Thèses sur le sujet « METODOLOGIE DI BIOMONITORAGGIO DELL'ALTERAZIONE AMBIENTALE »

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1

Falomo, Jari. « Sviluppo di metodiche innovative nel campo del biomonitoraggio ambientale ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3167.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
Il lavoro svolto per il conseguimento del Dottorato di Ricerca mira allo sviluppo di metodiche originali per la determinazione di microinquinanti organici nell’ambiente che possano essere applicate in piani di monitoraggio ambientale su larga scala. Sono state impiegate metodiche analitiche innovative e processi di accumulo e bioaccumulo per mappare la distribuzione ambientale di contaminanti chimici pericolosi ed identificare aree esposte a stress ambientali su cui focalizzare interventi di gestione. Le attività sono state svolte in stretta collaborazione con il Dipartimento Provinciale di Trieste dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del Friuli Venezia Giulia (ARPA FVG). Tale circostanza ha orientato il lavoro verso lo sviluppo di metodologie caratterizzate da economia operativa, sia in termini di tempi d’esecuzione, che di costi e semplicità d’uso. Questo perché i metodi di riferimento richiedono spesso procedure lunghe e/o costose, difficili da affrontare da parte di organi di controllo su cui gravano carichi operativi routinari elevati. In dettaglio il lavoro è stato articolato in due filoni principali distinti. Il primo studio riguarda lo sviluppo di un metodo di analisi di composti organostannici in ambiente marino. Tali sostanze (in particolare il tributilstagno) sono state impiegate per decenni come additivi antivegetativi nelle pitture navali e ad esse è stato attribuito un effetto come modulatori endocrini (endocrine disruptors) su organismi marini. Tra gli effetti più noti di queste sostanze c’è il fenomeno dell’imposex nei gasteropodi marini, ossia l’imposizione di caratteri maschili su individui femmine. Gli attuali metodi di riferimento sono difficoltosi soprattutto in termini di preparazione dei campioni, impedendo così la pianificazione di monitoraggi su larga scala per valutare la presenza ed il bioaccumulo di queste sostanze nell’ecosistema marino. Tali informazioni sono fondamentali per lo sviluppo di modelli interpretativi che mettano in relazione la presenza di questi stressori ambientali con alterazioni fisiologiche negli organismi che ne vengono a contatto. Sono state messe a punto ed ottimizzate delle metodiche automatizzabili ed accurate per la determinazione del tributilstagno e dei suoi prodotti di degradazione in acque, sedimenti e biota, sfruttando la microestrazione in fase solida (SPME) accoppiata alla gascromatografia con rivelazione di massa. Le metodiche sono state validate attraverso l’analisi di materiali di riferimento certificati e la partecipazione, con risultati molto positivi, a circuiti di calibrazione interlaboratorio di livello internazionale. Il metodo applicato alle matrici biologiche è stato testato su ecosistemi della regione Friuli Venezia Giulia, confermando di essere veloce e sensibile e fornendo il territorio di un presidio di controllo efficace anche per questi contaminanti, i cui effetti sull’uomo non sono ancora stati approfonditi. Il secondo studio è stato basato sull’identificazione di metodi di screening tramite campionatori passivi per valutare la presenza di Idrocarburi Policiclici Aromatici aerodispersi nell’ambiente terrestre. Tali inquinanti hanno un’elevata rilevanza ambientale in quanto sono composti praticamente ubiquitari, alcuni dei quali, tra cui il benzo[a]pirene, sono ritenuti carcinogenici o mutagenici. I campionatori passivi, dal costo contenuto e di facile preparazione, consentono di ottenere informazioni sulla presenza di IPA a seguito dell’esposizione per qualche settimana in aria ambiente, presentando il vantaggio di non necessitare né di pompe di aspirazione né di allacciamento alla corrente elettrica. Come bioaccumulatore è stato utilizzato l’Hypnum cupressiforme, specie di muschio già ampiamente utilizzata come accumulatore di metalli grazie alla sua ampia diffusione sul territorio italiano e che si è dimostrato efficiente anche nei confronti degli IPA. Parallelamente è stato sviluppato in maniera innovativa l’impiego di una matrice sintetica costituita da fibre di polietilentereftalato (dacron). La capacità di accumulo delle due matrici è stata testata in alcune sessioni di campionamento, nelle quali campioni di muschi e di dacron sono stati esposti contemporaneamente in due siti della città di Trieste. È stata determinata la ripetibilità dei campionatori passivi ed i dati sono stati confrontati con le concentrazioni di PTS (particolato totale sospeso) ottenute dai campionatori attivi dell’ARPA FVG. Entrambe le matrici si sono rivelate adatte per il monitoraggio di IPA aerodispersi. I Quadrelli (nome dato ai campionatori costituiti da dacron) sono in grado di accumulare una quantità maggiore di IPA in rapporto al loro peso mentre il muschio presenta una migliore capacità di accumulo in rapporto alla superficie esposta. Il muschio, inoltre, ha evidenziato una migliore ripetibilità dei dati ed una migliore correlazione con i dati di IPA ottenuti dall’analisi del particolato totale sospeso. Muschio e Quadrelli sono stati utilizzati per impostare una prima mappatura della provincia di Trieste e della sua zona industriale, fornendo risultati confrontabili ed evidenziando come le maggiori criticità siano legate alle sorgenti antropiche presenti nella parte meridionale della provincia. Dall’esperienza maturata nel corso del lavoro è emersa la necessità di utilizzare, nelle campagne di monitoraggio, griglie di campionamento particolarmente fitte per ottenere il maggior numero di dati utili per l’elaborazione di mappe di distribuzione dettagliate. Questo è possibile grazie al basso costo dei campionatori testati e al fatto che non necessitano né di allacciamenti elettrici né di manutenzione durante la fase di esposizione. Le griglie di monitoraggio basate su campionatori passivi sono un ottimo strumento per integrare le reti di monitoraggio istituzionale, basate su sistemi normati di campionamento attivo (come ad esempio il PM10), estendendo a costi contenuti la base di dati su cui imperniare misure di gestione ambientale.
XXI Ciclo
1976
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2

Francescato, Cristiano. « Paesaggi vegetali, biodiversità cenotica e funzionalità fluviale. Il caso del fiume Tagliamento ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8598.

Texte intégral
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3

Tonzar, Elena. « Distribuzione delle cisti di dinoflagellate nel golfo di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3579.

Texte intégral
Résumé :
2008/2009
Obiettivo della ricerca è stato contribuire all’interpretazione della correlazione tra la distribuzione delle popolazioni di cisti di dinoflagellate nel Golfo di Trieste e i fattori abiotici e biotici. La ricerca è stata inizialmente condotta in modo tale da approfondire e perfezionare alcuni aspetti metodologici, cercando così di superare le criticità legate allo studio di questi organismi. Ciò ha condotto alla progettazione della sperimentazione che è stata articolata anche con la realizzazione di una chiave di determinazione originale e alla strutturazione dell’analisi dei sedimenti con delle specifiche tecniche strumentali di laboratorio. I campioni sono stati raccolti durante le numerose immersioni, mediante carotaggio con metodo diretto. Sono stati così indagati 160 campioni di sedimento che, dopo una accurata preparazione di laboratorio, sono stati dapprima osservati al microscopio a ottica invertita, per la determinazione sistematica e poi analizzati con il difrattometro laser, per l’analisi della composizione granulometrica. È stata ipotizzata l’esistenza di un apporto meridionale di cisti attraverso le correnti di fondo e successiva e progressiva (da Sud-Est a Nord-Ovest) sedimentazione nelle zone più riparate del golfo e con caratteristiche granulometriche più fini del sedimento. È stata rilevata una maggiore distribuzione quali-quantitativa di cisti nelle stazioni che hanno caratteristiche sedimentologiche simili, aventi una tessitura caratterizzata da un’elevata componente argillosa. È stata anche evidenziata una diversa distribuzione quali-quantitativa di cisti nei due livelli della carota con una presenza qualiquantitativa maggiore nella frazione 0,0-1,0 centimetri nel mese di dicembre e nella frazione 1,0-2,0 centimetri nel mese di luglio, pertanto è stato valutato che ci sia stata una germinazione, che ha coinvolto il popolamento dopo il mese di luglio.
XX Ciclo
1969
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4

Sustersic, Anna. « Valutazione dell'applicabilità di indicatori di sostenibilità a sistemi produttivi costieri ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4579.

Texte intégral
Résumé :
2009/2010
I concetti di sostenibilità e sviluppo sostenibile, introdotto per la prima volta nel testo del rapporto Brundtland (“Our Common future”, 1987) ha assunto nel tempo una importanza crescente, sino a diventare parte del linguaggio comune. Oggi lo sviluppo sostenibile è una delle priorità chiave dei programmi quadro di ricerca europei -il settimo recita: “crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva”, e molta è stata la ricerca volta a ricercare definizioni operative che permettessero di trasformare in enunciati di principio e concetti teorici in pratiche applicabili. In particolare molta attenzione è stata data alla necessità di monitorare costi ed effetti di diversi sistemi economici e modalità produttive, ed alla possibilità di implementare un’economia basata su impatti contenuti, possibilmente a fronte dell’utilizzo di risorse locali e rinnovabili, nei termini della sostenibilità. Parallelamente è andato formalizzandosi il quadro teorico di riferimento, con la definizione dei principi del “prelievo di risorse ad un tasso inferiore alla capacità di rigenero delle stesse” e di “generazione di scarti ad un tasso inferiori alla capacità del sistema ricevente di assorbirli” (Daly, 1992). Diversi indicatori sono stati progettati per valutare gli impatti e il livello di utilizzo di capitale naturale a scala di singolo individuo, di processo produttivo, di città, nazione e su scala Globale. L’applicazione di tali indicatori permette di individuare i punti critici, in termini di impatto ambientale, nei percorsi di produzione nonché di individuare strategie produttive per ridurre tali impatti. Questi indicatori, pur nelle loro criticità, conferiscono un valore al capitale naturale e danno un peso ai differenti livelli di utilizzo di tale capitale. L’Impronta Ecologica e l’analisi eMergetica sono due esempi di indicatori che, proposti rispettivamente negli anni ’90 e ’80, sono oggi ampiamente utilizzati nella valutazione di sostenibilità di sistemi a differente scala. L’applicazione di tali indicatori a sistemi marini ed in particolare ad attività di tipo estensivo è tuttavia non banale, e richiede alcuni approfondimenti metodologici. In qeust’ottica, il presente lavoro di dottorato si è posto come obiettivi: a) Valutare l’applicabilità degli indicatori di sostenibilità Impronta Ecologica e analisi energetica a sistemi tridimensionali marini, applicandoli al processo produttivo mitilicoltura nel Golfo di Trieste, e fornendo così un contributo alla valutazione di sostenibilità di questo comparto. Tale valutazione è stata fatta applicando le due metodologie secondo la loro formulazione standard (applicazione del metodo rilevato in letteratura) in maniera tale da far emergere da un lato eventuali problematicità metodologiche e dall’altro ottenere un risultato confrontabile con i risultati di studi analoghi condotti su differenti attività di maricoltura. b) Definire nuove metodologie di applicazione della metodologia di analisi eMergetica nella sua applicazione a sistemi tridimensionali marini, e quindi un contributo all’implementazione della metodologia di analisi emergetica c) Fornire per alcune prime zone i dati necessari alla creazione di una “mappa di sostenibilità”, secondo la metodologia implementata, per l’attività di mitilicoltura in differenti zone costiere del Nord Adriatico. La tesi è stata organizzata in cinque capitoli. Nel primo capitolo vengono introdotti i concetti di sostenibilità e sviluppo sostenibile. Nel secondo capitolo viene presentata la filiera della mitilicoltura in generale e la situazione del settore produttivo nel Golfo di Trieste. Il quadro del settore produttivo è stato costruito sulla base di un'approfondita raccolta dati provenienti da campagna in campo e fonti ufficiali. Nel terzo e quarto capitolo vengono descritti gli strumenti utilizzati nella valutazione di sostenibilità : Impronta ecologica ed Analisi eMergetica e l’applicazione di questi, secondo una metodologia definita standard derivata da studi di letteratura, al settore produttivo delle mitilicolture nel Golfo di Trieste. Nel quinto capitolo viene discussa l’implementazione di una nuova metodologia di analisi emergetica la sua prima applicazione alla maricoltura nel Golfo di Trieste e la sua estensione ad ulteriori zone del Nord Adriatico. Tale implementazione è stata messa a punto per adattare la metodologia, tipicamente applicata a sistemi terrestri, alle peculiarità del sistema marino.
XXIII Ciclo
1979
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5

Malisana, Elisa. « Ecologia trofica del Nanoplancton eterotrofo ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4582.

