamento della medesima. Per questa via, si è constatato che la normativa, specie quella relativa alle cautele, appare poco rispettosa della Grundnorm scritta nell’art. 27 comma 2 Cost. da cui dipende il riconoscimento della presunzione di non colpevolezza dell’imputato. In effetti, il legislatore del 2001 pare ricorrere al processo penale, non tanto per perseguire le sue precipue finalità di accertamento dei fatti e di applicazione della pena, quanto piuttosto per realizzare impropri scopi di prevenzione generale e speciale. In altri termini, il processo viene utilizzato come “messaggio”, attribuendogli fini di stigmatizzazione, di intimidazione, di prevenzione e di rieducazione che non gli sono propri. Ciò è in particolar modo testimoniato dalle inedite finalità di recupero alla legalità dell’ente-imputato, che impregnano la disciplina relativa alle cautele. Nell’ambito dell’accertamento della responsabilità dell’ente le misure cautelari applicate contra societatem vengono, infatti, piegate ad esigenza di emenda e di rieducazione, servendo a propiziare l’adozione di condotte riparatorie o riorganizzative e non a tutelare esigenze funzionali al processo. La coincidenza tra tipologia delle cautele e la corrispondente morfologia delle sanzioni incide sull’identità funzionale delle prime, che finisce per essere eccessivamente appiattita sul crisma sanzionatorio. Proprio sul versante teleologico, infatti, viene meno l’essenza dell’istituito cautelare (annullando la differenziazione tra cautele e sanzioni), in quanto il periculum in mora è esclusivamente identificato con il rischio di reiterazione dell’illecito: ne scaturisce un intervento cautelare marcatamente orientato verso obiettivi di prevenzione speciale, vale a dire obiettivi di matrice extraprocessuale, certamente più coerenti con un intervento di tipo sanzionatorio. Si riaffacciano pertanto riserve d’ordine costituzionale non dissimili da quelle prospettate riguardo alla omologa previsione codicistica di cui all’art. 274 comma 2 lett. c c.p.p.. E’, in effetti, intuibile come il fine assegnato alle misure interdittive sottintenda una equivoca fungibilità tra cautele e sanzioni, di dubbia conformità al canone costituzionale di cui all’art. 27 comma 2 Cost. inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In quest’ottica, la disciplina appare fortemente criticabile laddove essa consente che gli indizi di “illecito amministrativo” fungano da presupposto per interventi “educativi” finalizzati al recupero dell’ente alla legalità, lasciando intendere che l’ente sia ritenuto presunto colpevole ovvero – e la prospettiva non è certo più tranquillizzante – che l’accertamento della sua responsabilità sia comunque un fatto secondario rispetto allo scopo sotteso all’intervento cautelare. In questa prospettiva, il tratto marcatamente preventivo del sistema in esame sembra collidere con la ricerca di un giudizio sul merito: prevenzione e condanna sono strumenti distanti se analizzati nell’ottica degli strumenti impiegabili per perseguire l’una o l’altra. La società che intende provare nel processo la sua estraneità all’illecito amministrativo contestato rischia di essere assoggettata alla misura cautelare per il fatto di non essersi adeguata in itinere agli assunti dell’inquirente e il “periculum libertatis” potrebbe addirittura essere rinvenuto nella mancata ammissione dell’addebito mosso, ovvero nel silenzio mantenuto dall’ente sull’ipotesi di illecito formulata nelle indagini preliminari. E’ evidente che, sia nell’uno che nell’altro caso, viene minato il fondamento garantistico del divieto di attribuire rilevanza alle scelte difensive ai fini delle esigenze cautelari e viene negato il diritto al silenzio dell’ente, imponendogli impropri obblighi di allegazione e di collaborazione. Di dubbia conformità al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, questa volta inteso come regola di giudizio che impone all’accusa l’onere di dimostrare - oltre ogni ragionevole dubbio - la colpevolezza dell’imputato, appare altresì la disposizione di cui all’art. 6, relativa alla disciplina del criterio di imputazione soggettiva della responsabilità all’ente quando l’autore del reato presupposto risulti essere un soggetto apicale. Sul piano dell’accertamento processuale, tale previsione si traduce in un’impropria inversione dell’onere della prova. Per raggiungere l’esenzione dalla