Thèses sur le sujet « Pittura medievale »

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1

Piazza, Simone. « Pittura rupestre medievale : Lazio et Campania settentrionale (secoli VI-XIII) / ». [Rome] : [Paris] : École française de Rome ; [diff. de Boccard], 2006. http://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb410128026.

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2

Massaccesi, Fabio <1974&gt. « Jacopo di Paolo nella pittura bolognese tra XIV e XV secolo ». Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/1101/1/Tesi_Massaccesi_Fabio.pdf.

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3

Massaccesi, Fabio <1974&gt. « Jacopo di Paolo nella pittura bolognese tra XIV e XV secolo ». Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2008. http://amsdottorato.unibo.it/1101/.

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4

Murat, Zuleika. « Pittura e contesto. Guariento ». Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2013. http://hdl.handle.net/11577/3423040.

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Résumé :
The thesis, entitled “Pittura e contesto. Guariento”, is devoted to the Paduan painter Guariento di Arpo. Born around 1310, and dead before 1370, the painter is widely known because of the artworks he did for the Carraresi, and in particular the private chapel he painted inside their palace. Since he was an esteemed and much valued painter, his fame soon extended over the city boundaries, and he was involved in other important patrons' commissions. Indeed, the Rossi-Botsch wanted him to paint their funerary chapel inside the Dominican church of Bolzano, and later the Dogi called him in Venice to paint the funerary monument of Giovanni Dolfin, and the huge Coronation of the Virgin in the Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale. Guariento worked a lot in his native city as well; the Eremitani, in particular, commissioned him two chapels inside their church. Furthermore, Guariento painted several altarpieces, which are now mainly scattered and kept in Museums and private collections all over the world. Despite the fact that many ancient sources underlined the high quality and the innovative character of his paintings, modern scholars tend to underestimate his works. The fact that his most important works are partially or totally destroied, and the ambiguity of his style, has caused an evident misunderstanding of his paintings. Indeed, his models are yet to be identified properly, and the development of his style has been too strictly connected to other artistic schools, as if we were just a passive imitator. Through a new analisys of his paintings, of the sources, and of the historical context in which the painter lived and worked, this research rearranges Guariento's entire artistic development. The thesis consists in four chapters, which are followed by the usual devices, the historical documents and the catalogue of the paintings. The first chapter is devoted to the critical reception: the opinions that ancient and modern scholars gave of Guariento's works are analyzed within the wider historical and cultural context in which they were expressed. The second chapter is focused on the stylistic evolution, which is analyzed starting from the first paintings, reconnected to the context of the giottesque Paduan workshops, to the last ones. Particular attention is also paid to the decorative and material aspects of the paintings, that have been totally ignored by scholars untill now. The third chapter is devoted to patrons; the important frescoes commissioned by the Carraresi, the Rossi-Botsch, the Eremitani and the Dogi are the main subjects of this chapter. These fragmentary paintings are ideally recomposed in their original aspect, relocated in their sites, and analyzed in their inner meaning, that is often connected to the glorification and celebration of their patron. Finally, the last chapter is devoted to panel paintings. Here their functions, typologies and provenances are taken into account.
La tesi, dal titolo “Pittura e contesto. Guariento”, ha per oggetto la figura e l'opera del pittore padovano Guariento di Arpo. Nato attorno al 1310 e morto entro il 1370, l'artista è noto soprattutto per le sue imprese al servizio dei Carraresi, per i quali dipinse la cappella privata di palazzo e, secondo le testimonianze delle fonti, altre sale di rappresentanza all'interno della reggia, distrutte nel corso dei secoli successivi. Pittore stimato e richiesto all'epoca, la sua fama travalicò presto i confini cittadini, e venne infatti ingaggiato da altri committenti prestigiosi dapprima a Bolzano, dove lavorò per la ricca famiglia dei Rossi-Botsch, e poi a Venezia, dove in due diverse occasioni si aggiudicò importanti commissioni dogali. Nella stessa città natale fu attivo in numerose imprese, fra cui le principali, oltre alle carraresi, si individuano nella chiesa degli Eremitani, dove decorò la cappella maggiore e quella dedicata a Sant'Antonio abate. Infine, numerosi dipinti su tavola, per la maggior parte smembrati e conservati in musei e collezioni internazionali, lasciano immaginare una ricca produzione di pale d'altare, in competizione e su modello di quanto si andava contemporaneamente facendo a Venezia, oggi difficilmente stimabile per la scomparsa pressoché totale, e per gli invasivi rimaneggiamenti, dei dipinti stessi. La posizione innovatrice del pittore, pur ben rilevata dalle fonti antiche che lunghi elogi dedicarono alla sua opera, stenta ad essere riconosciuta dalla critica più recente, al punto che Guariento è spesso sottovalutato non solo per la distruzione parziale delle sue opere più importanti, che ne pregiudica l'apprezzamento, ma anche per l'ambivalenza del suo linguaggio, che spesso ha disorientato gli studiosi. Ancora in anni assai recenti, infatti, le radici stilistiche del maestro vengono confuse e male interpretate, così come il successivo evolversi del suo stile, troppo spesso letto in un rapporto di derivazione quasi passiva da modelli di scuole pittoriche diverse, fiorite negli stessi anni. Attraverso la rinnovata analisi dei dipinti, pertanto, delle fonti, e del contesto storico in cui Guariento operò, la ricerca che qui si presenta ricostruisce l'intera vicenda artistica del maestro, restituendo dignità ad un pittore che fu fra i massimi innovatori dell'arte padovana del Trecento. Il lavoro si articola in quattro capitoli, cui fanno seguito i canonici apparati, ovvero il regesto documentario e il catalogo delle opere. Il primo capitolo è dedicato alla fortuna critica; i giudizi espressi sull'opera del pittore vengono contestualizzati nel tessuto culturale in cui furono prodotti, e riletti alla luce delle conoscenze e correnti di pensiero coeve. Segue un capitolo dedicato all'analisi stilistica dell'intera opera del pittore, che viene riveduta a partire dalle fasi iniziali, contestualizzate nell'ambito delle botteghe giottesche padovane di inizio Trecento, fino agli sviluppi gotici più maturi e alla fase estrema, neogiottesca, dell'attività dell'artista; grande attenzione è riservata all'aspetto ornamentale e materico delle opere, finora totalmente trascurato dalla critica. Al fondamentale ambito della committenza è dedicato il terzo capitolo, che focalizza l'attenzione sugli importanti cicli finanziati dai Carraresi, dai Rossi-Botsch, dagli Eremitani e dai Dogi; i dipinti frammentari vengono idealmente ricomposti nella loro veste originaria e al contempo se ne indagano i significati encomiastici e celebrativi. L'ultimo capitolo è invece riservato all'analisi della produzione su tavola, e nello specifico alle funzioni, tipologie e provenienze di tali dipinti, oggi per la maggior parte smembrati. Attraverso lo studio diretto delle porzioni superstiti, lo spoglio delle fonti, e la comparazione con esempi meglio documentati e integri, si propongono nuove ipotesi ricostruttive.
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5

Mazzocchi, Eleonora. « Territori della Riforma : pittura a Roma nella prima metà del XII secolo ». Doctoral thesis, Scuola Normale Superiore, 2006. http://hdl.handle.net/11384/85761.

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Résumé :
From the introduction: Il cuore della tesi [...] è il tentativo di offrire una rilettura della cosiddetta seconda età della Riforma Gregoriana, attraverso il riesame di alcune testimonianze pittoriche meno indagate. Fra queste si collocano in primo piano le pitture del sacella della basilica dei Ss. Bonifacio ed Alessio [...]. Partendo da un'analisi storica della città di Roma nel XII secolo, attraversata dai continui conflitti tra il Papato e l'Impero approdati ad una prima soluzione con il Concordato di Worms del 1122, ho indagato, alla luce dei nuovi contributi storici, il ruolo dei monasteri, evidenziandone le particolarità rispetto alle altre città italiane e la presenza attiva nella vita politica e culturale [...]. A ciò ha fatto seguito una'analisi della basilica di San Benedetto in Piscinula, con una ricostruzione della sua storia attraverso la documentazione rintracciata in archivi romani, per giungere al cuore del discorso, le pitture del ciclo testamentario [...].
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6

Fabbian, Alice <1986&gt. « Pittura rupestre del Catepanato in Puglia : iconografie orientali a confronto con temi dell'occidente cristiano ». Master's Degree Thesis, Università Ca' Foscari Venezia, 2018. http://hdl.handle.net/10579/13479.

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Résumé :
Dopo un inquadramento storico-geografico della Puglia e in particolare della provincia di Brindisi; si procederà con la descrizione degli affreschi siti in importanti chiese rupestri di epoca medievale localizzati nella zona, tra cui il complesso di Lama d’Antico di San Marco e San Biagio. L’attenzione verrà focalizzata sulla compresenza iconografica greca e latina con l’obiettivo di delimitare nelle varie chiese la giusta attribuzione dei due stili. Tale compresenza stilistica può rendere più chiari i rapporti che andavano sviluppandosi tra le due comunità nel periodo e nell'area geografica presi in questione, e dare un quadro più chiaro delle dinamiche religiose e sociali che l'attraversarono.
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Mosso, Valerio <1976&gt. « Giovanni Francesco da Rimini Un percorso fra tradizione e rinnovamento nella pittura italiana di metà Quattrocento ». Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2012. http://amsdottorato.unibo.it/5115/1/Mosso_Valerio_tesi.pdf.