Texte intégral
Résumé :
2009/2010
Il nanoplancton è costituito da organismi eucarioti unicellulari flagellati e non di dimensioni comprese tra 2 e 10 m. Sono in larga parte fotosintetizzanti (Primnesioficee, Prasinoficee, Crisoficee, Criptoficee, Dinoficee e piccole diatomee) (ShaPiro e Guillard, 1986). Alcuni sono eterotrofi (coanoflagellati, crisomonadi autotrofi facoltativi o non pigmentati, euglenoidi non pigmentati, dinoflagellati ed elioflagellati (Fenchel, 1982) e rappresentano i predatori più efficienti del picoplancton. Il nanoplancton eterotrofo (HNAN) costituisce la principale componente nelle reti trofiche marine capace di effettuare un controllo sulla biomassa picoplanctonica e di trasferire una porzione significativa della produzione batterica ai livelli trofici superiori (Fenchel, 1982; Azam et al., 1983; Berninger et al., 1991). Fino ad oggi scarsissime sono state le ricerche sulla frazione nanoplantonica negli ambienti profondi, dove presumibilmente i nanoflagellati giocano un ruolo di grande importanza, paragonabile a quello più volte dimostrato nella zona fotica (Gasol e Vaquè, 1993). Studi recenti hanno messo in evidenza che percentuali considerevoli della produzione superficiale possono raggiungere i sedimenti marini fino a profondità superiori ai 1000m. La sostanza organica sia in forma particolata che disciolta viene utilizzata dai procarioti eterotrofi per produrre nuova biomassa, l’unica prodotta negli ambienti profondi, che costituisce la base della rete trofica abissale. Attraverso la predazione dell’HNAN sui procarioti, tale risorsa viene veicolata ai consumatori dei livelli trofici superiori. Le conoscenze attuali sull’efficienza della predazione in ambienti abissali è quasi nulla e sono quasi sconosciuti i fattori che controllano le abbondanze degli eteronanoflagellati, la loro produzione e la loro efficienza come trasportatori di energia lungo le reti trofiche abissali. Lo scopo della mia ricerca è di quantificare il flusso di carbonio attraverso la comunità microplanctonica mediante la predazione dell’ HNAN sulla frazione picoplanctonica autotrofa ed eterotrofa in superficie e di stimare l’impatto della predazione degli HNAN sul comparto picoplanctonico eterotrofo nel sistema abissale. I campioni da analizzare in questa ricerca sono stati raccolti durante una campagna oceanografica denominata “Transmediterranean cruise” che rientra nel progetto VECTOR (CONISMA), i cui obiettivi sono volti ad approfondire le conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sull’ambiente marino mediterraneo, focalizzando l’attenzione sui processi sedimentari, sui processi fisici e sui cicli biogeochimici, nonché sulla biodiversità.. La campagna si è svolta dal 28/05/2007 al 28/06/2007 nel bacino mediterraneo lungo un gradiente trofico decrescente ovest-est. Sono state prescelte dieci stazioni di campionamento: cinque nel mediterraneo occidentale (St. VA, V4, V3, V1, V2) e cinque nel mediterraneo orientale (St. V6, V7, V8, V10, Viera). In tutte le dieci stazioni previste nella campagna si è provveduto ad eseguire esperimenti di diluizione riguardanti la predazione dell’HNAN sul picoplancton eterotrofo batiale, mentre su nove stazioni sono stati effettuati esperimenti di diluizione relativi alla predazione dell’HNAN sul picoplancton superficiale autotrofo ed eterotrofo. In questo mio lavoro di ricerca si è scelto di utilizzare il metodo delle diluizioni introdotto nel 1982 da Landry ed Hasset, successivamente modificato da Landry et al. (1995) poiché nell’ultimo decennio è risultato il più utilizzato e può ormai essere considerato un protocollo standard, che, a differenza delle altre tecniche proposte, è estremamente semplice e non prevede alcuna manipolazione degli organismi. Mediante questo protocollo, è possibile calcolare sia il tasso di crescita delle prede, sia quello di predazione dei consumatori. Il tasso di predazione viene stimato attraverso la determinazione del tasso di crescita della preda in una serie di contenitori nei quali l’acqua campionata in una stazione viene diluita con acqua filtrata proveniente dalla medesima stazione. Le successive diluizioni riducono la probabilità d’incontro tra preda e predatore. Il metodo si basa sul presupposto che il tasso di predazione (g) sia linearmente correlato alla densità delle prede, che il coefficiente di crescita della preda (k) sia costante e indipendente dalla densità del popolamento (limitazione di nutrienti assente) e che il tasso di filtrazione si mantenga costante, indipendente dalla concentrazione delle prede. La variazione della densità delle prede (C) in un determinato periodo di tempo (t) può essere espressa dalla seguente equazione esponenziale: Ct = C0*e (k-g)*t ; dove, Ct è la biomassa alla fine dell’incubazione, C0 è la biomassa all’inizio dell’incubazione, k il tasso di crescita delle prede, g il tasso di mortalità dovuto alla predazione e t il periodo di incubazione. Il tasso di predazione corrisponde alla pendenza della retta di regressione tra crescita della preda e le frazioni di acqua diluita; il tasso specifico di crescita delle prede si ottiene estrapolando la crescita apparente in assenza di predatori. L’eventuale crescita dell’HNAN viene stimata come differenza tra la concentrazione finale e quella iniziale nei campioni al 100%. In esperimenti precedenti si è visto che nell’arco delle 24 ore di incubazione si assisteva ad una crescita significativa di questa frazione. In questo modo sarà possibile stimare l’efficienza del trasferimento energetico perché tale è la produzione secondaria. I campionamenti d’acqua di mare per gli esperimenti di diluizione sono stati effettuati alle stazioni prescelte mediante rosette dotata di 24 bottiglie Niskin, sia in superficie che nella zona batipelagica e l’acqua di mare è stata filtrata su un retino da 10 m per eliminare i predatori di dimensioni superiori all’ HNAN. L’acqua così ottenuta, è stata diluita con acqua di mare proveniente dalla medesima stazione e filtrata mediante pompa peristaltica su membrana idrofila di PFTE Millipore con porosità pari a 0.22 m (acqua marina priva di organismi vitali eccetto piccoli batteri). Per valutare la predazione dell’HNAN sui batteri sono stati allestiti a bordo quattro diluizioni nelle seguenti proporzioni: 100%, 80%, 50%, 20%, in tre repliche ognuna. La serie di campioni è stata preparata al T0 e al T24. I campioni sono stati incubati sul ponte delle navi per un tempo pari a 24 ore, alle condizioni simulate in situ utilizzando vasconi in cui si è provveduto a far scorrere acqua di mare superficiale che mantengono le condizioni di temperatura ed irradianza più prossimi a quelli della profondità di prelievo. Al tempo T0 e al tempo T24 sono state effettuate le analisi dei parametri. I campioni del batipelagico sono stati incubati anch’essi per 24 ore alle condizioni simulate in situ, al buio e in un frigorifero opportunamente tarato alla temperatura di prelievo. I campioni di nanoplancton sono stati fissati in gluteraldeide all’1% e tenuti in frigo; quelli di picoplancton sono stati fissati in formalina al 2%, precedentemente filtrata su 0.22 m e posti in frigo. I campioni di nanoplancton e picoplancton, sono stati filtrati in laboratorio mediante rampa su membrane NTG nere a diversa porosità, previa colorazione con DAPI e successivamente analizzati al microscopio ad epifluorescenza. Per il conteggio della frazione eterotrofa sono stati utilizzati i raggi UV, mentre la componente autotrofa è stata osservata ad eccitazione nel campo della luce verde. Gli organismi nanoplanctonici sono stati distinti in tre classi dimensionali : < 3 µm, tra 3 e 5 µm e > 5 µm. I valori di cellule per litro sono stati convertiti in biomassa di carbonio tramite l’applicazione di fattori di conversione reperibili in letteratura. L’efficienza delle diluizioni è stata verificata in tutte le stazioni della quota abissale: all’aumento del fattore diluizione corrisponde un’effettiva diluizione degli organismi al momento T0. Tutte le regressioni sono risultate significative ed è stata rilevata attività di predazione in tutte le stazioni del batipelagico. Solamente in VA alla mortalità di predazione si è aggiunta la mortalità naturale del popolamento picoplanctonico. La biomassa dei procarioti eterotrofi varia da 0.14 ± 0.01 a 1.78 ± 0.15 µg C L-1, con un incremento medio nel settore orientale, mentre il nanoplancton presenta valori di biomassa relativamente stabili con il picco minimo rilevato nella stazione Tirrenica (0.02 ± 0.01 µg C L-1) ed il massimo in V8 (0.21 ± 0.05 µg C L-1 ). I valori calcolati di produzione secondaria risultano variabili e in tre stazioni non c’è stata alcuna produzione a carico dei predatori di dimensioni minori. I tassi di ingestione variano da 0.05 a 5.91 µg C L-1 g -1,e in media sono più elevati nei campioni del settore orientale dove, tuttavia, il controllo top down è meno efficace essendo il coefficiente di crescita (k) maggiore di quello di mortalità da predazione (g) nella maggior parte dei casi. Nel settore occidentale il controllo da parte della predazione sulla biomassa batterica è efficiente in 3 stazioni su 4. E’ stata evidenziata una relazione tra il tasso di ingestione e la biomassa batterica: all’aumento della biomassa delle prede, corrisponde anche un incremento della loro ingestione fino a raggiungere un valore massimo che rappresenta il livello di saturazione. Il tasso di ingestione risulta essere anche correlato linearmente con la produzione potenziale batterica. I valori massimi di ingestione sono associati ai valori massimi di produzione potenziale e questo potrebbe indicare che l’attività di predazione è principalmente rivolta alla frazione batterica potenzialmente più produttiva e metabolicamente più attiva. Questi risultati relativi al batipelagico sono stati presentati in un poster al convegno IMBER IMBIZO svoltosi a Miami dal 9 al 13 novembre 2008. Recentemente in collaborazione con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Marine dell’Università delle Marche è stato pubblicato il lavoro dal titolo “Disentangling the impact of viruses and nanoflagellates on prokaryotes in bathypelagic waters of the Mediterranean Sea”(2010) Mar. Ecol. Progres. Ser., Vol. 418:73-85. Per verificare i dati ottenuti nel Mediterraneo batipelagico si è allestito un nuovo esperimento di diluizione campionando acqua profonda (1500 m) in una stazione posta nel Golfo del Leone. Il campionamento è stato effettuato a fine settembre del 2010. Sono state preparate 4 diverse percentuali di diluizione: 100%, 90%, 70% e 10%, in tre repliche ciascuna. Il metodo relativo all’allestimento dell’esperimento, la fissazione dei campioni, filtrazione e conteggio è stato precedentemente descritto. L’efficienza della diluizioni è stata verificata e a questa è seguita l’analisi della crescita apparente che ha permesso di evidenziare un controllo di tipo top down esercitato dal nanoplancton eterotrofo sulle loro prede, andando a confermare i risultati relativi alla predazione rilevati nelle altre stazioni precedentemente indagate. La numerosità e la biomassa di prede e predatori sono in linea con i dati precedentemente ottenuti nelle stazioni Mediterranee e con i dati reperiti in letteratura e seguono la tendenza di una diminuzione di circa 2-3 ordini di grandezza rispetto a quelli relativi alla quota superficiale. L’efficienza delle diluizioni è stata anche verificata in tutte le stazioni superficiali dell’intero bacino del Mediterraneo per la frazione picoplanctonica eterotrofa ed autotrofa: all’aumento del fattore diluizione corrisponde un’effettiva diluizione degli organismi al momento T0. In alcune stazioni (VA, V1,Viera e V10) non è stato possibile eseguire il conteggio della frazione autotrofa a causa della perdita di fluorescenza dei fotopigmenti. Relativamente al picoplancton eterotrofo, le regressioni sono risultate significative ed è stata rilevata attività di predazione in tutte le stazioni, cosa che non è stata osservata in nessuna stazione per il comparto autotrofo. La biomassa dei batteri eterotrofi varia da 1.6 ± 0.06 µg C L-1 a 4.8 ± 0.6 µg C L-1 µg C L-1, con il valore massimo rilevato nella stazione Atlantica ed il minimo in Viera, in corrispondenza di una zona di downwelling. In accordo con il gradiente trofico decrescente ovest-est, si nota un decremento medio di biomassa procariotica eterotrofa passando dal settore occidentale a quello orientale. Le biomasse della frazione autotrofa sono basse e non raggiungono 1 µg C L-1 , ad eccezione di V4, dove il valore medio si attesta a 1.5 µg C L-1. Il nanoplancton totale risulta in media più abbondante nelle stazioni occidentali e la classe dimensionale dominante è quella < 5 µm. Per discriminare la frazione eterotrofa da quella autotrofa (distinzione non visibile al microscopio ad epifluorescenza a causa della perdita della capacità di fluorescenza dei fotopigmenti) si è considerato come riferimento un dato reperito in letteratura che attribuisce ai potenziali predatori (esclusivamente eterotrofi) il 24% della biomassa totale (Jürgens and Massana, 2008). I valori di produzione secondaria a carico dei soli eteronanoflagellati variano da 0.09 µg C L-1 d-1 a 3 µg C L-1 d-1 e in 2 casi (V6 e Viera) non c’è alcuna crescita dei predatori. I tassi di ingestione relativi alla frazione eterotrofa variano da un valore prossimo allo 0 rilevato in V3 a quello massimo Atlantico di 9.54 µg C L-1 d-1. Al contrario della zona batiale dove si osserva un maggior controllo di tipo top-down nel settore occidentale (g > k), questa zonazione non emerge nella quota superficiale dove i valori di k e g sono indipendenti dall’area di campionamento. Così come per il batipelagico, i valori massimi di ingestione sono associati ai valori massimi di produzione potenziale. I risultati relativi agli effetti sinergici ed antagonisti della predazione del microzooplancton e dei nanoflagellati sui procarioti autotrofi ed eterotrofi sono stati presentati al XIX Congresso dell’A.I.O.L. svoltosi a Venezia dal 22 al 25 settembre 2009. Dall’unione dei dati abbiamo evidenziato 4 diversi modelli: 1) nella stazione Ligure, la potenziale predazione esercitata dai nanoflagellati sul comparto eterotrofo picoplanctonico viene inibita dalla predazione del microzooplancton sui nanoflagellati stessi portando pertanto all’assenza di mortalità picoplanctonica dovuta alla predazione; 2) nelle st. V6 e VA, il controllo del microzooplancton sui nanoflagellati è meno efficace e il tasso di ingestione non viene più inibito ma dimezzato; 3) nelle st. V7 e V10 i tassi di ingestione nei 2 esperimenti sono simili ma, essendoci una predazione rivolta ai nanoflagellati, si può ipotizzare una pressione diretta quasi esclusiva del microzooplancton sui procarioti eterotrofi; 4) in V2, V3 e Viera, il microzooplancton non controlla la biomassa nanoplanctonica e, alla pressione da predazione esercita dai nanoflagellati sui procarioti eterotrofi, si somma quella effettuata direttamente dal microzooplancton. In collaborazione con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Marine dell’Università delle Marche, è stato presentato un lavoro al congresso CIESM (Venezia 2010) dal titolo “Virus-prokaryote-nanoflagellate-microzooplankton interactions in surface waters of the mediterranean sea”. Per valutare l’effetto selettivo della predazione sul popolamento procariotico abbiamo allestito un nuovo esperimento di diluizione effettuato nel mese di giugno 2009 presso il NIB di Pirano, Slovenia. Lo scopo di questo lavoro è di evidenziare la variazione quali – quantitativa delle prede indotta dalla pressione di predazione esercitata dai nanoflagellati. Attraverso il conteggio all’epifluorescenza e applicando il metodo delle diluizioni si è stimata la variazione quantitativa delle prede; mediante l’estrazione del DNA e tramite successiva amplificazione abbiamo ottenuto i campioni per l’indagine qualitativa. Il sequenziamento e l’analisi filogenetica dei campioni all’inizio e alla fine dell’esperimento ci hanno permesso di valutare la variazione delle comunità picoplanctoniche a causa della pressione da predazione. Al momento del prelievo dell’acqua di mare superficiale si è proceduto immediatamente alla filtrazione su rete da 10 μm al fine di eliminare tutti gli organismi di dimensioni maggiori alla frazione nanoplanctonica. Sono state poi allestite le diluizioni con la stessa acqua filtrata su 0.22 μm con pompa peristaltica, priva quindi di ogni organismo. Le proporzioni di diluizione utilizzate sono 100% (solo acqua filtrata su 10 μm), 80%, 50%, 10%. Da queste sono stati preparati i campioni: quelli rappresentanti il T0 sono stati immediatamente fissati, quelli rappresentanti il T24 sono stati fissati dopo 24h di incubazione. Parallelamente all’allestimento delle diluizioni è stato allestito l’esperimento per l'analisi genetica. Il bianco è stato preparato filtrando l’acqua direttamente su 3 μm e procedendo alla successiva incubazione per il T24, si è voluta eliminare la frazione nanoplanctonica per poter valutare la possibile modifica della comunità picoplanctonica dipendente dal cosiddetto “effetto bottiglia” e quindi la variazione della medesima comunità in seguito a filtrazione in assenza del predatore. I campioni del 100% al T0 ed al T24 dopo filtrazione su 3μm per eliminare la frazione nanoplanctonica sono stati raccolti su filtro da 0.22 μm. A questo punto il filtro è stato sezionato in quattro parti uguali con bisturi a lama sterile. Ogni porzione del filtro è stata accuratamente impacchettata ed interamente ricoperta con volumi variabili di lysis buffer (Bostrom, 2004) e conservata in falcon da 15 mL a -80°. Anche i campioni del bianco sono stati trattati allo stesso modo. Il protocollo d'estrazione del DNA è stato messo a punto sulla base di quello derivato da Giovannoni et al. (1990). Il pirosequenziamento (454), una delle nuove tecniche di sequenziamento ad elevato parallelismo basata sul principio del "sequencing by synthesis"; consente di ottenere 100 milioni di basi in meno di 8 ore ed ha permesso la prima analisi tassonomica della comunità batterica del Nord Adriatico. Per questo lavoro il sequenziamento è stato eseguito dal "Biotechnology Center" dell'Illinois. Per l'analisi bioinformatica delle sequenze ottenute è stato usato l' RDP (Ribosomal database Project) (http://rdp.cme.msu.edu/index.jsp). La visualizzazione delle sequenze classificate è stata effettuata utilizzando VAMPS (vamps.mbl.edu/overview.php). L'analisi statistica delle quattro librerie è stata fatta con IDEG6, un software disponibile online (http://telethon.bio.unipd.it/bioinfo/IDEG6_form/index.html). I dati ottenuti dall'analisi quantitativa dimostrano come il nanoplancton eterotrofo eserciti una predazione attiva sul picoplancton eterotrofo, ma non tale da determinarne il controllo, mentre non esercita predazione sul comparto autotrofo. Infatti, la correlazione rilevata fra crescita apparente del popolamento eteropicoplanctonico ed il grado di diluizione evidenziano la predazione da parte dell'eteronanoplancton, ma il valore assoluto di g (tasso di predazione) risulta minore di k (tasso di crescita apparente), indicando l'assenza di controllo top-down. L’analisi delle sequenze ha evidenziato una comunità prevalentemente composta da Proteobacteria, (Alphaproteobacteria) a cui appartengono due delle famiglie più rappresentative: le Rhodobacteraceae chemiorganotrofe e fotoeterotrofe e le Rhodospirillaceae prevalentemente fotosintetizzanti. La famiglia delle Flavobacteriaceae (Bacteroidetes) prevalentemente eterotrofa, è il secondo gruppo più abbondante nei campioni analizzati. Contribuiscono all’incremento della diversità dei campioni al T0 i Cyanobacteria e le Chitinophagaceae. Quest’ultime mostrano un incremento più significativo nei campioni del T24. Il confronto tra le sequenze analizzate nei campioni è risultato statisticamente significativo per dieci taxa. Dall'analisi delle sequenze si è osservata una predazione a carico dei gruppi meno abbondanti del comparto autotrofo (Cyanobacteria) non rilevabile altresì con gli esperimenti di diluizione. Il confronto tra i campioni T24 3μm e T24 100% evidenzia come quei taxa che non sono sottoposti ad un controllo di tipo top-down, per l'assenza del predatore, possano andare incontro a lisi virale secondo il modello "killing the winner" (Fuhrman & Suttle, 1993; Thingstad et al., 1993; Tingstad & Lignell, 1997). I risultati dell’analisi statistica sono stati graficamente risolti utilizzando MEGAN (www-ab.informatik.uni-tuebingen.de/software/megan), un software disponibile on line per le analisi di metagenomica.
XXIII Ciclo
1982
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6