responsabilità, infatti, spetta all’ente provare – in via concorrente – l’adozione ante delictum di un efficace compliance program, l’inesistenza di lacune o inadempienze nel controllo svolto dall’organo di vigilanza appositamente istituito e l’elusione fraudolenta del modello di organizzazione e di gestione da parte del soggetto apicale. Il carattere concorrente delle condizioni da provare si risolve in una probatio diabolica, che incide sulla regola di giudizio secondo la quale il giudice pronuncia sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente anche quando manca o è insufficiente o contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo. Essa, infatti, troverà spazio solo laddove risulti dubbio che il reato presupposto sia stato commesso dai vertici nell’interesse o a vantaggio della società, ma quando l’incertezza attenga alle condizioni riportate nell’art. 6, il giudice dovrà pronunciare sentenza di condanna, con buona pace della regola consacrata nell’art. 27 comma 2 Cost. Apprezzamento merita, invece, il peculiare iter applicativo della misura cautelare interdittiva contra societatem. Infatti, con apparente incremento dello standard di garanzie tipiche del paradigma del codice di rito, che pospone l’interrogatorio dell’accusato all’adozione della misura cautelare, il procedimento applicativo delle misure cautelari contra societatem accoglie il modulo del contraddittorio anticipato. In effetti, la delibazione sull’applicabilità della misura interdittiva è iscritta nella cornice di un’udienza, pubblica o camerale, a seconda che la domanda venga presentata rispettivamente nell’ambito di un’udienza già fissata per l’esame del merito – aprendo una parentesi incidentale all’interno di questa – oppure al di fuori. L’innovazione è degna di nota, perché si riconosce nel contraddittorio tra parti contrapposte dinnanzi ad un giudice terzo lo strumento più efficace per garantire una decisione equilibrata, basata non sulla rappresentazione unilaterale dei fatti, ma sulla loro ricostruzione dialettica. La previsione che consente all’ente e al suo difensore di esaminare, presso la cancelleria del giudice, la richiesta del pubblico ministero e «gli elementi sui quali la stessa si fonda» prima della celebrazione dell’udienza garantisce, peraltro, l’effettività del contraddittorio. Non così, invece, la regolamentazione dell’udienza che segue. Infatti, quando l’istanza cautelare è presentata nella fase preliminare, l’udienza che ospita il contraddittorio ricalca il paradigma del procedimento camerale di cui all’art. 127 c.p.p. con scadenze più serrate. Tuttavia, la mancata previsione dell’obbligatoria (contestuale) presenza delle parti, da un lato, e la contrazione dei termini previsti per la fissazione e la celebrazione dell’udienza, dall’altro, incidono negativamente sull’effettività del diritto di difesa e, dunque, sul contraddittorio stesso. Sotto il primo profilo, infatti, è evidente che ridurre la presenza delle parti a mera facoltà sortisce l’effetto di limitare impropriamente il diritto al rinvio dell’udienza nel caso di legittimo impedimento del difensore. Invero, la rigorosa interpretazione della disciplina porta a concludere che l’unico soggetto abilitato a fare valere eventuali impedimenti, con correlativo diritto, sanzionato a pena di nullità, di ottenere il rinvio dell’udienza, è solo l’ente, nella persona del suo legale rappresentante, che abbia chiesto di essere sentito personalmente, ai sensi dell’art. 127 comma 4 c.p.p.. Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, dunque, la presenza effettiva del difensore rischia di diventare irrilevante. Il dubbio sorge ove solo si consideri che qualora il difensore nominato rappresenti un suo legittimo impedimento per l’udienza camerale già fissata e chieda il rinvio dell’udienza, il giudice potrà disattendere la richiesta e nominare, in sua sostituzione, un difensore d’ufficio a norma dell’art. 97 comma 4 c.p.p., al quale tuttavia non è riconosciuto il diritto di ottenere un termine per la difesa ex art. 108 c.p.p., con evidente danno per la difesa del soggetto collettivo. Anche la contrazione dei termini previsti per la celebrazione dell’udienza appare idonea a comprimere impropriamente l’esercizio del diritto di difesa dell’ente. Invero, la particolare complessità dell’illecito amministrativo impone di garantire all’ente incolpato