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Résumé :
La tesi presenta l’attività di Giovanni Francesco da Rimini, pittore attivo all’incirca dal 1440 al 1470. Analizzando le varie esperienze tra Padova, Perugia, Firenze e Bologna, si ricostruisce un catalogo delle sue opere.
The PhD thesis focuses on the oeuvre of Giovanni Francesco da Rimini, painter active between 1440 and 1470. Through the analysis of his activity in Padua, Perugia, Florence and Bologna, it presents a complete catalogue of his works.
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Mosso, Valerio <1976&gt. « Giovanni Francesco da Rimini Un percorso fra tradizione e rinnovamento nella pittura italiana di metà Quattrocento ». Doctoral thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2012. http://amsdottorato.unibo.it/5115/.

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Résumé :
La tesi presenta l’attività di Giovanni Francesco da Rimini, pittore attivo all’incirca dal 1440 al 1470. Analizzando le varie esperienze tra Padova, Perugia, Firenze e Bologna, si ricostruisce un catalogo delle sue opere.
The PhD thesis focuses on the oeuvre of Giovanni Francesco da Rimini, painter active between 1440 and 1470. Through the analysis of his activity in Padua, Perugia, Florence and Bologna, it presents a complete catalogue of his works.
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RICCOBONO, FEDERICO. « La pittura murale a Milano tra la seconda metà del XIII secolo e l'inizio del XIV secolo ». Doctoral thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2012. http://hdl.handle.net/10280/1352.

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Résumé :
Si tratta di studio sulla pittura murale milanese dalla seconda metà del Duecento all’inizio del Trecento; partendo dalle considerazioni di Pietro Toesca (1912), si analizzano i singoli affreschi cercando di inserirli all’interno di un omogeneo percorso cronologico e stilistico; per comprendere meglio quale aspetto avesse la pittura milanese prima dell’arrivo di Giotto a Milano, evidenziando somiglianze e differenze tra le varie cadenze stilistiche presenti in Milano. A questo scopo i singoli dipinti, presenti nei vari edifici religiosi, vengono studiati nel loro contesto architettonico per comprendere meglio la loro rilevanza artistica nella città.
This study on the mural painting in Milan in the second half of the thirteenth century at the beginning of the fourteenth century, starting from the considerations of PietroToesca (1912); we analyze the individual frescoes trying to put them in a consistent chronological and stylistic; to understand better what the painting looked like before the arrival of Giotto in Milan , highlighting similarities and differences between the many stylistic variations present in Milan. For this purpose the individual paintings in the various religious buildings, are studied in their architectural context to better understand their importance in the artistic city.
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RICCOBONO, FEDERICO. « La pittura murale a Milano tra la seconda metà del XIII secolo e l'inizio del XIV secolo ». Doctoral thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2012. http://hdl.handle.net/10280/1352.

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Si tratta di studio sulla pittura murale milanese dalla seconda metà del Duecento all’inizio del Trecento; partendo dalle considerazioni di Pietro Toesca (1912), si analizzano i singoli affreschi cercando di inserirli all’interno di un omogeneo percorso cronologico e stilistico; per comprendere meglio quale aspetto avesse la pittura milanese prima dell’arrivo di Giotto a Milano, evidenziando somiglianze e differenze tra le varie cadenze stilistiche presenti in Milano. A questo scopo i singoli dipinti, presenti nei vari edifici religiosi, vengono studiati nel loro contesto architettonico per comprendere meglio la loro rilevanza artistica nella città.
This study on the mural painting in Milan in the second half of the thirteenth century at the beginning of the fourteenth century, starting from the considerations of PietroToesca (1912); we analyze the individual frescoes trying to put them in a consistent chronological and stylistic; to understand better what the painting looked like before the arrival of Giotto in Milan , highlighting similarities and differences between the many stylistic variations present in Milan. For this purpose the individual paintings in the various religious buildings, are studied in their architectural context to better understand their importance in the artistic city.
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Scirea, F. « Gli elementi ornamentali della pittura murale medievale in Lombardia (secoli VIII-XIII). Repertorio fotografico, catalogo con database relazionale, studio per exempla ». Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano, 2007. http://hdl.handle.net/2434/67483.

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CASERO, ANDREA LUIGI. « Giusto de' Menabuoi in Lombardia ». Doctoral thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2011. http://hdl.handle.net/10280/1064.

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Résumé :
La ricerca prende in considerazione il periodo di attività in Lombardia di Giusto de’ Menabuoi, pittore del XIV secolo di origine fiorentina e noto soprattutto per le opere realizzate a Padova, dove lavorò dal 1370 fino alla morte avvenuta prima del 1391. Tra il 1348 e il 1367 circa lavorò anche in Lombardia ma su questo periodo le certezze sono molto poche. Sono state quindi prese in esame le opere date al pittore in questo periodo (affreschi di Viboldone e di Brera, polittico del 1363 e trittico del 1367), cercando di precisare meglio la possibile datazione e di rendere più sicura l’attribuzione. Infine è stata proposta l’attribuzione di un’opera inedita, dipinta da Giusto per una chiesa di Monza. Dalla ricerca si ricava che durante il lungo soggiorno in Lombardia lo stile del pittore cambiò nell’uso di forme e di colori più eleganti e raffinati che influenzarono i pittori lombardi di quegli anni.
My research examines the period of activity in Lombardy of Giusto de' Menabuoi, a painter of the 14 century. He was born in Florence and is mostly known for his paintings executed in Padua where he worked from 1370 until his death just before 1391. Approximately between 1348 and 1367 he worked also in Lombardy but little is known for sure about this period. For the research presented here, some works from this period have been studied: the frescoes of Viboldone and Brera, the polyptych from 1363 and the triptych from 1367), proposing an approach to dating and provide more evidence for the attribution. Finally there is a proposal for attributing an unpublished work by Giusto for a church in Monza. The reseach shows that during his long stay in Lombardy the stile of the painter underwent a number of changes in his use of more elegant and refined colours which influenced other Lombard painters of that period.
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CASERO, ANDREA LUIGI. « Giusto de' Menabuoi in Lombardia ». Doctoral thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2011. http://hdl.handle.net/10280/1064.

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Résumé :
La ricerca prende in considerazione il periodo di attività in Lombardia di Giusto de’ Menabuoi, pittore del XIV secolo di origine fiorentina e noto soprattutto per le opere realizzate a Padova, dove lavorò dal 1370 fino alla morte avvenuta prima del 1391. Tra il 1348 e il 1367 circa lavorò anche in Lombardia ma su questo periodo le certezze sono molto poche. Sono state quindi prese in esame le opere date al pittore in questo periodo (affreschi di Viboldone e di Brera, polittico del 1363 e trittico del 1367), cercando di precisare meglio la possibile datazione e di rendere più sicura l’attribuzione. Infine è stata proposta l’attribuzione di un’opera inedita, dipinta da Giusto per una chiesa di Monza. Dalla ricerca si ricava che durante il lungo soggiorno in Lombardia lo stile del pittore cambiò nell’uso di forme e di colori più eleganti e raffinati che influenzarono i pittori lombardi di quegli anni.
My research examines the period of activity in Lombardy of Giusto de' Menabuoi, a painter of the 14 century. He was born in Florence and is mostly known for his paintings executed in Padua where he worked from 1370 until his death just before 1391. Approximately between 1348 and 1367 he worked also in Lombardy but little is known for sure about this period. For the research presented here, some works from this period have been studied: the frescoes of Viboldone and Brera, the polyptych from 1363 and the triptych from 1367), proposing an approach to dating and provide more evidence for the attribution. Finally there is a proposal for attributing an unpublished work by Giusto for a church in Monza. The reseach shows that during his long stay in Lombardy the stile of the painter underwent a number of changes in his use of more elegant and refined colours which influenced other Lombard painters of that period.
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Baggio, Luca. « Iconografia di sant'Antonio al Santo di Padova nel XIII e XIV secolo : Spazi, funzioni, messaggi figurati, committenze ». Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2013. http://hdl.handle.net/11577/3423845.