Piccotto, Massimo. « Effetti degli NOx sulla fisiologia dei licheni foliosi epifiti ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3170.

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Résumé :
2007/2008
L’obiettivo della ricerca è stato individuare i possibili effetti degli NOx, inquinanti aerodiffusi foto-ossidanti, sui licheni foliosi epifiti. Il lavoro è stato svolto con un particolare riguardo nell’individuare le modificazioni indotte a carico del processo fotosintetico del fotobionte lichenico attraverso metodi fluorimetrici. Le ricerche condotte hanno approfondito inizialmente alcuni aspetti metodologici, individuando, ad esempio, le variabili ambientali che influenzano maggiormente la capacità e l’efficienza fotosintetica di questi organismi. Successivamente, è stata disegnata una articolata sperimentazione, condotta mediante trapianti in siti urbani inquinati e non, che ha permesso di verificare gli effetti degli inquinanti aerodiffusi a concentrazioni ambientali in presenza di altri, naturali, fonti di disturbo. Questo lavoro dimostra, attraverso misure fisiologiche, che l’arido microclima urbano può essere un fattore limitante la fisiologia dei licheni e che la loro tolleranza agli NOx dipende strettamente dalla loro ecologia.
XXI Ciclo
1980
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7

Campomori, Chiara. « Analisi dei movimenti spazio-temporali di uccelli acquatici svernati nelle zone umide dell'alto Adriatico ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3164.

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Résumé :
2007/2008
Le zone umide costiere dell’Alto Adriatico sono siti di grande importanza per lo svernamento di molte specie di uccelli acquatici. Gli uccelli acquatici possono essere considerati dei validi bioindicatori ambientali di queste aree, da cui essi dipendono in tutte le fasi del loro ciclo biologico. La conoscenza dei movimenti spazio-temporali dell’avifauna acquatica è un elemento essenziale per una corretta gestione delle zone umide e per lo sviluppo di adeguate politiche di conservazione. A tale scopo, è stato studiato il comportamento spazio-temporale degli uccelli acquatici a scala globale (variabilità intra- ed inter-annuale), a scala regionale (distribuzione nelle zone umide dell’alto Adriatico) ed scala locale (uso dello spazio e dell’habitat). In considerazione della notevole variabilità comportamentale che gli uccelli dimostrano ad ogni scala spazio-temporale, sono stati studiati i limiti e le dimensioni di queste variazioni in alcune specie di uccelli acquatici svernanti nell’Alto Adriatico, cercando di comprendere quale parte di questa variabilità è casuale e quale origina da risposte adattative a fattori ecologici. Come specie target è stato scelto il Piovanello pancianera Calidris alpina. Si è cercato, inoltre, di fornire alcune indicazioni per la gestione di queste zone umide e per una corretta metodologia di rilevamento e utilizzo dei dati di censimento.
XXI Ciclo
1976
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8

Bincoletto, Tatiana. « Le barriere reattive permeabili : sperimentazioni sul materiale Cu/Al per la decontaminazione di acque da solventi clorurati ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3254.

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Résumé :
2007/2008
Le problematiche ambientali relative alla potenziale presenza di composti organici clorurati, quali il tetraclorocarbonio, il cloroformio e il diclorometano, sono molto diffuse e di difficile risoluzione. Tali composti possono essere riscontrati in siti interessati, sia attualmente che nel passato, da attività di vario genere tra cui quella di produzione farmaceutica, alimentare e chimica. Sono in atto, oggigiorno, molteplici sperimentazioni finalizzate alla decontaminazione delle acque, siano esse di falda, di ruscellamento o di derivazione industriale, da tali composti. Una delle tecnologie che, negli ultimi anni, ha fornito risultati eccellenti per la decontaminazione di acque da varie tipologie di inquinanti tra cui quelli oggetto del presente lavoro, riguarda l’applicazione di barriere reattive permeabili. In particolare, gli studi riguardano la sperimentazione di materiali reattivi risultati efficaci anche per il trattamento di composti organici clorurati. La ricerca svolta si è concentrata sulla preparazione, sulla caratterizzazione e sulla sperimentazione di un materiale bimetallico reattivo a base di alluminio e rame per la decontaminazione di acque da tetraclorometano e da diclorometano. Le varie tipologie di bimetallo sono state realizzate utilizzando una soluzione di solfato di rame (uso agricolo) puro al 98.3 %, dell’idrossido di sodio in granuli e polveri di alluminio con un grado di purezza pari al 99.5% di cui sono state scelte cinque diverse classi granulometriche al fine di verificarne l’influenza sulle capacità reattive per il processo di decontaminazione. Sono stati prodotti 3 gruppi distinti di materiali Cu/Al in base sia alla quantità di polvere di alluminio utilizzata in fase di preparazione del materiale sia alla presenza o meno di processi di lavaggio del materiale post-formazione. La caratterizzazione del materiale è avvenuta attraverso analisi diffrattometriche e analisi in microscopia elettronica a scansione (SEM) che hanno permesso di individuarne la struttura e di identificarne le fasi cristalline che lo compongono. Le sperimentazioni per testare l’attività dei materiali sono state condotte in batch con acque contaminate da tetraclorometano o diclorometano a concentrazioni dell’ordine delle ppm ovvero superiori ai limiti imposti dalla Tab. 2 Allegato 5 (Tit.V) del DLgs 152/06 per le acque sotterranee. Le analisi chimiche, eseguite con un Purge and Trap interfacciato a un gascromatografo accoppiato ad uno spettrometro di massa, sono state realizzate presso i laboratori Hydrotech S.r.l. - Area Science Park, Padriciano, 99 - Trieste. La metodologia di analisi ha permesso di quantificare le percentuali di abbattimento di contaminante sia nel caso del tetraclorometano che del diclorometano e di verificare la formazione di prodotti secondari o di degradazione.
XXI Ciclo
1977
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9

Plossi, Paolo. « Trasferimento di microinquinanti nel biota e nel sedimento in Golfo di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4583.