di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa in ossequio al disposto costituzionale dell’art. 111 Cost. Se si considera, però, che l’ente potrebbe venire a conoscenza del suo status solo con l’avviso di fissazione dell’udienza camerale per la decisione in ordine alla richiesta avanzata dal pubblico ministero, i cinque giorni di preavviso previsti per la celebrazione successiva dell’udienza appaiono davvero pochi per consentire all’ente di nominare un difensore, di costituirsi in cancelleria, di estrarre copia degli elementi depositati a sostegno della domanda cautelare, di esaminare tali atti, di effettuare investigazioni finalizzate alla produzione in udienza di elementi nuovi a favore dell’ente. Si corre, dunque, il rischio di vanificare il contraddittorio e di ridurre l’apporto della difesa a mera discussione del materiale presentato dal pubblico ministero. Infine, si evidenzia che, nella dinamica cautelare, il contraddittorio preventivo assolve ad una duplice e diversificata funzione per la persona giuridica: difensiva o collaborativa. L’ente, infatti, in quella sede può innanzitutto scegliere di difendersi contestando gli elementi addotti dall’accusa, assumendosi – come già evidenziato – il rischio di essere ritenuto soggetto “pericoloso” e, dunque di subire l’applicazione della misura interdittiva. Oppure, laddove essa intenda ottenere la sospensione della misura (ex art. 49), può manifestare, nel confronto con la pubblica accusa e davanti al giudice, la volontà di porre in essere gli adempimenti e le condotte riparatorie di cui all’art. 17. L’istituto da ultimo richiamato si pone in linea con la finalità special-preventiva tipica del d. lgs. n. 231 del 2001 e ha chiara natura premiale: esso tende ad incentivare le condotte di riorganizzazione idonee a ricondurre la politica d’impresa in linea con i canoni della legalità. Il ricorso a tale congegno premiale nella fase incidentale del procedimento di applicazione delle misure cautelari, tuttavia, suscita non pochi dubbi di costituzionalità per incompatibilità con il dettato di cui all’art. 27 comma 2 Cost., ancora una volta inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In effetti, all’ente si chiede di attivarsi per rimuovere le cause dell’illecito prima che questo sia stato accertato con sentenza, anche non definitiva, e al giudice di decidere in ordine all’idoneità delle condotte riparatorie attuate utilizzando gli stessi parametri valutativi predisposti in sede di applicazione della sentenza di condanna. Con la non trascurabile differenza che, in sede cautelare, l’accertamento della responsabilità non è ancora avvenuto e la decisione si fonda su elementi indiziari provvisori ed incompleti. Tutto ciò senza considerare che la condotta di resipiscenza attuata dall’ente al fine di ottenere la sospensione della misura cautelare ha inevitabili riflessi in ordine al conseguente accertamento di merito, risolvendosi in ultima analisi in una rinuncia alla prova da parte della persona giuridica. In effetti, l’attività di ristrutturazione, che l’ente è spinto a realizzare per ottenere la sospensione e la successiva revoca della misura cautelare interdittiva, implica necessariamente il riconoscimento delle carenze organizzative e si trasforma in elemento a supporto della tesi accusatoria. Peraltro, il meccanismo di premialità così individuato si presta al rischio di strumentalizzazioni, laddove la cautela venisse concepita come utile strumento di pressione sull’ente per indurlo ad attuare condotte confessorie di “ravvedimento” post factum, impiego certamente contrario al canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, con sviamento della funzione tipica dell’istituto cautelare. Le reali prospettive di efficienza del sistema vanno (soprattutto) ascritte alla disponibilità di un apparato di cautele appositamente studiato per il soggetto collettivo sottoposto a processo: tanto che in sette anni di applicazione giurisprudenziale si contano quasi esclusivamente provvedimenti che attengono alle misure cautelari stesse. Esse, tuttavia, entrano in contraddizione con garanzie e principi fondamentali, frutto di una cultura liberal-democratica del processo, ritenuti “acquisiti” ed innegabili in una società che voglia definirsi non solo moderna ma anche civile.
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1973
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