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Résumé :
This study examines the iconography of St. Anthony in the 13th and early 14th centuries at the church which houses his tomb (commonly known as ‘il Santo’). The research focuses on the role of the Franciscans in the development of this iconography, as promoters and, in several cases, patrons. No image of St. Anthony of the 13th century has been preserved in the Basilica. For this reason, the research examines the church (the context of figurative works now lost) and the tomb of the saint (the ideal center of the sanctuary). It is suggested that in the 13th century images of St. Anthony existed in the central portal, in some niches in the inner facade, on the high altar, in the windows of the radiating chapels. Some miniatures of the late 13th century seem to confirm the existence of lost paintings. The oldest image of St. Anthony preserved (probably early 14th century), painted in the lunette of the old door of the Sacristy, is discussed in relation of its location. The fresco cycle in the Chapter Hall of the convent is examined in detail, as a turning point of the iconography of St. Anthony. Because of the transformations suffered by the room, new investigations are proposed on the architectural structures of the room; the photoplan of the east wall has been realized with a hypothetical reconstruction of the original dimensions of the frescoed scenes. The iconographic analysis highlights the centrality of the image of St. Anthony and leads to new hypotheses about the meanings of the paintings, commissioned by friars of the Santo. The functions of the Chapter Hall are investigated in detail, as well as some written sources, such as points of reference for the elaboration of new images of St. Anthony. The proposed chronology of the paintings is the first decade of the 14th century, a period of radical changes for the Franciscan community of Padua and for the entire Order of Friars Minor. The frescoes are attributed to Giotto, probably before the cicle in the Arena Chapel. The hypothesis is confirmed by the impact of these paintings on artists of North-East Italy and Rimini. Finally, the remains of frescoes in the space now called 'andito' are investigated in close relation with the adjacent Chapter House: it is very likely that here some images of St. Anthony was present and relevant.
Questo studio prende in esame l'iconografia di sant'Antonio presso la basilica padovana che conserva il suo corpo (nota comunemente come 'il Santo') nel secolo XIII e agli inizi del XIV. La prospettiva di ricerca è incentrata sul ruolo dei francescani nell’elaborazione dell'iconografia antoniana, come promotori e, in diversi casi, come diretti committenti. Non essendosi conservate al Santo immagini duecentesche di sant'Antonio, l'indagine prende in esame l'architettura della basilica (il contesto delle eventuali opere figurative oggi perdute) e la tomba del Santo (centro ideale del santuario). Viene avanzata l'ipotesi che esistessero immagini antoniane duecentesche nel portale centrale della facciata, nelle nicchie della controfacciata, sull'altare maggiore, nelle vetrate delle cappelle radiali. Alcune miniature tardoduecentesche sembrano confermare l'esistenza di opere pittoriche perdute. La più antica immagine antoniana conservatasi, databile tra fine Duecento e inizio Trecento, posta nella lunetta della porta della sacrestia, viene analizzata in rapporto alla sua collocazione. Viene successivamente esaminato in dettaglio il ciclo affrescato nella sala del capitolo del convento antoniano, che si qualifica come un punto di svolta per l'iconografia antoniana. Sono proposte nuove indagini sulle strutture architettoniche della sala, che ha subito molte trasformazioni. È stato realizzato il fotopiano della parete est, su cui si è proiettata un'ipotetica distribuzione originaria delle scene affrescate, oggi in stato frammentario. La rilettura iconografica del ciclo mette in evidenza la centralità delle immagini di sant'Antonio e giunge a nuove ipotesi sui significati dei dipinti, voluti dai frati del convento del Santo con precisi scopi comunicativi. Vengono indagate le funzioni che questo spazio svolgeva all'interno del convento e sono analizzate alcune fonti scritte locali, quali punti di riferimento per interpretare le innovative immagini antoniane presenti nel ciclo pittorico. La cronologia dei dipinti proposta è il primo decennio del Trecento, una fase di radicali e complessi cambiamenti nella comunità francescana di Padova e per l'intero Ordine dei Minori. Gli affreschi vengono attribuiti a Giotto, probabilmente prima del ciclo di pitture nella cappella degli Scrovegni, anche tenendo conto del loro impatto nell'area del nord-est italiano e presso i pittori riminesi. Infine vengono presi in considerazione i resti di affreschi nel vano oggi adibito ad 'andito' della portineria del convento, in stretto rapporto con la contigua sala capitolare, e si ipotizza la possibilità che anche qui l'immagine di sant'Antonio fosse presente e rilevante.
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Fazio, Giuseppe. « "lo travo di lo crucifixo". L'esposizione e l'uso della croce negli edifici di culto siciliani fra il Regnum Normanno e il Concilio di Trento (1149-1555) ». Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2015. http://hdl.handle.net/11577/3423918.