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Résumé :
2009/2010
E’ stato esaminato il fenomeno dell’emissione di microinquinanti organici e composti organici persistenti (POP) nella Zona Industriale di Trieste, in rapporto alla contaminazione che essi causano nei Molluschi in Baia diMuggia. L’attività di ricerca condotta è coerente con i seguenti scopi: 1. descrivere gli elementi caratteristici dell'alterazione che viene generata, a partire dalle attività che la causano; 2. individuare gli elementi caratteristici dei fenomeni di alterazione ambientale, con particolare riferimento agli ecosistemi marini in Baia di Muggia; 3. elaborare un Modello Concettuale descrivente i fenomeni di alterazione presenti nell’area di studio, utile a valutare il rischio da essi derivante; 4. studiare la diffusione degli inquinanti nei molluschi presenti in Baia di Muggia, estrapolando le informazioni utili per la validazione del metodo di indagine. L’analisi dei dati ambientali si basa sullo schema “DPSIR” (Determinanti-Pressioni-Stato-Impatti-Risposte) elaborato da OCSE-EEA, secondo cui le attività civili, industriali, il traffico terrestre e navale, i siti inquinati (D) generano emissioni di inquinanti organici e metalli (P) che alterano le condizioni (S) dei vari comparti ambientali e del biota, causando impatti (I), si valutano le politiche di controllo e risanamento in termini di “Risposte” (R). Viene costruito un “dataset” delle sorgenti di POP e del loro contenuto in ciascun comparto ambientale, e quindi uno schema di esposizione utile a descrivere i meccanismi di alterazione e schematizzare gli Impatti. Con l’Analisi Multivariata sono esaminate le relazioni causa-effetto tra sorgenti e recettori. Coerentemente con lo schema di esposizione, sono campionati in varie stazioni costiere di Muggia molluschi marini appartenenti a tre specie: Patella caerulaea, Mytilus galloprovincialis e Pinna nobilis. Sono tutte rappresentative di popolazioni presenti in Golfo di Trieste e di diversi percorsi di esposizione agli inquinanti, avendo diverse abitudini alimentari e collocazione verticale. I campioni sono sottoposti a misurazioni biometriche e ad analisi chimica del contenuto di Idrocarburi Policiclici Aromatici. Dall’esame statistico delle relazioni di impatto e dai risultati analitici, le emissioni industriali risultano associabili alla contaminazione del biota, ed in particolare le sorgenti più impattanti sono le ricadute atmosferiche. I profili di contaminazione da POP nell’aria, nei sedimenti, nel biota, sono ben correlabili alle emissioni in atmosfera ed agli scarichi idrici. Sono osservabili effetti di migrazione preferenziale dei congeneri a basso peso molecolare, che risultano molto mobili, e che vengono selettivamente assorbiti in concentrazioni maggiori dagli organismi-bersaglio. Il loro contenuto nei molluschi aumenta sensibilmente dopo episodi di maltempo che movimentano i sedimenti, e si notano anche effetti di aumento delle concentrazioni in relazione all’evoluzione stagionale del ciclo biologico dei molluschi, con valori più alti nella stagione estiva, pre-riproduttiva. L’uso combinato di tecniche di esame dei processi industriali, di indagine chimica, di studio della biologia dell’organismo-bersaglio, di indagine statistica, hanno dato prova di costituire un potente strumento per l’indagime dell’alterazione nel biota e la previsione del rischio.
XXII Ciclo
1962
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10

Cumani, Francesco. « Fisiologia della calcificazione nelle corallinaceae (Rhodophyta) : effetti dell'ocean acidification su Litophyllum Incrustans Philippi ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4581.

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Résumé :
2009/2010
Il continuo aumento di CO2 a causa dell’attività antropica determina un abbassamento del pH delle acque che influenza negativamente l’equilibrio dei carbonati e la calcificazione biologica; questo fenomeno viene definito ocean acidification. Nel corso degli ultimi anni alcuni autori hanno studiato gli effetti dell’acidificazione del mare su organismi adulti di Corallinaceae. Poco è attualmente conosciuto sull’effetto della diminuzione del pH in mare sulle prime fasi di sviluppo delle alghe rosse calcaree. Scopo principale di tre anni di ricerca è stato quindi di: (i) studiare gli effetti dell’ocean acidification in microcosmo sui giovani talli di L. incrustans (Corallinaceae, Rhodophyta); (ii) analizzare non solo gli effetti dell’incremento della concentrazione di anidride carbonica in acqua marina sulle “prime fasi del ciclo vitale”, ma anche sugli “esemplari adulti” di L. incrustans. L’incremento dell’anidride carbonica in atmosfera e la conseguente diminuzione del pH dell’acqua marina sembra determinare in L. incrustans una diminuzione: (i) nella produzione di spore da parte dei talli calcarei progenitori; (ii) dello sviluppo, sia dei talli giovani che degli organismi adulti; (iii) nella sopravvivenza dei giovani talli; (iiii) nei tassi di calcificazione, sia nei talli giovani che negli organismi adulti. Tutti questi risultati sembrano essere in linea con quanto riportato dalla scarsa letteratura scientifica prodotta fino ad ora su questo tema. L. incrustans, e le Corallinaceae in genere, sembrano quindi essere estremamente sensibili all’incremento dell’acidità in acqua di mare. Il possibile, e probabile, declino nella presenza delle alghe rosse calcaree dovuto all’ocean acidification potrebbe avere delle conseguenze significative per gli ecosistemi dove esse sono attualmente presenti. Le Corallinaceae, infatti, hanno una rilevante importanza ecologica, permettendo il reclutamento, la colonizzazione di numerosi invertebrati e la formazione di habitat, quali i rhodolith beds o il coralligeno con un conseguente incremento della biodiversità.
The steady increase of CO2 due to human activity leads to a lowering of the pH of the water which adversely affects the balance of organic carbon and calcification, this phenomenon is called ‘ocean acidification’ During the last few years the effect of the increase of carbon dioxide was studied on mature calcareous red algae. Little currently is known on the effect of the marine acidification on the early stages of the Corallinaceae development. The aim of three years of research was: (i) to study the effects of the ocean acidification in microcosm on the young thalli of L. incrustans (Corallinaceae, Rhodophyta); (ii) to analyze the effects of increased CO2 concentration in seawater not only on the "early stages” of the life cycle, but also on" adult "by L. incrustans.. The increase of CO2 in the atmosphere and the consequent decrease in pH of sea water seems to determine in L. incrustans a decrease: (i) in the production of spores by calcareous thallus progenitors, (ii) of the development, in both young and adult organisms, (iii) of the survival of young thalli, (iiii) in rates of calcification, both in young thallus and in adults. All these results seem to be in line with the recent lack of scientific literature produced so far on this issue. L. incrustans, and Corallinaceae in general, appear to be extremely sensitive to the increase of acidity in the sea. The possible and probable decline in the presence of calcareous red algae due to ocean acidification could have significant consequences for the ecosystems in which they are currently present. The Corallinaceae, in fact, have a significant ecological importance, allowing the recruitment, the colonization of many invertebrates and the construction of habitats such as coral rhodolith beds or coralligenous with a consequent increase in biodiversity.
XXIII Ciclo
1980
Styles APA, Harvard, Vancouver, ISO, etc.
11

Lavezza, Rosario. « Dinamica dei nutrienti nel Mediterraneo con particolare riguardo a quella del Silicio ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4574.

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Résumé :
2009/2010
I cicli bio-geochimici del Mediterraneo evidenziano caratteristiche peculiari. Rapporti di concentrazione degli ioni di azoto e fosforo completamente sbilanciati rispetto a quelli oceanici, ed una dinamica del silicio che descrive un bacino caratterizzato da un forte impoveriemnto di questo elemento, sono solo due degli aspetti più interessanti evidenziati nel corso degli anni. Queste specificità suggeriscono che almeno la componente microplanctonica del sistema operi in un ambiente diverso dagli altri ambienti pelagici marini, e portano ad ipotizzare che questo si rifletta sulle modalità e sulle risposte specifiche del Mediterraneo a livello di composizione della comunità, soprattutto degli organismi autotrofi. In altre parole, la dinamica dei nutrienti ed in particolare del silicio, in Mediterraneo deve riflettere inevitabilmente il funzionamento del comparto plactonico ed i suoi adattamenti alle specificità dell'ambiente. Da qui, risulta essere evidente la necessità di studiare il sistema Mediterraneo, ed in particolar modo le variazioni dei cicli bio-geochimici di alcune delle sue componenti principali (nutrienti). In quest'ottica, fondamentale è stata la costruzione di un data-set le cui caratteristiche essenziali fossero la consistenza e la robustezza statistica delle informazioni in esso contenute. Molta parte dello studio, infatti, è stato dedicato all'individuazione di strumenti statistici ed alla loro applicazione per produrre un data-set che evidenziasse pattern non inficiati dalla variabilità prodotta dalle procedure di campionamento, conservazione, etc. I risultati ottenuti sono stati vari ed estremamente interessanti. Innanzitutto è stato sviluppato un metodo statistico che ha reso disponibile un set di dati significativamente più ampio e più robusto che in passato, inoltre, l'analisi condotta su questo data-set, ha permesso di evidenziare i pattern principali della dinamica dei nutrienti, consolidando il quadro esistente e fornendo spunti per nuovi possibili scenari.
XXIII Ciclo
1977
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12

Martinis, Marzia. « Effetti degli stress ambientali su tre specie di crostacei decapodi costieri ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3169.

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Résumé :
2007/2008
In questo lavoro è stato valutato come le modificazioni di salinità, temperatura e l’esposizione all’aria influiscano sulla fisiologia di tre specie di Crostacei (Carcinus aestuarii, Palaemon elegans e Upogebia pusilla). In seguito a simulazioni effettuate in laboratorio, che hanno previsto il trasferimento diretto o il passaggio graduale di C. aestuarii e P. elegans a differenti salinità (6, 16, 26 e 46 PSU) partendo dalla condizione di stabulazione (36 PSU) e a differenti temperatura (6, 12, 24 e 30° C) partendo da 18° C, si sono effettuati prelievi di emolinfa a tempi successivi, sulla quale si sono misurati alcuni biomarkers fisiologici. In particolare si è determinata la concentrazione di glucosio e acido lattico, coinvolti direttamente nel mantenimento del flusso energetico utilizzato nel mantenimento dell’omeostasi, delle proteine totali dell’emolinfa, correlate alla sua densità, generali indicatori di stress fisiologico ed infine si è misurato il valore del pH dell’emolinfa, indicatore dell’equilibrio acido-base. Nel caso di variazioni della salinità e di esposizione all’aria, si è aggiunta la valutazione della concentrazione di alcuni elettroliti, quali indicatori dei processi di ionoregolazione. Per U. pusilla si sono effettuate delle prove, per ottenere le condizioni ideali di mantenimento. Si sono quindi valutate diverse dimensioni delle vasche e dello spessore del substrato sul fondo, le condizioni di filtraggio e dell’aerazione dell’acqua, il ciclo di illuminazione e della densità di animali per vasca.
XXI Ciclo
1976
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13

Blason, Claudia. « Ecologia trofica del microzooplancton ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4523.