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Résumé :
In 1992 the publication of a book on the crosses painted in Sicily highlighted an aspect of artistic production from that island thirteenth century until the mid-sixteenth century had kept the art workshops engaged in the incessant work to meet the needs of liturgical worship and cathedrals, monasteries and parish, can not exist in fact a Christian church without its icons of the cross. From the text, which begins however previous studies mainly by Maria Grazia Paolini, who already in 1959 had identified the peculiarities of the Sicilian production of painted crosses, it is clear that while the rest of Italy this particular genre of painting had already extinct at the end of the fourteenth century, in Sicily it is perpetuated since well over half of the sixteenth century, with a continuous renewal of figurative language from the artists but remain linked to the medieval tradition of the table-shaped cross, adorned with a rich carved frame that only in rare cases has been preserved, where the figures are often forced to strength within the contours tightened. "The originality of the crosses in Sicily since the fifteenth century is even more to be painted on both sides instead of just in the front, as the specimens were Romanesque and Gothic, except for the processional crosses and processional, to other more manageable and small format "(Maurizio Calvesi). In large crosses stational of Sicily, unlike the crosses of small size often carried out in devotional purposes and which provide a wide variety of different images, iconography has also established a pattern of responding to its liturgical function and that, except in rare cases, remains long unchanged. It provides, in the front, the figure of the Crucified at the center, the Virgin and St. John capicroce mourners in the two sides, the Pantokrator or the Arbor vitae with the Pelican's Nest, emblem Christological, top and Mary Magdalene or the cave with the skull of Adam down; in verse we find the figure of the Risen One in the center and the emblems of the four evangelists in the heads-cross. However on that occasion were left unresolved many issues especially some of the specimens presented that are still open chapters in the history of medieval and modern in Sicily; just mention for all the extraordinary cross of the Cathedral of Piazza Armerina, name-piece for the still anonymous artist who painted it. Nearly twenty years from that pioneering publication it seemed appropriate then return to the subject to try to clarify the points were still in shadow and enlarge the field of investigation to other aspects of the exposure of the cross inside the church buildings and Sicilian its enjoyment by the clergy and the assembly of the faithful. It was thought then to extend the research to both liturgical previous models, ie from when in Sicily we have cognizance of a systematic use of the cross framed with certainty, through written and iconographic sources, and corresponding certificates of the Norman period and extend it up the mid-sixteenth century, when the rules or customs and interpretations resulting from the Council of Trent will interrupt the millennial ecclesial centrality of the cross within the classroom; is to include other forms of exposure of the cross, focusing in turn on the diversity of the medium, in terms of support and material used but also change it causes in the reception of the message you want to convey. The chronological boundaries are marked by two specific dates: in 1149 is drawn up an inventory of the movable property of the Cathedral Cefalu in which it is clear, and it is one of the first times, the use of Norman processional cross, which was then detached from its rod and placed on the altar, or fixed in its vicinity; 1555 is actually the year marked on the back of the complex painted wooden machine in the middle of the nave of the church mother of Collesano, which represents the apogee for the crosses Sicilian well as a unique case in Italy of maintaining such a structure that underpins all liturgical space. In re-reading of the sources, documents and historiography on the subject, among which we note the recent and substantial publication Manufacere et sculpt in Lignamine, curated by Teresa Pugliatti, Salvatore Rizzo and Paul Russo, dedicated to wood carving Sicilian emerged not few discrepancies in the interpretation of the data available to us, that since 1992, thanks to numerous discoveries documentaries, have increased the ability to have a more complete picture, although several are still holes to be filled with reliable data, but that we tried to give an answer, however, albeit hypothetical. The research was started trying to focus on a few key points that make up the skeleton of which has developed the whole architecture of the arguments:  The painted crosses should be seen in the broader context of Calvari stational, of which they are a very special synthetic vision accomplished. The documents and iconographic sources suggest in fact that there is a possibility of varied solutions for the display of the cross: the only painted cross, the cross and the mourners painted detected in the round, the cross painted only in the direction and with the crucifix carved in front, the only carved crucifix, the group of Calvary consisting of three statues in the round.  The placement of the cross within the building of the Church. Previous studies have focused only on the vertical, disputing whether originally crosses and crucifixes were hung under the arch of the presbytery, planted on the ground or, more likely, placed above the partition and most frequently named in the documents of the entablature precisely "the trabo" or "the trabe" of the crucifix. Misunderstandings in this regard arise mainly from a misinterpretation on the arrangement of the cross in the Cathedral of Cefalu. In the temple the Ruggero is in fact still present a monumental cross opistografa, the largest of Sicily with over five feet tall, attributed by Genevieve Bresc Bautier before, and Maria Andaloro, then, to William of Pesaro, that he had to perform before 1468, the year in which he was commissioned another cross painted for the cathedral of Monreale that the painter had to make in accordance with that already accomplished for Cefalu. The bishop Preconio probably transfers the monumental cross painted under the keystone of the great arch that separates the nave from the transept of the assembly reserved for the clergy, the fact here is hanging a chronicler of 1592, Bartholomew Carandino, and said this as he created many misunderstandings about the placement of the cross originally cefaludese and other in Sicily; In fact, the crosses Sicilian are also distinguished by not having a base of support of its own, however, are still recognizable in many pin that allowed to fix the partition or to the beam and the rings for the attachment of tie rods which allowed to stabilize it. But it will be only with the internal changes made in the areas celebratory atmosphere of Trent, during which he emphasized the centrality of eucharistic compared to the cross, it is moved or the apex of the arch of the presbytery, not to "annoy" the vision of the liturgical rites, or is placed on a side altar, equated to other images that multiply on the walls of the churches. The same documents tell us, however, the placement of the cross "in mezo of the ecclesia" accentuating the appearance of more horizontal than vertical. The main function of the cross was in fact to divide the church into two zones, one reserved for the clergy and the celebration of the rites and adapted to accommodate the congregation, reflecting what Venantius Fortunatus, hymn writer of the sixth century, expressed in his Vexilla Regis, the most famous liturgical text dedicated to the cross, that at some point, the turns with these words: "his body made six scales."  The liturgical function of the verse painted with the image of the Risen Christ. It has been hypothesized that the bi-frontal crosses Sicilian serve to expose in Easter time the effigy of the resurrection, turning the table on itself. This ritual is not, however, no trace in the sources and in any case, if true, it appears more devotional custom post-Tridentine that a practice of medieval spirituality. To this is added that for some specimens of the cross, of considerable size and with predispositions logistical which did not allow the mobility of the work, even partial, such an operation is very unlikely.  Problems related to stylistic issues and attributive. Many powers, both painted crosses that of the sculptures, are not universally shared by critics as well as in some cases, among which the most interesting is that of conventionally called Master of the Cross of Piazza Armerina, has debated the cultural formation of the artists and about where they came from foreign or local origin. Part of the research has sought to clarify purely liturgical - worship, primarily with the analysis of the sources of the liturgical and patristic texts founding and prescriptive use of the cross in the Roman liturgy and its presence stational and monumental inside buildings of worship. The Latin sources are given in the original language, while those of Greece or in other ancient language in translation; also some times when you are recognized problems of interpretation, we opted for the translation notes in the current language. You are covered both by the general sources of Latin Patrology both local liturgical sources, such as the so-called Missal Gallicano (late twelfth-early thirteenth century.) Kept in the Historical Diocesan Palermo, the liturgical texts of the Seminary Library of Messina (XII sec.) and the most recent of the Central Library of the Region of Sicily and the Benedictine Abbey of San Martino delle Scale, noting that from the regulatory point of view did not exist in Sicily requirements peculiar than the rest of the Christian West. The order of the chapters should not be seen then only as a sequence of events and the works presented, but this is associated typological and functional diversification of the whole substance of the works remained and digressions diachronic general about the different uses of the cross in time. Great attention was also given to the issues related to the iconography and iconology of the images, because I believe that the read-only form and style returns only partial sense the context of this particular category of liturgical furniture. The reading of the various systems of images and the research of their semantic language did not stop the lectio faciliori simplistic, but we tried to go back to the original sources that underlie each of them, which probably over the course of time were not longer perceived as such, but they are still evidence of a figurative tradition unbroken. A significant part of the research has been devoted to the investigation of documents, putting together and rereading uniquely the large amount of documents from Gioacchino Di Marzo (second half of the nineteenth century) onwards have come to light, not having left out when possible integration with new data from unpublished documents or little known. Chapter I is focused on the use of the cross in Sicily during the Norman-Swabian, when there is no documented presence of monumental crosses but only of those small and precious that were used at the same time in processions and then placed at the altar; has analyzed the origin of the cross placed in the context of the altar and its link with the Eucharistic sacrifice and the development of the function to the so-called cross stational, that which preceded the liturgical rituals and paraliturgical the pope and the bishops who were been authorized; they browse the surviving works produced by the workshops of the Royal Palace in Palermo, none of which is now preserved in Sicily, and then the other types ranging from crosses in metal foils to those in enamel production alms. Chapter II deals with the theme of the monumental cross in the center of the church, it analyzes the origin and spread, and then focuses on the few specimens and two fourteenth century who escaped to the degradation of the time, from the Italian import center to those recognized as indigenous production. Also presented is the only specimen of thirteenth-century wooden crucifix to be come down to us, that of the monastery of Rifesi, today in the mother church of Burgio (Agrigento). In Chapter III develops the theme of the Gothic crucifix in relief, which spread during the fourteenth century and is regarded as the birth of devotional crucifix before which pour intentions and hopes of the faithful repented of his sins. Specimens most famous in Sicily, two of the "painful", Palermo and Trapani, and one of the "polite", in Monreale, will be the subject of numerous replicas, that even in the case of the most devoted crucified Palermo will come up in the early twentieth century. Chapter IV deals with the recovery in the fifteenth century the production of painted crosses and characterization of its most distinctive in the original crosses opistografe, presenting the crucifix on the one hand and the Risen other. Here we have tried to give answers, which obviously reflect the views of the writer, on many issues still unresolved about the functions of some of the works or their cultural connotation, trying to argomentarle based on reliable data. Finally, the fifth and final chapter is devoted to the various alternatives to cross painted, ranging from simple solutions, such as the carved crucifix or cross hybrid, with some parts painted and other relief, to more complex ones involving the use of crosses or crucified flanked by images of the two mourners, who have their apex in the great machine of wooden Collesano, 1555. The second part of the text is devoted to the classification of the existing works, starting with the good repertoire of painted crosses and crucifixes published in 1992, integrating them with the works then do not enter, especially in eastern Sicily, and adding the works belonging to the other types analyzed. The results of this investigation were included in a catalog raisonné of any work where there was placement, materials and support measures, provenance, iconography, any markings, date, author. Regarding Section V. of the catalog, namely the one concerning the crucifixes and sculptures of the fifteenth and sixteenth centuries, the classification is to be understood as merely illustrative and not exhaustive absolutely, because, in the absence of a preliminary cataloging, too many are works and too vast territory to be able to assume a reconnaissance sweep.
Nel 1992 la pubblicazione di un libro sulle croci dipinte in Sicilia (M. C. Di Natale, Le croci dipinte in Sicilia. L'area Occidentale dal XIV al XVI secolo, Flaccovio editore, Palermo 1992) metteva in evidenza un aspetto della produzione artistica isolana che dal Duecento fino alla metà del Cinquecento aveva tenuto impegnate le botteghe artistiche nell'incessante lavoro di soddisfare le esigenze cultuali e liturgiche di cattedrali, monasteri e parrocchiali, non potendo esistere infatti una chiesa cristiana senza la sua icone della croce (Concilio Niceno II). Dal testo, che prende le mosse comunque dagli studi precedenti soprattutto di Maria Grazia Paolini, che già nel 1959 aveva individuato le peculiarità della produzione siciliana di croci dipinte, si evince chiaramente che mentre nel resto d'Italia questo particolare genere pittorico si era estinto già sul finire del Trecento, in Sicilia esso si perpetua fin ben oltre la metà del XVI secolo, con un continuo rinnovamento del linguaggio figurativo da parte degli artisti ma restando legati alla tradizione medievale della tavola sagomata a croce, ornata da una ricca cornice intagliata che solo in rari casi si è conservata, dove spesso le figure sono costrette a forza entro i contorni serrati. "L'originalità delle croci siciliane a partire dal XV secolo è per altro anche quella di essere dipinte su entrambe le facce invece che soltanto nel recto, come erano gli esemplari romanici e gotici, ad eccezione delle croci astili e processionali, per altro più maneggevoli e di formato ridotto (dalla introduzione di Maurizio Calvesi). Nelle grandi croci stazionali della Sicilia, a differenza delle croci di piccolo formato spesso realizzate a fini devozionali e che prevedono una grande varietà di immagini diverse, l'iconografia si è inoltre consolidata su uno schema rispondente alla sua funzione liturgica e che, tranne in rari casi, rimane a lungo invariato. Esso prevede, nel recto, la figura del Crocifisso al centro, la Vergine e San Giovanni dolenti nei due capicroce ai lati, il Pantokrator ovvero l'Arbor vitae con il nido del Pellicano, emblema cristologico, in alto e la Maddalena ovvero la grotta con il teschio di Adamo in basso; nel verso troviamo invece la figura del Risorto al centro e gli emblemi dei quattro evangelisti nei capi-croce. Tuttavia in quella occasione venivano lasciate irrisolte numerose questioni inerenti soprattutto alcuni degli esemplari presentati che costituiscono ancora capitoli aperti della storia dell'arte medievale e moderna in Sicilia; basta citare per tutti la straordinaria croce della cattedrale di Piazza Armerina, name-piece per l'ancora anonimo maestro che l'ha dipinta. A quasi vent'anni da quella pionieristica pubblicazione è sembrato opportuno allora ritornare sull'argomento per cercare di chiarire i punti rimasti ancora in ombra e allargare il campo di indagine agli altri aspetti inerenti l'esposizione della croce all'interno degli edifici ecclesiastici siciliani e la sua fruizione da parte del clero e dell'assemblea dei fedeli. Si è pensato allora di estendere la ricerca sia ai modelli liturgici precedenti, ossia a partire da quando in Sicilia abbiamo contezza di un uso della croce sistematicamente inquadrabile con certezza, attraverso fonti scritte e iconografiche, e che corrisponde alle attestazioni di epoca normanna e protrarla fino alla metà del XVI secolo, quando le norme, ovvero le consuetudini e le interpretazioni, scaturite dal Concilio di Trento interromperanno la millenaria centralità della croce all'interno dell'aula ecclesiale; sia di includere le altre forme di esposizione della croce, focalizzando l'attenzione di volta in volta sulla diversità del medium, in termini di supporto e di materia utilizzati ma anche del cambiamento che esso provoca nella recezione del messaggio che si vuole trasmettere. I confini cronologici sono segnati da due date precise: nel 1149 viene redatto l'inventario dei beni mobili della Cattedrale Cefalù in cui si evince chiaramente, ed è una delle prime volte, l'uso normanno della croce processionale, che poi veniva staccata dalla sua asta e posta sull'altare, ovvero fissata nei pressi di esso; il 1555 è invece l'anno segnato sul verso dipinto della complessa macchina lignea al centro della navata della chiesa madre di Collesano, che rappresenta l'apogeo per le croci siciliane oltre che un caso unico in Italia di mantenimento di una simile struttura che focalizza tutto lo spazio liturgico. Nella rilettura delle fonti, dei documenti e della storiografia sull'argomento, fra cui si segnala la recente e corposa pubblicazione Manufacere et scolpire in lignamine, curata da Teresa Pugliatti, Salvatore Rizzo e Paolo Russo, dedicata alla scultura in legno siciliana, sono emerse non poche discordanze nell'interpretazione dei dati a nostra disposizione, che dal 1992 ad oggi, grazie a numerosi rinvenimenti documentari, hanno accresciuto la possibilità di avere un quadro più completo, anche se ancora parecchi rimangono i buchi da colmare con dati certi, ma a cui si tentato di dare comunque una risposta, seppure ipotetica. La ricerca si è avviata cercando di mettere a fuoco alcuni punti cardine che costituiscono lo scheletro su cui si è sviluppata tutta l'architettura delle argomentazioni: Le croci dipinte vanno inserite nel più ampio contesto dei Calvari stazionali, di cui esse rappresentano una particolarissima visione sintetica compiuta. I documenti e le fonti iconografiche suggeriscono infatti l'esistenza di una variegata possibilità di soluzioni per l'esposizione della croce: la sola croce dipinta, la croce dipinta e i dolenti rilevati a tutto tondo, la croce dipinta soltanto nel verso e con il Crocifisso scolpito nel recto, il solo Crocifisso scolpito, il gruppo del Calvario composto da tre statue a tutto tondo. ­La collocazione della croce all'interno dell'edificio ecclesiale. Gli studi precedenti si sono soffermati soltanto sull'aspetto verticale, disputando se in origine croci e crocifissi erano appesi sotto l'arco del presbiterio, piantate a terra o, più verosimilmente, poste al di sopra del tramezzo e più frequentemente della trabeazione chiamata nei documenti per l'appunto 'lo trabo' o 'la trabe' del crocifisso. Gli equivoci in questo senso nascono principalmente da una errata interpretazione sulla sistemazione della croce nella Cattedrale normanna di Cefalù. Nel tempio ruggeriano è infatti ancora presente una monumentale croce opistografa, la più grande della Sicilia con i suoi oltre cinque metri di altezza, attribuita da Genevieve Bresc Bautier, prima, e da Maria Andaloro, poi, a Guglielmo da Pesaro, che la dovette eseguire prima del 1468, anno in cui gli viene commissionata un'altra croce dipinta per il duomo di Monreale che il pittore doveva realizzare in conformità a quella già compiuta per Cefalù. Il vescovo Preconio, probabilmente, trasferisce la monumentale croce dipinta sotto la chiave di volta del grande arco che separa la navata dell'assemblea dal transetto riservato al clero, qui infatti la trova appesa un cronista del 1592, Bartolomeo Carandino, e questo come detto ha creato numerosi equivoci circa la collocazione in origine della croce cefaludese e delle altre in Sicilia; infatti le croci siciliane si distinguono anche per non avere una base d'appoggio propria, in molte però sono ancora riconoscibili il perno che permetteva di fissarle al tramezzo o alla trave e gli anelli per l'aggancio dei tiranti che permettevano di stabilizzarla. Ma sarà soltanto con le trasformazioni interne alle aree celebrative operate nel clima tridentino, durante il quale si è accentuata la centralità della custodia eucaristica rispetto alla croce, che essa viene spostata o all'apice dell'arco del presbiterio, per non "infastidire" la visione dei riti liturgici, oppure viene collocata su un altare laterale, equiparata alle altre immagini che si moltiplicano sulle pareti delle chiese. Gli stessi documenti ci dicono però della collocazione della croce 'in mezo di la ecclesia' accentuando di più l'aspetto orizzontale, rispetto a quello verticale. La funzione principale della croce era infatti quella di dividere la chiesa in due zone, una riservata al clero e alla celebrazione dei riti e una atta ad accogliere l'assemblea dei fedeli, rispecchiando così quanto Venanzio Fortunato, innografo del VI secolo, aveva espresso nel suo Vexilla Regis, il più famoso testo liturgico dedicato alla croce, che ad un certo punto, le si rivolge con queste parole: «del corpo suo sei fatta bilancia». La funzione liturgica del verso dipinto con l'immagine del Cristo Risorto. E' stato ipotizzato che la bi-frontalità delle croci siciliane servisse per esporre nel tempo di Pasqua l'effigie della resurrezione, rigirando la tavola su se stessa. Di questo rituale non si trova però nessuna traccia nelle fonti e comunque, se vero, esso appare più un'usanza devozionale post-tridentina che una prassi della spiritualità medievale. A questo si aggiunge che per alcuni esemplari di croce, di notevoli dimensioni e con predisposizioni logistiche che non permettevano la mobilità anche parziale dell'opera, una simile operazione risulta molto improbabile. Problemi legati a questioni stilistiche e attributive. Molte attribuzioni, sia delle croci dipinte che dei gruppi scultorei, non sono condivise unanimemente dalla critica come pure in alcuni casi, fra i quali il più interessante rimane quello del convenzionalmente detto Maestro della croce di Piazza Armerina, si è dibattuto sulla formazione culturale degli artisti e circa la loro provenienza estera o l'origine locale. Una parte della ricerca ha cercato di chiarire gli aspetti prettamente liturgico ' cultuali, innanzitutto con l'analisi delle fonti liturgiche e patristiche dei testi fondativi e prescrittivi sull'uso della croce nella liturgia romana e sulla sua presenza stazionale e monumentale all'interno degli edifici di culto. Le fonti latine sono riportate nella lingua originale, mentre quelle greche o in altra lingua antica in traduzione; inoltre alcune volte, quando si sono rilevati problemi di interpretazione, si è optato per la traduzione in nota in lingua corrente. Si sono prese in esame sia le fonti generali della Patrologia Latina sia le fonti liturgiche locali, quali il cosiddetto Messale Gallicano (fine XII-inizi XIII sec.) conservato nell'Archivio Storico Diocesano di Palermo, i testi liturgici della Biblioteca del Seminario di Messina (XII sec.) e quelli più recenti della Biblioteca Centrale della Regione Sicilia e dell'Abbazia benedettina di San Martino delle Scale, costatando che dal punto di vista normativo non esistevano in Sicilia prescrizioni peculiari rispetto al resto dell'Occidente cristiano. L'ordine dei capitoli non deve essere inteso allora soltanto come successione cronologica dei fatti e delle opere presentate, ma a questa si associano la diversificazione tipologica e funzionale di tutta la consistenza delle opere rimaste e le digressioni diacroniche di carattere generale sui diversi usi della croce nel tempo. Grande spazio è stato dato anche ai temi inerenti all'iconografia e all'iconologia delle immagini, poiché ritengo che la sola lettura formale e stilistica restituisca soltanto in senso parziale la contestualizzazione di questa particolare categoria di arredo liturgico. La lettura dei diversi sistemi di immagini e la ricerca del loro linguaggio semantico non si sono fermati alla semplicistica lectio faciliori, ma si è cercato di risalire alle fonti primigenie che sottendono a ciascuno di essi, le quali probabilmente con l'andare del tempo non furono percepite più come tali, ma rimangono pur sempre testimonianze di una tradizione figurativa ininterrotta. Una parte rilevante della ricerca è stata dedicata all'indagine documentaria, mettendo insieme e rileggendo univocamente la grande mole di documenti che da Gioacchino Di Marzo (seconda metà del XIX secolo) in poi sono venuti alla luce, non avendo tralasciato quando possibile l'integrazione con nuovi dati ricavati da documenti inediti o poco conosciuti. Il capitolo I è incentrato sull'uso della croce in Sicilia in epoca normanno-sveva, quando non è documentata nessuna presenza di croci monumentali ma soltanto di quelle piccole e preziose che venivano impiegate al contempo nelle processioni e quindi collocate presso l'altare; si è analizzata l'origine della croce posta nel contesto dell'altare e il suo legame con il sacrificio eucaristico e lo sviluppo della funzione fino alla cosiddetta croce stazionale, quella cioè che precedeva nei rituali liturgici e paraliturgici il papa e anche i vescovi che erano stati autorizzati; si sono passate in rassegna le superstiti opere prodotte dalle officine del Palazzo Reale di Palermo, delle quali nessuna è oggi conservata in Sicilia, e quindi le altre tipologie che vanno dalle croci in lamine metalliche a quelle a smalto di produzione limosina. Il capitolo II affronta il tema della croce monumentale posta al centro della chiesa, ne analizza l'origine e la diffusione e quindi si sofferma sui pochi esemplari due e trecenteschi che sono scampati al degrado del tempo, da quelle di importazione centro italiana a quelle riconosciute come produzione autoctona. Inoltre è presentato l'unico esemplare di crocifisso ligneo duecentesco a essere giunto fino a noi, quello del monastero di Rifesi, oggi nella chiesa madre di Burgio (Agrigento). Nel capitolo III si sviluppa il tema del crocifisso gotico a rilievo, diffusosi nel corso del XIV secolo e che viene considerato come la nascita del crocifisso devozionale, davanti al quale riversare propositi e speranze del fedele pentito dei propri peccati. Gli esemplari più famosi in Sicilia, due del tipo 'doloroso', a Palermo e a Trapani, e uno del tipo 'cortese', a Monreale, saranno oggetto di numerosissime repliche, che addirittura nel caso del devotissimo crocifisso palermitano arriveranno fino agli inizi del XX secolo. Il Capitolo IV tratta della ripresa nel Quattrocento della produzione di croci dipinte e della sua caratterizzazione distintiva più originale nelle croci opistografe, che presentano il Crocifisso da un lato e il Risorto dall'altro. Qui si è cercato di dare delle risposte, che ovviamente rispecchiano il punto di vista dello scrivente, sui molti aspetti ancora irrisolti circa le attribuzioni di alcune opere o la loro connotazione culturale, cercando di argomentarle sulla base di dati certi. Infine il V e ultimo capitolo è dedicato alle diverse alternative alla croce dipinta, che vanno da soluzioni semplici, come il crocifisso scolpito o la croce ibrida, con alcune parti dipinte e altre a rilievo, a quelle più complesse che prevedono l'uso di croci o crocifissi affiancati dalle immagini dei due dolenti, che hanno il loro apice nella grande macchina lignea di Collesano, datata 1555. La seconda parte del testo è dedicata alla classificazione delle opere esistenti, partendo dal buon repertorio di croci dipinte e crocifissi pubblicato nel 1992, integrandole con le opere allora non inserite, soprattutto della Sicilia Orientale, e aggiungendo le opere appartenenti alle altre tipologie analizzate. I risultati di tale investigazione sono confluiti in un catalogo ragionato dove di ogni opera si è registrato collocazione, materiali e supporto, misure, provenienza, iconografia, eventuali iscrizioni, datazione, autore. Per quanto riguarda la sezione V. del catalogo, ossia quella che riguarda i crocifissi e i gruppi scultorei del XV e XVI secolo, la classificazione si deve intendere come puramente esemplificativa e assolutamente non esaustiva, perchè, in mancanza di una catalogazione preliminare, troppo numerose sono le opere e troppo vasto il territorio per poter ipotizzare una ricognizione a tappeto.
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Leporesi, Eleonora <1995&gt. « Le pitture della Sala del Giudizio nel Palazzo Nero di Coredo ». Master's Degree Thesis, Università Ca' Foscari Venezia, 2020. http://hdl.handle.net/10579/16891.