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Résumé :
2009/2010
Il microzooplancton (organismi eterotrofi di dimensioni comprese tra 10 e 200 μm) svolge un ruolo fondamentale nei trasferimenti energetici dai produttori primari ai successivi anelli della rete trofica; è il principale predatore del nanoplancton (2-10 µm) e in misura minore (riducendo l’attività di predazione dei nanoflagellati sulla medesima risorsa), predatore del picoplancton (0.2-2 µm ) nel circuito microbico, nonché consumatore di microfitoplancton di piccole dimensioni e preda del mesozooplancton nella rete trofica classica o“del pascolo”. Pertanto, il microzooplancton rappresenta l’anello di congiunzione tra i due sistemi. Lo scopo della mia ricerca è stato finalizzato a quantificare il flusso di carbonio attraverso la comunità microplanctonica, tramite la predazione del microzooplancton sul comparto microfito-, nano- e picoplanctonico sia autotrofo che eterotrofo; a verificare la selezione delle prede da parte della componente eterotrofa, nonché a quantificare la produzione secondaria (tassi di crescita) del popolamento dei predatori. I campioni analizzati, si riferiscono a quattro stazioni del Mediterraneo orientale V6, V7, Viera e V10 campionate in superficie (-5 metri) durante la campagna oceanografica denominata “Transmediterranean cruise”(estate 2007) che rientra nel progetto V.E.C.T.O.R. (CoNISMa) i cui obiettivi sono volti ad approfondire le conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sull’ambiente marino mediterraneo focalizzando l’attenzione su processi sedimentari, fisici, cicli biogeochimici (ruolo del bacino Mediterraneo nel ciclo globale del carbonio) nonché sulla biodiversità. Per questo lavoro di ricerca, volto a valutare l’impatto della predazione del microzooplancton su un’ampia varietà di prede, si è scelto di utilizzare il metodo delle diluizioni introdotto nel 1982 da Landry ed Hasset, successivamente modificato da Landry et al. (1995) poiché può ormai essere considerato un protocollo standard, che, a differenza delle altre tecniche proposte, è estremamente semplice e non prevede alcuna manipolazione degli organismi. Mediante questo protocollo, si ottiene sia il tasso di crescita delle prede (k), che quello di mortalità delle prede indotta da predazione (g). Il tasso di predazione viene stimato attraverso la determinazione del tasso di crescita della preda in una serie di contenitori nei quali l’acqua campionata in una stazione viene diluita con acqua filtrata proveniente dalla medesima stazione. Le successive diluizioni riducono la probabilità d’incontro tra preda e predatore. Il tasso di crescita si ottiene estrapolando la crescita al 100% di diluizione (tasso di crescita in assenza di predatori); il tasso di predazione corrisponde alla pendenza della retta di regressione tra la crescita delle prede e le frazioni d’acqua non filtrata. Il metodo si basa sul presupposto che le prede abbiano un tasso di crescita costante, che non ci sia limitazione di nutrienti, che il tasso di predazione da parte dei consumatori sia direttamente proporzionale alla densità delle prede e che la variazione della densità delle prede in un determinato periodo di tempo sia rappresentata dall’equazione esponenziale: Ct = C0*e (k-g)*t; dove, Ct è la biomassa alla fine dell’incubazione, C0 è la biomassa all’inizio dell’incubazione, k il tasso di crescita delle prede, g il tasso di mortalità dovuto alla predazione e t il periodo di incubazione (24 ore). I campionamenti d’acqua di mare per gli esperimenti di diluizione, sono stati effettuati mediante rosette dotata di bottiglie Niskin; l’acqua di mare (100 litri per stazione) è stata filtrata su un retino da 200 µm per eliminare gli eventuali predatori di taglia superiore (mesozooplancton). L’acqua così ottenuta, è stata diluita con acqua di mare proveniente dalla medesima stazione e filtrata mediante pompa peristaltica su membrana idrofila di PFTE Millipore con porosità pari a 0.22 m allo scopo di ottenere acqua marina priva di organismi. Per valutare l’impatto di predazione del microzooplancton sulle prede, si è scelto di allestire per ogni stazione quattro diluizioni nelle seguenti proporzioni: 100%, 80%, 50%, 20%, in tre repliche ognuna al C0 e al C24; si sono aggiunte inoltre tre bottiglie (100% C48) per verificare la crescita dei predatori (produzione secondaria). La serie dei campioni è stata preparata al C0 e al C24 per tutti i quattro parametri: microzoo-, microfito-, nano-, picoplancton. Sono stati aggiunti nutrienti nella misura di 5 μM NaN03 e 1 μM KH2P04, per ogni bottiglia di incubazione al fine di evitare che la crescita fitoplanctonica fosse inibita da carenza di qualche nutriente. Tutte le bottiglie sono state messe ad incubare per 24 ore (produzione secondaria 48 ore) in vasche poste sul ponte principale dell’imbarcazione nelle quali è stato mantenuto un flusso costante di acqua di mare superficiale per garantire condizioni ambientali il più possibile prossime a quelle naturali. All’inizio di ogni esperimento sono state prelevate tre repliche per ciascuna diluizione (100%, 80%, 50% e 20%) ed immediatamente fissate in formaldeide neutralizzata alla concentrazione finale del 2%; alla fine dell’incubazione sono state fissate tre repliche per ciascuna diluizione secondo le medesime modalità. I campioni di nano plancton sono stati conservati in gluteraldeide all’1% e mantenuti al buio in frigorifero alla temperatura di + 5 ºC. Sia la formalina che la gluteraldeide sono state prefiltrate mediante filtri a siringa (0.20 μm) per togliere eventuali impurità. In laboratorio, sono stati filtrati mediante rampa di filtrazione (depressione compresa tra 0.2-0.3 atm.) i campioni di pico- e nanoplancton (da un volume iniziale rispettivamente di 50 ml e 250 ml per replica). Per il comparto batterico sono stati utilizzati filtri NTG neri con porosità pari a 0.2 μm e sottofiltri Millipore bianchi da 0.45 μm mentre per il nanoplancton, filtri NTG neri da 0.8 μm e sottofiltri Millipore bianchi da 1.2 μm. Il pico- e il nanoplancton sono stati inizialmente colorati con una soluzione di DAPI (1mg ml-1) per ottenere una concentrazione finale di 1 μl ml-1. Al fine di consentire la formazione del complesso DAPI-DNA il campione è stato riposto al buio per 15 minuti. Al termine di questo procedimento, tutti i campioni sono stati filtrati secondo volumi crescenti all’aumentare delle diluizioni. Si è deciso di allestire nove repliche (T0 e T24) per il picoplancton eterotrofo e tre repliche (T0 e T24) rispettivamente per la frazione autotrofa del picoplancton e per il nanoplancton. Tutti i filtri sono stati posti su vetrini e mantenuti in freezer alla temperatura di -20° C fino al momento dell’analisi. Il conteggio del picoplancton e del nanoplancton è stato condotto utilizzando un microscopio ad epifluorescenza Olympus BX 60 F5, dotato di lampada a vapori di mercurio (100 W) e obiettivo a immersione ad olio con un ingrandimento finale di 1000x. La componente autotrofa del picoplancton, è stata osservata in luce blu (450-490 nm) e in campi casuali sul filtro mentre per quella eterotrofa si è utilizzato l’illuminazione a raggi UV (365nm) ed il conteggio è avvenuto all’interno di un reticolo denominato “Patterson”. Sono state contate 200 cellule per il comparto eterotrofo e almeno 100 per quello autotrofo. Non è stato possibile distinguere il nanoplancton in frazione auto- eterotrofa per l’eccessiva perdita di autofluorescenza della clorofilla nella frazione autotrofa. Il comparto nanoplanctonico è stato suddiviso in tre classi dimensionali: < 3 μm, 3-5 μm e >5 μm. In fase di elaborazione dei dati, sia per il pico- che per il nanoplancton, è stata estrapolata la quantità di cellule per litro e questa quantità è stata successivamente convertita in biomassa di carbonio utilizzando specifici fattori di conversione trovati in letteratura. I campioni di microfito- e microzooplancton sono stati preconcentrati da un volume iniziale di ~ 2 L a ~ 200 ml. Di questi, 100 ml sono stati sedimentati per 72 ore in apposite colonnine di sedimentazione secondo il metodo proposto da Uthermöhl (1958). L’analisi quali-quantitativa di entrambi i comparti microplanctonici è avvenuta al microscopio rovesciato Leitz Labovert con un ingrandimento finale di 320X. Il conteggio del comparto microplanctonico è avvenuto nella stessa camera di sedimentazione, con l’unica differenza che la frazione autotrofa veniva osservata su metà camera mentre quella eterotrofa sulla camera intera. Per la significatività dei dati riguardanti il microfitoplancton, era necessario conteggiare almeno 100 individui per replica per ognuno dei gruppi presenti. Il numero degli individui conteggiato è stato convertito in cellule per litro, mentre la biomassa di carbonio è stata stimata partendo dal biovolume determinato mediante misurazione delle dimensioni lineari delle cellule che sono state associate a figure geometriche standard. I biovolumi risultanti sono stati poi trasformati in valori di carbonio organico usando fattori di conversione specifici trovati in letteratura. Per quel che riguarda la frazione microfitoplanctonica, nei campioni che ho analizzato non ho conteggiato un numero significativo di organismi della stessa specie tale da permettermi di procedere ad una elaborazione dei dati. Pertanto mi sono limitata a valutare la predazione del microzooplancton sul comparto pico e nanoplanctonico. Dall’elaborazione dei dati iniziali (C0) di pico- e nanoplancton, si evince che alle rispettive diluizioni di acqua corrisponde un’effettiva diluizione degli organismi, il che significa che gli esperimenti sono stati allestiti correttamente. I dati elaborati, relativi all’impatto di predazione sul comparto batterico sono stati presentati in occasione del XVIII Congresso S.It.E. (Società Italiana di Ecologia) svoltosi a Parma nel settembre 2008. I risultati ottenuti evidenziano che la biomassa dei batteri eterotrofi in Mediterraneo orientale è piuttosto costante ~ 6 μgCL-1 e 3 x 108 cell L-1. In tutti gli esperimenti si osserva mortalità indotta da predazione con tassi d’ingestione piuttosto omogenei con valori che vanno dai 9.5 μgCL-1d-1 nelle stazioni V6 e V7 agli 11.8 μgCL-1d-1 di Viera e 13.06 μgCL-1d-1 di V10. La frazione autotrofa al contrario, registra valori di biomassa molto bassi ~0.5 μgCL-1 e 3 x 106 cell L-1. Non si verifica predazione sul comparto autotrofo. Relativamente al comparto eterotrofo, anche se si verifica la predazione, il tasso di crescita dei batteri (k) supera il tasso di mortalità indotta da predazione (g) indicando dunque che nel bacino orientale i predatori non sono in grado di controllare la crescita delle prede. Si è proceduto con l’elaborazione dei dati di nanoplancton, per il quale si sono registrate biomasse più basse rispetto a quelle picoplanctoniche, ~ 4 μgCl-1. Si è verificata attività di predazione solamente in tre stazioni su quattro. La predazione è stata prevalentemente selettiva in quanto solo nella stazione V6 sono state predate tutte e tre le classi dimensionali, mentre nelle altre due stazioni sono state predate due delle tre classi dimensionali (< 3 μm e 3-5 μm in V7; 3-5 μm e > 5 μm in V10). I dati confermano che gli organismi di dimensioni > 5 μm, ossia quelli con valori di biomassa maggiori sono anche quelli associabili ai tassi di ingestione più alti. Nei casi in cui c’è predazione si verifica un’efficace top down control (g > k) da parte del microzooplancton nella stazione V6 per gli organismi > 5 μm, in V7 per quelli < 3 μm e in V10 per quelli compresi tra 3-5 μm e > 5 μm. Negli altri casi in cui si verifica predazione k > g, quindi non c’è controllo da parte dei predatori sulla crescita delle prede. Al Congresso dell’A.I.O.L. tenutosi a Venezia nel settembre 2009 sono stati presentati due ulteriori lavori: uno relativo alla “Composizione e abbondanza delle comunità microzooplanctoniche raccolte durante la campagna TransMed stimate con tre diversi metodi di raccolta e fissazione” ed un altro dal titolo: “Effetti sinergici ed antagonisti della predazione del microzooplancton e dei nanoflagellati sui procarioti autotrofi ed eterotrofi stimati sperimentalmente durante la crociera TransMed”. Nel primo lavoro è stata valutata la composizione della comunità microzooplanctonica in acqua raccolta e fissata con modalità diverse. Durante la crociera infatti in superficie sono stati raccolti volumi di 500 ml, fissati in soluzione di Lugol al 2%; volumi pari a 2L, in tre repliche prefiltrate su 200 μm e fissate con formalina al 2%; volumi pari a 5L, concentrati su maglia da 10 μm fino ad arrivare ad un volume finale di 250 ml e fissati con formalina al 2%. Volumi pari a 100 ml dei campioni sopraccitati sono stati messi a sedimentare in colonnine di sedimentazione prima dell’osservazione al microscopio. L’analisi della composizione dei popolamenti in superficie, al Deep Chlorophyll Maximum (DCM), a 1500 m e al fondo indica un aumento delle abbondanze al DCM. I campioni fissati in Lugol sovrastimano le abbondanze; ciò è dovuto ai bassi volumi di partenza. I campioni di 5L concentrati sono quelli più rappresentativi in termini di ricchezza ma tendono a sottostimare in termini di abbondanza. Le 3 repliche di 2L sono risultate molto omogenee tra loro sia in termini di abbondanza che di composizione e i risultati ottenuti dall’analisi di questi campioni evidenziano che questo è il miglior compromesso per l’ottenimento di dati quanto più vicini alla situazione realmente presente in natura. Nel secondo lavoro sono stati stimati assieme ai tassi di predazione del microzooplancton anche quelli dei nanoflagellati eterotrofi (HNF) sui procarioti, autotrofi ed eterotrofi, diretti e indiretti attraverso la predazione del microzooplancton sul nanoplancton, ottenendo i tassi specifici di mortalità delle loro prede. Dall’analisi dei tassi di ingestione relativi agli esperimenti di predazione da parte del microzooplancton sul nanoplancton e sul picoplancton, e di predazione del solo nanoplancton sul picoplancton sono emersi quattro possibili modelli presenti nel bacino del Mediterraneo: 1) la pressione di predazione esercitata dai NF sul picoplancton eterotrofo viene inibita dal controllo esercitato dal microzooplancton sui NF con conseguente assenza di mortalità picoplanctonica; 2) il controllo esercitato dal microzooplancton sui NF è meno efficace con conseguente dimezzamento dei tassi di ingestione; 3) i tassi di ingestione sono simili, ma poiché il microzooplancton preda anche sui NF si può ipotizzare che la predazione sul picoplancton sia esclusivamente a carico del micro zooplancton; 4) si verifica predazione indipendente del microzooplancton e del nanoplancton sul comparto picoplanctonico, in questo caso si sommano i tassi di ingestione. L’analisi dei coefficienti k e g, ha evidenziato che nel Mediterraneo occidentale g > k, e pertanto c’è un efficace top-down control sulla crescita delle prede; nel Mediterraneo orientale g > k relativamente alla predazione sulla frazione nanoplanctonica, mentre k > g per il comparto picoplanctonico e quindi il microzooplancton non controlla la crescita batterica. Relativamente all’esperimento di predazione del solo nanoplancton sul picoplancton i valori di g e k non sembrano in alcun modo correlati all’area di campionamento. Una situazione particolare si verifica in VA dove effettivamente c’è un controllo sulla crescita batterica ma c’è un valore di k negativo possibile indice di mortalità indotta non solo da predazione ma anche da lisi virale. In collaborazione con il gruppo di ricerca del dipartimento di scienze marine dell’Università delle Marche al congresso CIESM (Venezia 2010) è stato presentato un lavoro dal titolo “Virus-Prokaryote-Nanoflagellate-Microzooplankton interactions in surface water of the Mediterranean sea”. I predatori, a causa dell’elevata oligotrofia del bacino orientale del Mediterraneo, particolarmente durante il periodo estivo, sono risultati scarsi. I valori di biomassa si aggirano mediamente intorno a 0.60 μgCL-1 che corrispondono a ~ 1.30 x 102 cell L-1 . Si ha una netta dominanza di Ciliati aloricati di piccole dimensioni (20-40 μm), caratterizzati in massima parte dai generi Strombidium, Laboea e dai nanociliati (< 20 μm); da Dinoflagellati eterotrofi ben rappresentati dai generi Gymnodinium (<20 μm) e Protoperidinium. Tra i tintinnidi i più presenti appartengono al genere Rhabdonella, Eutintinnus e Tintinnopsis. La crescita del popolamento microzooplanctonico si è registrata in tutte le stazioni ma solo per alcuni dei gruppi presenti: Tintinnidi, Dinoflagellati eterotrofi, altri protozoi rappresentati in massima parte dai foraminiferi e micrometazoi. In conclusione, l’attività di predazione del microzooplancton è altamente selettiva e dipende dalla composizione delle prede nonché dalla struttura della comunità dei predatori. In questo studio, è emerso come la frazione che contribuisce in massima parte al flusso di carbonio è rappresentata da organismi del comparto microbico i quali grazie al notevole rapporto tra superficie e volume cellulare, sono in grado di assimilare al meglio i pochi nutrienti presenti nel bacino orientale del Mediterraneo nei mesi estivi. In modo più specifico l’attività di predazione più intensa è sicuramente rivolta al picoplancton eterotrofo e solo in misura minore alle prede nanoplanctoniche. L’inverno precedente la campagna oceanografica aveva registrato temperature sopra alla norma invernale, con conseguente scarso mescolamento della colonna d’acqua e ridotti nutrienti. Questo ha accentuato l’estrema oligotrofia estiva con gradiente crescente ovest-est al momento del campionamento. In queste condizioni, il “microbial loop” che si basa su processi rigenerativi, è stato particolarmente efficiente; la sostanza organica disciolta ha alimentato il circuito microbico, incrementando in questo modo la produzione e la biomassa batterica che è risultata la maggior risorsa di carbonio per il microzooplancton. Il secondo capitolo della mia tesi è relativo al progetto di ricerca “Ostreopsis ovata e Ostreopsis spp. nuovi rischi di tossicità microalgale nei mari italiani”. Gli obiettivi sono stati quelli di identificare gli eventuali trasferimenti di Ostreopsis ovata lungo la rete trofica pelagica. Ostreopsis ovata è un’alga microscopica unicellulare che vive comunemente nelle calde acque dei mari tropicali. E’ un’alga epifita che vive preferibilmente sulle alghe rosse e brune ed appartiene al gruppo dei dinoflagellati. Condizioni climatiche ottimali hanno consentito a quest’alga di svilupparsi alle nostre latitudini. Al microscopio le cellule di Ostreopsis ovata hanno una forma a goccia compressa in senso antero posteriore e sono formate da placche di cellulosa che formano due teche di uguali dimensioni. Nel mese di giugno 2009 è stata allestita una serie di esperimenti di diluizione e di grazing con acqua di mare raccolta al largo della stazione biologica di Pirano (Slo). L’acqua raccolta è stata arricchita con coltura di Ostreopsis per verificare l’eventuale predazione da parte del microzooplancton e del mesozooplancton nei suoi confronti. Un secondo esperimento di solo grazing è stato condotto nel mese di settembre 2009 a Pirano campionando acqua di mare raccolta al largo della stazione biologica di Pirano, ed arricchendola in O. ovata come nel primo esperimento. Per valutare l’efficienza della predazione del microzooplancton sulla componente microfitoplanctonica ed in particolare su Ostreopsis ovata si è utilizzato il metodo delle diluizioni proposto da Landry & Hassett (1982) successivamente modificato da Landry et al., (1995) e Gallegos (1989). L’ acqua di mare superficiale raccolta è stata in parte filtrata su retino da 200 μm per eliminare gli organismi di taglia superiore, ed in parte filtrata con pompa peristaltica su filtro a 0.22 μm. Sono state così allestite le bottiglie da 2 L nelle varie diluizioni (100%, 80%, 50%, 10%) in tre repliche ciascuna, in due serie (T0 e T24). Le bottiglie sono state arricchite con coltura di Ostreopsis ovata a concentrazione nota (500.000 cell mL-1) pari a 10 ml per litro al 100% ed il resto in proporzioni adeguate per le varie diluizioni. Il T0 è stato immediatamente fissato con formalina neutralizzata alla concentrazione finale del 2%, ed allo stesso modo sono stati fissati i campioni alla fine dell’incubazione. Parallelamente a questo esperimento è stato allestito un esperimento di grazing per valutare la predazione da parte del mesozooplancton nei confronti di Ostreopsis. Il mesozooplancton è stato raccolto con una rete WP da 200 μm. Gli organismi vivi sono stati messi in un contenitore da 5 L e mantenuti al freddo. Si sono quindi selezionati gli organismi rappresentativi della comunità mesozooplanctonica al momento del prelievo costituiti da Acartia clausi prevalentemente in stadi giovanili. Sono stati aggiunti circa 20 organismi vivi nelle 3 bottiglie (100%) arricchite con coltura di Ostreopsis. Queste bottiglie sono state messe ad incubare per 24 ore in mare e poi fissate come sopra. Nel mese di settembre 2009 si è allestito a Pirano un esperimento di solo grazing seguendo lo stesso protocollo utilizzato nel mese di giugno. L’unica differenza sta nel fatto che in questo periodo dell’anno la comunità mesozooplanctonica dominante era costituita da Centropages. Sono state allestite 9 bottiglie da 2L con acqua di mare filtrata su 200 μm così suddivise: 3 bottiglie sono state arricchite con 20 ml di coltura di Ostreopsis a concentrazione nota e poi immediatamente fissate con formalina (T0); 3 bottiglie in Nalgene sono state arricchite allo stesso modo e poi sono state messe ad incubare (T24 bianco); 3 bottiglie sono state arricchite di coltura di Ostreopsis come le precedenti, poi sono stati aggiunti circa 12-15 organismi planctonici vitali del genere Centropages e sono state messe ad incubare in mare (T24 con copepodi). Al termine dell’incubazione tutti gli organismi sono stati fissati come da protocollo. In laboratorio l’analisi quali-quantitativa dei popolamenti fitoplanctonici è stata condotta su aliquote di 50 ml di campione preventivamente preconcentrato per 48 ore e messe a sedimentare per 30 ore in colonnine di sedimentazione. Il campione è stato conteggiato al microscopio rovesciato Olympus a 200X. I campioni di microzooplancton sono stati preparati allo stesso modo dei precedenti e conteggiati con microscopio invertito Labovert con ingrandimento 320X. L’analisi del popolamento microzooplanctonico al T0 e al T24 ha permesso di verificarne la crescita durante l’incubazione. Si registra durante l’incubazione una riduzione dei ciliati non loricati e degli altri protozoi, mentre aumenta sensibilmente la biomassa dei ciliati loricati. L’analisi delle repliche contenenti anche il mesozooplancton alla fine dell’incubazione (T24) ha permesso di rilevare un aumento di biomassa dei ciliati non loricati e dei dinoflagellati. Dopo aver verificato la bontà delle diluizioni sui campioni al T0 ho analizzato i campioni del T24 calcolando così il coefficiente di crescita apparente per ogni diluizione. Le specie soggette a predazione sono rappresentate da Chaetoceros decipiens, Dactyliosolen fragilissimus e Cerataulina pelagica, mentre non si osserva alcuna relazione significativa nei confronti della microalga Ostreopsis. I risultati relativi a questo esperimento hanno evidenziato che non c’è predazione da parte del microzooplancton nei confronti di Ostreopsis ovata La specie viene evidentemente selezionata negativamente ed il microzooplancton, costituito prevalentemente da piccoli dinoflagellati si nutre di altre specie fitoplanctoniche di dimensioni più ridotte. Nell’esperimento di grazing eseguito nel settembre 2009 si è voluta verificare la predazione da parte del mesozooplancton sulla microalga. Il protocollo seguito per l’analisi dei campioni era analogo a quello relativo all’esperimento precedente. Dal conteggio dei campioni in 3 repliche al T0 al T24 bianco e T24 con i copepodi, si è evidenziata una variazione in termini di biomassa di Ostreopsis. Si parte da una concentrazione iniziale pari a 1.92*108 pgCL-1 e si osserva un leggero decremento di biomassa nei campioni messi ad incubare senza copepodi. La biomassa di Ostreopsis ovata aumenta ad un valore di 3.65*108 pgCL-1 nei campioni in cui si è aggiunto il mesozooplancton. Questi esperimenti rappresentano uno dei primi studi volti a determinare la mortalità della componente microfitoplantonica (Ostreopsis ovata) indotta dalla predazione del micro zooplancton per identificare l’eventuale trasferimento lungo la rete trofica pelagica dell’alga e di conseguenza della sua tossina. Non si trovano in letteratura, al momento, dati paragonabili a quelli ricavati in questo lavoro. I due esperimenti di grazing hanno dato risultati discordanti: nel primo caso Ostreopsis viene predata, nel secondo caso non si verifica alcun decremento in presenza dei copepodi. Tali discordanze potrebbero essere correlate alle diverse specie di predatori utilizzate nei due esperimenti: copepoditi di Acartia in giugno e Centropages a settembre. Purtroppo in questi esperimenti si devono utilizzare i copepodi presenti in maniera dominante al momento del campionamento. Gli organismi inoltre devono rimanere vitali e devono essere inseriti nelle bottiglie da incubazione in numero tale da garantire che gli effetti della predazione sul popolamento naturale, arricchito con coltura di Ostreopsis, siano statisticamente significativi. A conclusione di questo primo studio si è svolto nel mese di aprile 2010 un ultimo esperimento nel quale è stata utilizzata soltanto coltura di Ostreopsis. E’ stato fatto un campionamento di mesozooplancton raccolto con rete WP2 mediante retinata orizzontale della durata di circa 10 min. coprendo circa 400 m di superficie nel Golfo di Trieste. Il mesozooplancton raccolto è stato ben distribuito in due barattoli da 4 L aggiungendo acqua di mare allo scopo di mantenere gli organismi vitali. I campioni sono stati mantenuti al fresco ed immediatamente portati in laboratorio per l’allestimento dell’esperimento. La coltura di Ostreopsis è stata fornita dal laboratorio OGS (dott.ssa Marina Monti). In laboratorio, attraverso l’osservazione al microscopio binoculare Leica MZ6 ad ingrandimento pari a 40X sono stati selezionati gli organismi mesozooplanctonici più rappresentativi della comunità presente al momento del campionamento (copepoditi di calanoidi Centropages, Acartia e Corycaeus). 50 ml della coltura di Ostreopsis sono stati messi in 12 piccoli cristallizzatori in vetro. In ognuno di questi sono stati aggiunti gli organismi selezionati in numero di 2-4 al massimo. I cristallizzatori sono stati messi su un piano basculante al fine di mantenere la microalga in sospensione per circa 3 ore. Alla fine delle 3 ore da ogni campione sono stati recuperati i copepodi che sono stati sciacquati con acqua distillata, asciugati e posti a -20° C in attesa dell’analisi che è stata condotta presso il laboratorio di genetica dell’Università di Trieste allo scopo di predisporre una sonda per identificare il DNA di Ostreopsis ovata all’interno dei copepodi. L’ultimo capitolo della mia tesi è relativo all’elaborazione di una serie di dati derivanti da 8 esperimenti volti a studiare il ruolo trofico del microzooplancton nel Mare di Ross (Antartide). I dati raccolti derivano dall’analisi di campioni di acqua di mare raccolta durante varie campagne Antartiche, in diverse zone nel Mare di Ross, così schematizzati: Esp.1 anno 1997 al largo del Mare di Ross; Esp. 2 anno 1997 polynya di Baia Terra Nova; Esp. 3 anno 2000/01 polynya di Baia Terra Nova; Esp. 4 e 5 anno 2000/01 al largo del Mare di Ross; Esp.6 anno 2003 polynya di Baia Terra Nova; Esp. 7 anno 2003 Mare di Ross; Esp. 8 anno 2005/06 polynya di Baia Terra Nova. I dati relativi alla predazione del microzooplancton sul comparto fitoplanctonico sono stati ottenuti applicando il metodo delle diluizioni come precedentemente descritto. Il microzooplancton gioca un ruolo importante nel microbial-loop come predatore principale del nano e picoplancton e nella catena del pascolo come predatore di fitoplancton di cui è capace di consumare anche il 100% della produzione giornaliera. Rappresenta inoltre il principale veicolo di trasferimento energetico dalla catena microbica a quella del pascolo in quanto viene attivamente predato dal mesozooplancton. Questo modello è applicabile anche alle acque antartiche; molti studi infatti hanno identificato nei predatori microeterotrofi la chiave del sistema marino antartico. La predazione selettiva esercitata dal microzooplancton controlla diversi elementi della comunità fitoplanctonica. I produttori pico e nanoplanctonici spesso dominano gli stadi successivi del bloom fitoplanctonico antartico contando per più dell’80-90% della produzione totale autotrofa. L’elaborazione dei dati ha evidenziato una generale predazione sul fitoplancton totale negli Esp. 3-4-5-7. Negli altri esperimenti non si verifica predazione sul fitoplancton totale. Nell’esp. 3 si verifica predazione anche sul genere Fragilariopsis, che risulta essere il più abbondante. In questo caso il tasso di ingestione risulta essere piuttosto alto ~ μgCL-1d-1. Nell’Esp. 4 c’è predazione sui generi Corethron e Pseudonitzschia. La predazione sul comparto nanoplanctonico è presente solamente nell’Esp.7. Negli esperimenti 3 e 4, dove si verifica predazione, il valore di k > g indica che nonostante ci sia predazione, il microzooplancton non riesce a controllare efficacemente la crescita delle prede. Nell’Esp. 4 invece g > k indica un efficace top down control sulla crescita delle prede. Un aspetto presente in quasi tutti gli esperimenti è dato da una condizione di saturazione al 100% della crescita apparente. L’assunzione critica all’approccio delle diluizioni è che i predatori consumano le loro prede in proporzione diretta rispetto alla loro densità e che il livello naturale della disponibilità di cibo è tale che i tassi di ingestione di questi organismi non siano in saturazione. I campionamenti effettuati in Antartide sono avvenuti in periodi di fioritura algale e quindi di abbondanza di prede. In questo caso, con concentrazioni di cibo molto alte, ogni predatore mangerebbe un numero costante di prede indifferentemente dall’effetto delle diluizioni sulla densità delle prede. Quando si analizza l’acqua tal quale le abbondanze fitoplanctoniche sono talmente alte che i predatori non riescono a consumare tutto il fitoplancton disponibile, la correlazione tra biomassa e predazione non è più lineare e si osserva una condizione di saturazione. I risultati di questi esperimenti sono serviti a dare un contributo allo studio globale dei flussi di carbonio all’interno del sistema pelagico in aree antartiche utilizzando il protocollo delle diluzioni. Questo protocollo, ormai collaudato e di semplice allestimento, non prevede alcuna manipolazione degli organismi e soprattutto, come dimostrato in questo lavoro di tesi, può essere utilizzato con successo in ambienti diversi, da quelli temperati a quelli più estremi come l’Antartide. Si è dimostrato inoltre valido strumento per identificare i trasferimenti di alghe tossiche (Ostreopsis ovata) o delle sole tossine lungo la rete trofica pelagica allo scopo di monitorare i rischi della tossicità algale nei mari italiani.
XXIII Ciclo
1965
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14