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Résumé :
Lo scopo dell'elaborato è presentare un quadro completo e ordinato degli studi effettuati su questo ciclo pittorico del Quattrocento, con particolare attenzione riguardo al fenomeno storico-artistico delle stanze dipinte a tema profano e allo stile delle pitture nel panorama del Trentino Alto Adige medievale. Viene anche approfondito l'aspetto riguardante la fonte letteraria che ha ispirato tale ciclo pittorico.
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MASSARA, DANIELA. « L¿EDILIZIA ABITATIVA DI MILANO IN ETÀ ROMANA ». Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano, 2019. http://hdl.handle.net/2434/616907.

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Résumé :
The thesis research moves from the interest for the reconstruction of the historical image of Mediolanum through the analysis of the residential structures and the meaning of precise building and ornamental choices testified in them, beginning from the I century B.C. up to the IV century A.D. The thesis is divided in two parts. In the first section, constituted by the introduction and by three chapters, they are faced the history of the studies on the residential house building in Cisalpina, the topography of Mediolanum, the principal theme on the housing districts and a brief paragraph on the techniques. In the second part the catalog of the floors and of the domus are displayed. The topographical analysis of the city shows what premised essential to be able to fully understand the dynamics of the transformations of the insulae and of the domus in them existing; the examination of the archaeological rests is integrated with how much brought from the ancient sources and with the data emerged from the excavations and from the most recent studies on single monuments or on themes of more general character. A knowledge decidedly deepened of the archaeological reality in Milan and a critical use of the bibliographical sources and, above all, archive files of housing buildings are placed at the base of the search. The cards of the catalog of the domus, in fact, are based both on the bibliography and on the reports of excavations; the bibliography in few cases is related to the scientific publication of the archaeological excavations, while for the greatest part of the recoveries it is limited to few hints or news on them. This is due partly to the fact that, for many contexts, the consistence of the finds concerns the floor coverings and/or single building structures. The documentation of file examined is not homogeneous: for the most recent excavations it is filed at the excavation archive of the Italian Antiquity Authority (Soprintendenza) and it can furnish the reports of excavation, the graphic and photographic material, rarely the preliminary presentation of the material finds. For the investigations conducted before the years '80 of the last century, the documents are preserved instead at the topographical section of the Soprintendenza, together with papers of office and cadastral; in the most fortunate cases the diaries of excavation have been found correlated by sketches of the plants and the recoveries, together with photos of these last in black and white; more easily, however, it deals with short notes of the assistants of excavation and reliefs of the architects of the Municipality, normally without explanations and/or characterizations. It needs to underline as, especially for the contexts without any publication, has been faced the studying from zero of the entire dig documentation, departing from the reading of the reports, therefore of the cards of stratigraphic units, comparing then the information contained with photos and reliefs. The cards are been filled up with detail of elements, keeping in mind of everything how much has been possible to find and to verify, crossing the data emerged from the different domus so that to be able to furnish a comparison of the interpretative analysis from time to time suggested. In the chapter on the housing districts they are examined in their whole the housing contexts introduced in the catalog, distinguishing them among urban and suburban, according to a diachronic sequence, so that to put in relief similarities and differences in the organization of the spaces and in the type of decoration. Although it has not been archaeologically investigated till now a whole entire roman house, the final documentation represents ahead a meaningful footstep in the understanding of the house building in roman Milan. Among the environments more frequently observed, besides the courts endowed with elements of water supply, they are cubicula and triclinia. These last ones are examined apart, among the propria loca: cubicula and dining rooms result often combined, according to various solutions, not adhering to a common standard, inside the house arrangement; their decoration stands out for refinement and luxury, from the moment that since the I century B.C. there are floors layout in opus sectile, besides in cement and mosaic. It highlights the rarity of the figurative scenes:, only two examples in fact have been found dated to the I century B.C.-I century A.D. and three between III and IV century A.D. (one of which from the imperial palace), to forehead of twenty-six floors in opus sectile. Building and decorative fervor characterizes the houses of the inhabitants of Mediolanum since the beginnings of its Romanization, without Celtic traditions are abandoned entirely, for example in the employment of walls in perishable material, well attested for the whole I century A.D. and richly according to the fashion of the centre italic paintings. Constructive initiative and aesthetic seeking are comparable to that of other important Roman centers, as for instance. in Cisalpina, that of Aquileia.
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De, Zordi Elena <1997&gt. « Da Bisanzio alla Svezia via Novgorod. Le pitture su legno della perduta chiesa di Sundre e le altre testimonianze dell'isola di Gotland (XII secolo) ». Master's Degree Thesis, Università Ca' Foscari Venezia, 2022. http://hdl.handle.net/10579/21148.

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Il presente elaborato verte sull'analisi dei frammenti lignei sopravvissuti di quello che doveva essere un ciclo monumentale di carattere russo-bizantino all'interno della scomparsa stavkirke di Sundre, sull'isola di Gotland (Svezia). Verranno analizzati i legami di questi lacerti pittorici con testimonianze analoghe emerse sull'isola, quelle di Eke e Dalhem, per poi tentare una ricostruzione complessiva del probabile aspetto di una stavkirke di Gotland nel XII secolo. In seguito alla contestualizzazione dei frammenti nel più vasto campo delle espressioni artistiche "bizantineggianti" in Scandinavia e all’analisi del fenomeno dell'architettura ecclesiastica lignea nel Medioevo europeo e russo, i lacerti di Sundre verranno messi a confronto con una pittura murale della seconda metà dell'XI secolo ubicata nella cattedrale di santa Sofia a Velikij Novgorod. Con questa importante città della Russia settentrionale i mercanti di Gotland avevano intessuto importanti legami commerciali e culturali, che verranno esplicitati per chiarire i percorsi umani attraverso i quali i modelli tecnico-artistici diffusi a Novgorod siano giunti sull'isola svedese. Infine, verranno considerati due gruppi di tavole incise provenienti da due fattorie islandesi, quelle di Bjarnastaðahlíð e Flatatunga, presentanti immagini di santi e di un Giudizio Universale di matrice orientale, al fine di stabilire l’esistenza o meno di una filiazione a partire dagli esempi di Gotland.
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CANDIANI, STEFANO. « IL MAESTRO DEL 'PANTHEON' E LA SUA BOTTEGA A MILANO NELLA CULTURA FIGURATIVA LOMBARDA DELLA PRIMA META' DEL XIV SECOLO ». Doctoral thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2019. http://hdl.handle.net/10280/119345.

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La tesi è articolata in quattro capitoli. Nel primo si è ripercorso lo status questionis e la fortuna critica del Maestro del "Pantheon" e della sua bottega: tale artista, infatti, è noto agli studi già da un secolo. Si sono pertanto enumerati i diversi interventi degli studiosi, soffermandosi sui principali, esponendoli criticarmene e provvedendo a sfrondare le ipotesi oggigiorno meno praticabili. Nel secondo capitolo si è data voce ad un’analisi del codice Lat. 4895 (Parigi, Bibliothèque nationale de France), mostrando le specificità sia del miniatore bolognese, attivo nei primi fogli, sia del Maestro del "Pantheon", attivo nella restante parte delle carte. Nel terzo capitolo si sono analizzati i codici attribuibili alla bottega del Maestro del "Pantheon", collocati cronologicamente nel quarto decennio del XIV secolo, nonché sono stati presi in considerazione i volumi commissionati da Bruzio Visconti, il quale fu prolifico mecenate di manoscritti miniati tra quarto e quinto decennio del XIV secolo. Nel quarto capitolo, infine, si sono voluti mostrare i collegamenti fra il Maestro del "Pantheon" e la cultura figurativa lombarda della prima metà del secolo; facendo anche emergere la figura di Giovami Visconti, arcivescovo di Milano, quale committente e possessore di codici.
The thesis is divided into four chapters. The first traces the status questionis and the critical fortune of the Master of the "Pantheon" and of his workshop: this artist, in fact, has been known for a century. Therefore, the various interventions of the scholars have been enumerated, focusing on the main ones, exposing them, criticize them and removing the hypotheses that are less probable today. In the second chapter, was provided an analysis of the ms. Lat. 4895 (Paris, Bibliothèque nationale de France), showing the specific characteristics firstly of the Bolognese illuminator, active in the first leaves, and secondly of the Master of the "Pantheon", active in the remaining leaves. The third chapter analyzes the codes attributable to the workshop of the Master of the "Pantheon", placed chronologically in the fourth decade of the fourteenth century, as well as the volumes commissioned by Bruzio Visconti, who was a prolific patron of illuminated manuscripts between the fourth and fifth decade of the fourteenth century. Finally, in the fourth chapter, is showed the connections between the Master of the "Pantheon" and the Lombard figurative culture of the first half of the century; also bringing out the figure of Giovami Visconti, archbishop of Milan, as patron and owner of manuscripts.
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Squillantini, Elena. « La decorazione dei refettori in Toscana e Umbria tra XIII e XIV secolo ». Doctoral thesis, 2019. http://hdl.handle.net/2158/1150566.