Legovini, Sara. « Ecologia trofica di sardina Sardina pilchardus (Walbaum, 1792) ed acciuga Engraulis encrasicolus (Linnaeus, 1758) nel Golfo di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3163.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
Scopo della presente tesi è contribuire a colmare le importanti lacune relative all’ecologia trofica di Engraulis encrasicolus e Sardina pilchardus nel Golfo di Trieste, in modo da fornire conoscenze indispensabili alla gestione di tali risorse ittiche. Il materiale utilizzato per questa tesi è stato raccolto nel corso di sette campionamenti realizzati nell’ambito del progetto EcoMAdr (Ecologia del Mar Adriatico), tra maggio 2006 e febbraio 2007 nel Golfo di Trieste. Sebbene siano stati effettuati sette campionamenti, solo 5 di questi hanno fornito materiale sufficiente per lo studio del ritmo e del fabbisogno alimentare di sardina e di acciuga. I risultati ottenuti confermano che anche nel Golfo di Trieste l’attività alimentare di esemplari adulti di S. pilchardus è principalmente diurna, con picchi massimi in prossimità del tramonto. L’analisi del contenuto stomacale ha evidenziato che S. pilchardus è una specie zooplanctivora, che si nutre in prevalenza di Copepodi, quali Centropages spp., i Copepodi della famiglia Clauso-Paracalanidae, i Ciclopoidi Oncaea spp. ed Oithona spp., sebbene anche altre categorie di zooplancton, come Tintinnidi e larve di Decapodi siano, in certe occasioni, state trovate in quantità abbondanti, e che ricava dallo zooplancton la quasi totalità del carbonio ingerito. Nel contenuto stomacale dei campioni di sardina esaminati sono state ritrovate anche cellule fitoplanctoniche, sebbene le quantità non sono mai state abbondanti quanto quelle trovate nelle sardine di altre aree geografiche. Il fatto che all’interno dei contenuti stomacali siano state rinvenute prede di una vasta gamma di taglie (da 20 μm a >1400μm) fa supporre che la sardina catturata nel Golfo applichi due strategie alimentari diverse, la filtrazione (filter feeding) e la predazione visiva (particualte feeding). Tuttavia, sebbene la presenza di microorganismi nei contenuti stomacali avvalori il fatto che sardina riesca a filtrare e trattenere prede di piccole dimensioni, l’applicazione dell’indice di selettività di Ivlev (1955), dimostra che ha adottato un comportamento selettivo anche nei confronti di prede di piccole dimensioni, quali i copepodi Corycaeus spp. e Oncaea spp., ma non si sia alimentata di cladoceri nonostante questi fossero abbondantemente presenti nell’ambiente. A nostra conoscenza, al momento non esistono studi, oltre al presente lavoro di tesi, dedicati alla valutazione del fabbisogno alimentare di S. pilchardus, che espresso in termini di percentuale, ha un valore pari a 2.2%-2.8% di peso corporeo. I risultati ottenuti in questo studio confermano che l’attività alimentare di E. encrasicolus è fondamentalmente diurna, nonostante un certo livello di attività esista anche durante le prime ore dopo il crepuscolo. L’analisi dei contenuti stomacali ha confermato che E. encrasicolus è una specie prettamente zooplanctivora, che si nutre in prevalenza di piccoli copepodi (Oncaea spp. e Corycaeus spp.). Sebbene studi condotti in altre aree geografiche hanno evidenziato come questa specie possa nutrirsi occasionalmente di fitoplancton, la ricostruzione del contenuto in carbonio delle prede di E. encrasicolus, ha permesso di evidenziare che nel Golfo di Trieste la specie ottiene dallo zooplancton la totalità del carbonio ingerito. I dati relativi al fabbisogno energetico di esemplari adulti di E. encrasicolus presentati in questo lavoro, rappresentano la prima stima calcolata per le acciughe catturate nel Golfo di Trieste. Il fabbisogno alimentare giornaliero, espresso in termini percentuali, è pari al 1.2%-1.9% del suo peso corporeo (espresso come peso umido), di gran lunga inferiore a quanto osservato in precedenti studi presenti in letteratura.
XXI Ciclo
1977
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15