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La ricerca si è occupata dello studio dell’architettura e della decorazione pittorica dei refettori, situati in Toscana e in Umbria e databili tra XIII e XIV secolo. Prima di analizzare queste sale da mensa la trattazione si apre con lo studio degli antichi modelli dei refettori, individuati nei "triclinia" di epoca tardo antica. Poi sono indagati gli aspetti che caratterizzavano le grandi sale da mensa. Dopo aver illustrato i tratti distintivi di questi ambienti è stata esaminata la storia della decorazione delle sale da mensa a partire dai cicli pittorici di epoca carolingia; all’interno di questa ampia raccolta è stata presentata una panoramica sulle sale da mensa benedettine, francescane e domenicane. Una volta conclusa la prima parte della tesi, la seconda è costituita da un catalogo formato da nove refettori situati in Toscana ed in Umbria. Per ogni caso sono state esaminate le vicende storiche del complesso religioso e gli aspetti distintivi del refettorio.
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Vizzini, Marta. « Per un riesame della pittura viterbese. Pittura e contesti nel Patrimonium Sancti Petri in Tuscia tra XIII e XIV secolo ». Doctoral thesis, 2023. https://hdl.handle.net/2158/1299343.

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Résumé :
La tesi discussa dal titolo “Per un riesame della pittura viterbese. Pittura e contesti nel Patrimonium Sancti Petri in Tuscia fra XIII e XIV secolo” non è una mappatura capillare delle testimonianze pittoriche esistenti sul territorio individuato: essa ha cercato piuttosto di affrontare con ottica nuova alcuni monumenti, testimonianze e cicli pittorici ricchi di problematiche, finora rimasti pressoché privi di approfondimenti critici. L’introduzione presenta l’entità territoriale entro cui si muove la ricerca, il Patrimonium Sancti Petri in Tuscia, provincia dello Stato Pontificio gravitante intorno alla città di Viterbo, definisce l’ambito cronologico di azione, tra gli anni settanta del Duecento e il settimo decennio del Trecento, e fornisce lo stato dell’arte degli studi sulla pittura viterbese e del Patrimonio fra XIII e XIV secolo, argomento frequentato molto raramente dalla bibliografia più impegnata. La tesi si suddivide in sei capitoli. Una parte consistente della ricerca è incentrata su tre casi studio particolarmente significativi che sono stati individuati nelle chiese di Santa Maria Nuova a Viterbo, San Flaviano a Montefiascone e Santa Maria Maggiore a Tuscania (rispettivamente ai capitoli I, III e IV), siti dei quali è stata tentata una contestualizzazione dei cicli pittorici e delle strutture architettoniche anche in merito alle relative funzioni. Per quanto riguarda la chiesa di Santa Maria Nuova, ci si sofferma in modo approfondito sull’articolazione della stessa e dei suoi altari, e sui testi pittorici che li ornano, con affondi monografici sul Maestro delle croci Cortona-Loeser e sulla figura, ricostruita per via indiziaria, di Pietro da Viterbo. Della chiesa doppia di San Flaviano a Montefiascone si propongono una scansione temporale dei differenti interventi architettonici in epoca medioevale. In particolare, si propone una nuova lettura dell’assetto e della funzione delle due chiese sovrapposte tra la seconda metà del XIII e la prima del XIV secolo. Viene indagata, poi, analiticamente la decorazione a fresco di inizio Trecento della chiesa inferiore. Di Santa Maria Maggiore a Tuscania, vengono analizzate le campagne pittoriche riferibili al XIII e al XIV secolo, tra le quali emerge il ciclo trecentesco di cui è parte il Giudizio Universale, copia imperfetta di quello di Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova. Dallo studio della decorazione trecentesca emerge la fisionomia di una bottega attiva in tutta la cittadina laziale per l'intera prima metà del Trecento e che si ritrova sia nella chiesa di San Pietro, sia in un’opera di formidabile interesse quale è il Lignum Vitae nella chiesa di San Silvestro. Alla trattazione dei tre casi studio citati, si accostano degli affondi su altri temi trasversali e paralleli (capitoli II e V). Nel capitolo II si rilegge la vicenda della realtà critica di “Gregorio e Donato d’Arezzo”, che interessa vari contesti oggetto della ricerca, con una proposta di identificazione per ciascuno dei due pittori e l’individuazione delle rispettive fisionomie e geografie artistiche. Si fornisce, inoltre, un catalogo delle opere dei due pittori. Nel capitolo V si prende ad esame un tema poco spesso frequentato dalla letteratura “viterbese”: le origini culturali di Matteo Giovannetti, la sua prima attività avignonese e le ricadute della sua opera sulla produzione figurativa del territorio altolaziale. La tesi si conclude con l’analisi di una serie di casi pittorici sparsi nell'area geografica presa in considerazione, che rivela una fitta rete collaterale di espressioni pittoriche ugualmente significative, al fine di mettere in evidenza le specificità della pittura della regione viterbese in epoca medievale come polo tra Roma, la Toscana, l’Umbria settentrionale e infine la Provenza e Avignone.
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RICCARDI, LORENZO. « L’Epiro tra Bisanzio e l’Occidente : ideologia e committenza artistica nel primo secolo del Despotato (1204-1318) ». Doctoral thesis, 2016. http://hdl.handle.net/11573/1418110.