Minocci, Marco. « Studio dell'alimentazione di Mytilus Galloprovincialis (Lamark, 1819) e del suo impatto sull'ecosistema pelagico del golfo di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4565.

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Résumé :
2009/2010
Scopo della ricerca è stata la stima dell’alimentazione di Mytilus galloprovincialis (Lamarck, 1819) in termini quali-quantitativi, al fine di valutare l’impatto delle mitilicolture sull'ecosistema pelagico del Golfo di Trieste nell’ambito del progetto SosteMiTs (Sostenibilità della Mitilicoltura Triestina). L’alimentazione dei mitili è stata studiata mediante l’analisi dei contenuti stomacali al fine di individuare le prede preferenziali del mitilo. Tali analisi sono state integrate da informazioni sulle abbondanze dei diversi gruppi planctonici in colonna d’acqua per definire l’eventuale selettività e le preferenze trofiche nelle diverse stagioni e da analisi qualitativa sulle feci prodotte in laboratorio per la stima degli organismi digeriti dal mitilo. Il lavoro è stato effettuato sia tramite raccolta di dati in campo che con prove sperimentali di laboratorio. Tutte le analisi sono state eseguite presso il Dipartimento di Oceanografia Biologica (BIO) dell’ OGS di Trieste. L’analisi dei campioni d’acqua ha sottolineato il significativo impatto dei mitili sul popolamento planctonico sia in termini di abbondanza che di biomassa. La dieta dei molluschi è risultata molto varia, comprendendo un ampio spettro di prede sia dal punto di vista qualitativo (111 taxa) che dimensionale (tra circa 4.7 µm e 700 µm). La maggior parte degli organismi osservati nei contenuti stomacali è risultata appartenere alla componente autotrofa del popolamento planctonico ma è stata evidenziata l’importanza della componente eterotrofa micro- e mesozooplanctonica. I risultati delle analisi dei contenuti stomacali comparati alla disponibilità nell’ambiente naturale hanno evidenziato una selezione positiva nei confronti di alcune specie di diatomee, di dinoficee e di altri gruppi di protozoi ed una negativa per altre diatomee come Chaetoceros e Bacteriastrum (coloniali e provviste di setae) e di un unico dinoflagellato (Ceratium). Gli esperimenti condotti in laboratorio hanno permesso di stimare il volume filtrato dal mitilo, valori compresi tra 0.8 e 5 L/h, che è risultato correlato essenzialmente con la densità della preda offerta.
XXIII Ciclo
1976
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16

Russo, Annabella. « Sviluppo di metodiche di mutagenesi ambientale a breve termine applicate a materiale vegetale ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4573.