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Résumé :
La tesi, dedicata alle committenze dei Comneno Duca in Epiro tra il 1204 e il 1318, è articolata in sette capitoli. Nel primo è tracciato il quadro storico-politico, entro gli estremi cronologici della dinastia dei Comneno Duca: dalla costituzione dello “stato” di Michele I, a ridosso del 1204, alla morte di Tommaso nel 1318. Il “secolo d’oro” (I.1) è stato suddiviso in tre segmenti cronologici, che corrispondono a) all’ascesa e alla disfatta di Teodoro e dei suoi immediati eredi (I.1.2), nel loro progetto di occupare Salonicco per riconquistare, forti del titolo imperiale, la capitale Costantinopoli (1204ca.-1246); b) al “regno” in Epiro di Michele II, cui viene conferito il titolo di «despota» e che fonda, di fatto, quello che viene definito «Despotato»; c) agli anni di potere di Niceforo e del figlio Tommaso, quest’ultimo sostenuto dalla co-reggenza della madre Anna. I successivi due paragrafi tracciano il quadro culturale e artistico, sia del periodo precedente a quello in esame per comprendere quale fosse la tipologia dei committenti in queste regioni periferiche dell’impero bizantino tra IX e XII secolo (I.1.3); sia del Duecento, prestando attenzione ad alcuni personaggi importanti, impegnati, oltre che sul versante politico, anche su quello artistico (Giovanni Bardanes, Demetrio Chomatenos), o a singoli centri (Hagios Nikolaos a Mesopotamon, Hagios Nikolaos a Kremastos, Bonitza), in cui è attestata – da fonti testuali o da sottoscrizioni librarie – la produzione di manoscritti (I.1.4). Il secondo capitolo si apre con una serrata disamina storiografica dei termini «despota» e «De-spotato» (II.1), necessaria a comprendere come venisse concesso tale titolo e che cosa implicasse nel XIII secolo. È inoltre occasione per ripercorrere i principali studi sul tema e presentare le figure dei Comneno Duca (da Michele I a Tommaso), cui è espressamente dedicato il paragrafo successivo (II.2). Dopo una breve premessa sulla tipologia di fonti utilizzate (numismatica, sfragistica, diplomatica, epigrafia), sono illustrate in modo analitico tutte quelle attestazioni nelle quali ogni “regnante” ha inteso esprimere in modo consapevole e con una certa chiarezza il proprio ruolo nelle vicende del tempo. Attraverso queste scelte di autorappresentazione emergono chiaramente le ambizioni politiche e ideologiche dei Comneno Duca, anche tenendo conto dell’assenza di fonti testuali “interne”, ossia redatte da intellettuali organici alla corte di Arta. Il terzo capitolo è dedicato a un contesto cronologicamente e geograficamente circoscritto (l’Etoloakarnania tra il 1210 e il 1240 circa) attraverso l’approfondita analisi dell’attività di due figure eccezionali: il metropolita Giovanni Apokaukos e Costantino, il fratello di Michele I. Proprio le numerose lettere dell’arcivescovo aiutano a illuminare le vicende molto travagliate che riguardano questa “strana” e irrequieta coppia di rivali. La contesa per la giurisdizione su Naupaktos e l’area circonvicina si trasformò ben presto in un violento scontro: a questo tema, nonché alla presentazione del territorio e dei due “contendenti”, è dedicato il primo paragrafo (III.1). Nel successivo (III.2) sono per la prima volta sistematicamente raccolte e commentate tutte le fonti, gli oggetti e i monumenti che è possibile riconnettere, per varie ragioni, al metropolita Apokaukos: in primis, attraverso uno spoglio della sua corrispondenza allo scopo di ricostruire la sua attività di committente sia sul versante dell’architettura e della decorazione monumentale sia su quello delle arti minori (in particolare i tessuti). Emerge in questo paragrafo anche il suo ruolo di concepteur di programmi iconografici e di autore di epigrammi destinati ad accompagnare oggetti preziosi. Il paragrafo III.3 introduce invece la figura di Costantino attraverso l’esame dell’exonartece del monastero di Varnakova, che egli fece costruire come mausoleo per sé e la sua famiglia: sfortunatamente molto alterato dopo la parziale distruzione del 1826, vengono in nostro soccorso documenti scritti seriori ed epigrafi metriche che dovevano essere apposte sulle due tombe. Grazie ad Apokaukos è poi possibile, nel paragrafo III.4, dare conto di altre iniziative “artistiche” di Costantino: in particolare la costruzione a Naupaktos di un soufas, ossia di una sala di ricevimento, che almeno nel nome richiama modelli dell’Anatolia selgiuchide. Tale impresa è stata letta alla luce del contesto in cui viene ricordata della citazione (una lettera di Apokaukos indirizzata al collega Chomatenos) e specificandone le particolarità sia architettoniche che simbolico-funzionali. L’ultimo paragrafo (III.5) verte su un altro monumento e in particolare sulla sua decorazione pittorica, patrocinata (come apprendiamo dall’iscrizione) da un certo Alessio Comneno Duca intorno al 1230. Si tratta, nonostante le precarie condizioni conservative, di un caso di studio molto interessante sia per gli elementi prosopografici (può Alessio essere identificabile con l’omonimo sepolto a Varnakova ed essere, quindi, un parente di Costantino?) sia per alcune soluzioni iconografiche, specie nel catino absidale. Il quarto capitolo è dedicato alla capitale del Despotato, Arta. Il nuovo ruolo di cui la città venne investita, soprattutto a partire dal 1230, comportò estese trasformazioni che le conferirono un’inedita facies monumentale, specie tenendo conto che nei secoli precedenti essa doveva apparire più dimessa, nonostante vi fossero – come si evince dal primo paragrafo (IV.1) – già diversi monumenti, alcuni dei quali ancora oggi esistenti. Il successivo paragrafo (IV.2) raccoglie le fonti storiche e i dati archeologici sulla città al fine di ricostruirne un più ampio quadro sociale, politico e topografico nel XIII secolo. Ciò permette di passare in rassegna (IV.3), evidenziando gli aspetti più interessanti ai fini della nostra ricerca, i monumenti che costellarono il centro urbano e l’area circonvicina, ma in un modo diacronico, ossia privilegiando una trattazione cronologica progressiva piuttosto che l’analisi sistematica di ogni chiesa o monastero. Questo perché ciascun monumento ha più fasi cronologiche, che spesso corrispondono a committenti differenti e quindi a diversi periodi storici. Un’analisi di Arta decennio per decennio può offrire quindi un quadro più chiaro del processo di monumentalizzazione iniziato da Michele II e proseguito da Niceforo, non senza il contributo delle rispettive mogli, Teodora e Anna. L’ultimo paragrafo (IV.4) getta uno sguardo d’insieme sulla città, seguendo un taglio particolare, quello topografico, per evidenziare – attraverso i monumenti principali – lo sviluppo di quella che Eastmond ha definito, a proposito di Trebisonda, «the ritual geography of the city». Nel Capitolo V, sempre privilegiando una lettura diacronica, si analizzano i due monumenti che più di tutti esprimono la ktetoreia dei despoti Michele II e Niceforo: i monasteri della Pantanassa presso Philippiada e della Parigoritissa di Arta. Essi presentano una storia costruttiva comune, segnata da due fasi, la prima legata a Michele II (1242-1267/1268) e la seconda a Niceforo I (1268-1296/1298). È proprio in questi due edifici che si manifesta con chiarezza non solo il “passaggio di consegne” tra una generazione e l’altra, ma anche la complessità della produzione artistica in Epiro. Ribaltando la prospettiva storiografica corrente, si prende in considerazione dapprima la Pantanassa e poi la Parigoritissa, questo perché, come emerge dal paragrafo V.1.1, è il monastero di Philippiada a vantare la precedenza cronologica su quello di Arta, che invece, nella sua prima fase, molto probabilmente non venne mai terminato (V.1.2). Niceforo, dopo aver ereditato il potere paterno, intervenne sui due edifici in modo differente. Nel caso della Pantanassa (V.2.1), provvide a costruire un complesso peristoon che inglobava il nucleo originario della katholikon e che si contraddistingueva per alcune soluzioni architettoniche estranee al contesto epirota, quali le volte a crociera costolonate e i portali strombati. La riqualificazione del monastero fondato dal padre Michele si tramutava, così, in un’“occidentalizzazione” del suo aspetto esterno. Nel caso della Parigoritissa (V.2.2) Niceforo optò per una ricostruzione integrale, secondo un progetto architettonico davvero straordinario e arricchito da alcuni elementi (come le gallerie e il baldacchino “aperto” sul prospetto occidentale) che richiamano soluzioni “imperiali” costantinopolitane. Per decorare il nuovo edificio reclutò mosaicisti da Oriente (Costantinopoli? Salonicco?) e scultori da Occidente: questi ultimi realizzarono opere molto singolari, che tuttavia rispondono – come vedremo – a un programma iconografico unitario. Nel Capitolo VI è tratteggiato il fenomeno della committenza aristocratica in Epiro, finora ri-masto decisamente ai margini degli studi. Si inizia con una disamina delle fonti epigrafiche attraverso cui è possibile conoscere il nome di questi altrimenti ignoti fondatori, di cui si precisano – per quanto possibile – i dati prosopografici. Nel primo paragrafo si cerca di tracciare un filo rosso tra le loro committenze, sia dal punto di vista artistico (stesse maestranze, stessi materiali) sia, soprattutto, da quello politico-topografico: una prospettiva di lettura, questa, che ci consente di ipotizzare una sorta di progetto “a tavolino” nella distribuzione geografica di tali fondazioni (VI.1). All’unico personaggio cui è possibile ascrivere più di un’opera, ossia Michele Zorianos, è invece dedicato il paragrafo successivo (VI.2). L’esame delle fonti epigrafiche e testuali si associa allo studio delle opere a lui sicuramente riferibili, il codice Barocci 29 della Bodleian Library di Oxford, l’anello d’oro del Metropolitan Museum di New York e, soprattutto, il complesso di chiese a Mokista in Etolia, per il quale venne coinvolto anche il monaco Cosma Andritzopoulos. Il VII e ultimo Capitolo raccoglie le conclusioni della ricerca, da un lato soffermandosi sui luoghi e i protagonisti delle imprese artistiche (in particolare sugli scultori occidentali della Pantanassa e della Parigoritissa, VII.1.1, e sui mosaicisti attivi in quest’ultimo cantiere, VII.1.2), dall’altro sulle componenti ideologiche e politiche sottese alle opere esaminate nei capitoli precedenti (VII.2).
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Brunetti, Umberto. « LO SPLENDIDO VIOLINO VERDE DI A. M. RIPELLINO Saggio di commento ». Doctoral thesis, 2018. http://hdl.handle.net/11393/251617.

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Il lavoro di tesi consiste nel primo commento scientifico a 44 liriche scelte dello Splendido violino verde, la quinta raccolta poetica di Angelo Maria Ripellino (1923-1978), pubblicata nel 1976. L’apparato esegetico di ciascuna poesia è suddiviso in un cappello introduttivo, in cui, accanto all’analisi tematica, sono sciolti i riferimenti eruditi, storici e biografici ed è fornito il prospetto metrico, e nelle note esplicative in calce al testo, riservate all’analisi puntale degli aspetti retorici e linguistici e alla creazione di un tessuto di rimandi intertestuali ed extratestuali. Di particolare interesse ai fini del lavoro è stata l’analisi, mai effettuata prima, della agende manoscritte dell’autore, conservate nel fondo ripelliniano dell’Archivio del Novecento dell’Università La Sapienza di Roma. Queste hanno permesso di indirizzare lo studio sul versante della critica genetica, poiché contengono appunti di liriche e stralci di versi che costituiscono gli unici avantesti superstiti della raccolta. La loro consultazione ha, inoltre, svelato in molti casi l’origine e la natura di alcuni riferimenti culti celati nelle poesie, confermando il profondo legame tra la scrittura poetica e quella saggistica e critica dell’autore. Ampio spazio è stato quindi dedicato all’intertestualità e alla ricerca delle numerose e variegate fonti, che spaziano dalla letteratura italiana medievale, moderna e contemporanea alle letterature straniere. Spicca inoltre la presenza di fonti relative ad altre arti (teatro, cinema, pittura e musica) che rendono particolarmente densa la scrittura lirica ripelliniana. Nel saggio introduttivo si è tentato di raccogliere i risultati dell’analisi puntuale dei testi, facendo emergere le costanti tematiche e stilistiche, con particolare riguardo per la facies linguistica della raccolta, caratterizzata da molteplici prestiti lessicali dalla tradizione letteraria, fusi insieme a lessico tecnico, termini quotidiani e numerosi vocaboli stranieri col raggiungimento di uno stridente espressionismo.
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