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Résumé :
2009/2010
Il crescente inquinamento sta deteriorando sempre più il mondo in cui viviamo. Per studiare l’alterazione ambientale in modo completo è importante analizzare le emissioni da un punto di vista chimico-fisico, ma anche valutare il danno arrecato all’intero ecosistema. Perciò si impiegano sempre più spesso gli esseri viventi quali biomonitor di danno subito da un ambiente poiché sono capaci di reagire a stimoli complessi, talvolta sconosciuti, e danno informazioni più complete sulla qualità di un ecosistema rispetto a quelle fornite dai metodi tradizionali. Tra le emissioni inquinanti un ruolo particolare è occupato dalle sostanze mutagene capaci di modificare in modo stabile l’informazione genetica sia a livello di geni che di struttura e numero di cromosomi. I test capaci di identificare rapidamente mutazioni geniche e cromosomiche sono detti test di mutagenesi a breve termine. Nel percorso di dottorato ho sperimentato l’applicabilità di due test di mutagenesi ambientale: Tradescantia micronuclei test (Trad-MCN) e Comet test o Elettroforesi su Gel a Singola Cellula (SCGE), approfondendo alcune problematiche metodologiche. Tradescantia micronuclei test (Trad-MCN) Con Tradescantia micronuclei test (Trad-MCN) è possibile rilevare la presenza di micronuclei come indice di avvenuto danno al DNA nelle cellule del polline in piante del genere Tradescantia. Il test utilizza il clone  4430, ottenuto dall’incrocio di Tradescantia hirsutiflora e Tradescantia subacaulis. Alcuni esemplari del clone mi sono stati forniti dalla dott.ssa Maddalena Casera del Laboratorio Biologico dell’Agenzia Provinciale per la Protezione dell’Ambiente e la Tutela del Lavoro di Laives (BZ). Il clone, nel periodo invernale, è conservato all’interno di una serra dell’Orto Botanico dell’Università degli Studi di Trieste, a una temperatura di 24°C sotto una lampada a che riproduce un fotoperiodo di 16 ore di luce e 8 di buio. Nel periodo estivo, invece, il clone viene mantenuto all’esterno. Con le infiorescenze ottenute dal clone ho effettuato alcune prove di Trad-MCN test per comprendere a quale stadio si avessero le maggiori probabilità di osservare le tetradi polliniche. Inoltre ho effettuato due esposizioni di 15 infiorescenze ciascuna in un sito con elevate concentrazioni di IPA aerodispersi. Tale sito è ubicato in Piazza Garibaldi nel centro di Trieste, in una zona interessata da intenso traffico veicolare. Esaminando il contenuto delle antere e dividendo il numero totale di micronuclei per il numero totale di tetradi osservate si è definita la frequenza dei micronuclei, espressa come micronuclei/100 tetradi (MCN/100 tetradi). Per ogni esposizione si osservano 5 preparati e in ognuno si contano almeno 300 tetradi. Confrontando la media delle frequenze ottenute dalle infiorescenze esposte nel sito potenzialmente inquinato (media =5.44; σ =10.66 per la prima esposizione e media =5.54; σ =3.38 per la seconda esposizione) con quelle ottenute dal controllo (media =0.22; σ = 0.38 per la prima esposizione e media =1.00; σ = 0.32 per la seconda esposizione) si è potuta avere una conferma della compromissione dell’area esaminata. Le problematicità nell’utilizzo di questo protocollo riguardano per lo più la moltiplicazione delle piante e la loro protezione dagli attacchi dei parassiti. In questo senso sarebbe necessario affidare la lunga fase di moltiplicazione e cura delle piante a una struttura esterna, o avere a disposizione personale specializzato. La mancanza di un finanziamento ha impedito di estendere l’indagine sul territorio, com’era stato originariamente programmato. Comet test o Elettroforesi su Gel a Singola Cellula (SCGE) Il Comet test consente di studiare gli effetti causati da agenti mutageni su materiale genetico, permettendo di valutare il danno al DNA che si rileva come rotture dello scheletro fosfodiesterico in nuclei isolati da cellule eucariotiche. Tramite una corsa elettroforetica si evidenzia la disgregazione del DNA che assume la tipica forma di una cometa. La lunghezza della coda della cometa è proporzionale al danno subito dalla cellula. Tale test può essere eseguito su un numero basso di cellule (da alcune centinaia a poche migliaia) e con tempi di esecuzione e analisi di poche ore. Il protocollo che ho sperimentato è stato messo a punto dalla dott.ssa Patrizia Cesaro presso il Laboratorio di Biologia Vegetale del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Vita (Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”- Alessandria) al fine di verificare l’eventuale compromissione di alcuni terreni provenienti da siti contaminati della provincia di Alessandria. La specie biomonitor che ho utilizzato è Vicia faba cv lunga delle cascine poiché facile da riprodurre, largamente usata per analizzare la mutagenicità di pesticidi, sostanze cancerogene e composti cromati e in grado di tollerare suoli salini. I semi di V. faba sono fatti germinare in capsule Petri del diametro di 15 cm. Ogni capsula contiene 22.5 g di sabbia di quarzo come materiale inerte (o di terreno potenzialmente contaminato da analizzare), 1 disco di carta bibula, 20 ml di acqua distillata sterile e 8/10 semi di V. faba (protocollo UNICHIM Metodo 1651-2003). Le capsule sono conservate in un termostato a 20-22°C. Il test prevede l’estrazione di nuclei da apici radicali di V. faba della lunghezza di circa 2 cm. La soluzione contenente i nuclei, opportunamente filtrata, è miscelata con gel di agarosio a basso punto di fusione e poi depositata su vetrini portaoggetti preventivamente trattati con gel di agarosio a normale punto di fusione. I vetrini così preparati sono sottoposti a una corsa elettroforetica (300 mA, 15 V) che permette la migrazione del DNA, carico negativamente, verso il polo positivo. La velocità di migrazione dipende dal peso molecolare: le molecole di DNA più piccole e compatte passeranno attraverso la matrice di agarosio più rapidamente rispetto ai frammenti più grandi. Terminata la corsa elettroforetica e previa colorazione si passa all’osservazione dei vetrini al microscopio ottico a fluorescenza: in caso di frammentazione del DNA, dovuta alla presenza di agenti mutageni, i nuclei non si presentano in forma compatta e tondeggiante bensì mostrano una cometa di lunghezza più o meno estesa. Le immagini al microscopio sono analizzate con il programma Comet Score in grado di calcolare tutta una serie di parametri quali: lunghezza della coda della cometa (in pixel), % di DNA nella coda della cometa, Tail moment e Olive moment. Il metodo Unichim per le germinazioni non prevede il contatto diretto tra radichetta e terreno. Il seme germinante riceve l’acqua per capillarità. Queste condizioni espongono potenzialmente i risultati ad una serie di artefatti in quanto si può ipotizzare che le sostanze idrosolubili si concentrino, per evaporazione, a livello della carta bibula e quindi in prossimità del seme. Le sostanze idrofobe, invece, potrebbero non entrare in contatto con l’apice radicale. E’ da sottolineare, inoltre, che la parte apicale delle radici interagisce in modo molto complesso con la rizosfera, ad esempio con la secrezione di ioni e molecole, alcune delle quali hanno lo specifico compito di aumentare la solubilizzazione di alcuni minerali del suolo, migliorando la nutrizione minerale della pianta. Sulla base di queste considerazioni, si è ritenuto interessante verificare eventuali differenze tra i risultati di Comet test effettuati su apici radicali cresciuti su carta bibula (protocollo standard) e Comet test effettuati alle medesime condizioni sperimentali su apici radicali a diretto contatto con il terreno ed immersi in esso. Al fine di trovare un terreno idoneo ad essere usato come bianco, ho eseguito alcune prove del test su semi cresciuti su terricci di diversa composizione, con le due modalità di germinazione appena descritte: • terriccio universale commerciale (torba, fibre lignee e cellulosiche, ammendante, concime organico, N 9%, P 6%, K 14%); • terriccio per agrumi commerciale (torba, letame e miscela di materiali vegetali); • terreno argilloso proveniente dalla pedemontana pordenonese nei pressi di Budoia (PN); • composta da semi J. Innes formulata dall’omonimo istituto inglese (2 parti di argilla di Budoia, 1 parte di torba irlandese e 1 parte di sabbia di quarzo); • terreno flyshoide sottoposto a biorimedio proveniente dal Parco di San Giovanni (TS). Il terriccio per agrumi e la composta Innes non sono consoni all’utilizzo come controllo a causa dei valori elevati di lunghezza della coda e percentuale di DNA nella coda dei nuclei isolati. Sarebbe interessante effettuare delle analisi chimiche al fine di comprendere se i problemi riscontrati sono dovuti alla presenza di metalli pesanti e/o acidi umici. Il terreno argilloso, il terriccio universale e quello flyshoide sottoposto a biorimedio hanno dato risultati migliori e, tra questi, si è scelto di usare il terzo poiché di esso si possiede un’analisi chimica dettagliata che conferma l’assenza di contaminazioni significative, sia di metalli pesanti che di composti organici.. I terreni potenzialmente contaminati elencati di seguito, sono stati valutati con entrambe le modalità di germinazione, usando come controllo il terreno proveniente dal Parco di San Giovanni - Trieste. Il primo terreno considerato proviene da un carotaggio eseguito sul litorale di Muggia - Trieste (sito denominato “Acquario”) dal Centro Interdipartimentale di Gestione e Recupero Ambientale (CIGRA) di Trieste, nell’ambito di un progetto di caratterizzazione e messa in sicurezza di un terrapieno artificiale formato con materiale di incerta origine. I campioni sono denominati con le seguenti sigle: SC-12A, SC-12B, SC-12C dove ‘SC’ indica che il carotaggio è avvenuto in zona costiera, ‘12’ fa riferimento al sito campionato e le lettere ‘A’, ‘B’, ‘C’ si riferiscono alle tre profondità di campionamento (‘A’: piano di campagna, ‘B’ un metro di profondità rispetto a ‘A’, ‘C’ livello medio del mare). Per quanto riguarda il campione A, i risultati delle analisi chimiche e del Comet test sono concordanti: tra i tre campioni di terreno questo campione è senza dubbio il meno compromesso. Emerge, tuttavia, una differenza tra i due protocolli: gli apici radicali cresciuti in capsule Petri mostrano un danno maggiore rispetto a quelli cresciuti a diretto contatto del suolo. Le analisi chimiche hanno evidenziato in questo la presenza di alte concentrazioni di Cobalto, Cromo e Nichel, tutti elementi idrosolubili. Queste sostanze si possono muovere, trasportate dall’acqua, fino a depositarsi tra le maglie della carta bibula quando il soluto è evaporato. Ne consegue una maggiore possibilità d’interazione tra queste sostanze e gli apici stessi. Il campione B mostra, da un punto di vista chimico, una compromissione maggiore rispetto al campione C. In entrambi i casi, la modalità di esposizione degli apici radicali influisce sui risultati: gli apici cresciuti a diretto contatto con il suolo mostrano maggiore compromissione rispetto a quelli cresciuti in capsule Petri. Dalle analisi chimiche emergono concentrazioni elevate di PCB e IPA che sono sostanze poco solubili in acqua, che non si muovono quindi per capillarità. Tali sostanze restano nel terreno e non si concentrano sulla carta bibula, che funge da barriera. Ciò non avviene per i semi che germogliano nei vasetti, con le radichette a diretto contatto del campione di suolo e delle sostanze in esso presenti. Sono stati esaminati anche altri campioni con analisi chimica nota: un terreno proveniente dall’area Caffaro di Torviscosa (UD) compromesso dalla presenza di metalli pesanti e un terreno proveniente dal Parco di San Giovanni (TS) con pesante contaminazione organica. In entrambi i casi si è avuta conferma del fenomeno: la crescita su carta bibula comporta una sovrastima della contaminazione da sostanze idrosolubili mentre porta ad una sottostima di quella indotta da composti scarsamente idrosolubili. Si può ipotizzare che le sostanze idrosolubili, come nel nostro caso gli ioni metallici, tendano ad accumularsi in prossimità degli apici radicali sulla carta bibula poiché questa agisce da superficie evaporativa. Ne consegue una sovrastima del danno rispetto alla reale biodisponibilità nel suolo. Al contrario, sostanze poco idrosolubili come PCB e IPA non sono traslocate e concentrate per cui la modalità espositiva sulla carta bibula comporta una sottostima degli effetti della loro presenza nel suolo. Inevitabilmente, lavorare con apici radicali che sono cresciuti a diretto contatto con il terreno comporta tempi di esecuzione del test più lunghi. Le particelle di terreno più grossolane devono essere allontanate, e gli apici attentamente lavati. Tuttavia si può affermare che questa metodica dà risultati più veritieri, a differenza di quella standard, comunemente impiegata in molte indagini di caratterizzazione ambientale, che sovrastima, o peggio, sottostima la reale compromissione della matrice analizzata.
XXII Ciclo
1974
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17

Sesso, Michela. « Fitorimedio di idrocarburi policiclici aromatici : studi di rizodegradazione e biodisponibilità ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4589.

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Résumé :
2009/2010
Questo studio nasce idealmente vent’anni fa, quando il Prof. Pier Paolo Puglisi, genetista dell’Università di Parma e uomo di estrema cultura e lungimiranza discute allora il tema del fitorimedio come possibilità per dar risposta a stati alterati dell’ambiente. In uno dei suoi testi 1789-1989 Abbiamo preso al Bastiglia disinquiniamola, discute di piante sì come “sentinelle” ambientali, ma anche piante come soluzioni a problemi rilevanti determinati dall’impatto antropico. È a seguito della lettura del succitato testo che prende inizio questo studio articolato su diversi piani di ricerca, tutti volti a descrivere e cercare delle possibili indicazioni per la risoluzione di un problema di contaminazione pregressa. Il sito che ha fornito il materiale per svolgere le sperimentazioni è inserito nel parco che ha ospitato la principale struttura psichiatrica di Trieste. Complessivamente l’area contaminata riporta una superficie di 3 ettari di terreno, attualmente perimetrata ed interdetta all’accesso dal D.Lg 152/2006. L’inquinamento è stato provocato dalle attività di combustione di materiali solidi prodotti all’interno dell’ex ospedale psichiatrico. Nella struttura è presente una centrale termica ad oggi alimentata a gasolio, ma originariamente funzionava a carbone. Tale centrale serviva solo per gli edifici collocati nella parte alta del comprensorio. Gli edifici collocati a valle erano dotati ciascuno di una piccola centrale termica a carbone, ognuna con le proprie necessità di smaltire ceneri di combustione. I processi di incenerimento sono stati protratti nel tempo per un periodo che va dal 1961 al 1977. Lo scopo del presente lavoro è stato valutare l’applicabilità della pratica del fitorimedio per la mitigazione della contaminazione invecchiata e cronicizzata nel contesto del parco. Si è voluto affrontare uno studio in pieno campo per testare l’efficacia di due specie erbacee, Medicago sativa L. e Vetiveria zizanioides L. nella rizodegradazione di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), in un’area moderatamente contaminata. Vetiveria zizanioides L. è una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Poaceae, originaria dell’India settentrionale. È una pianta che ben si adatta alle situazioni climatiche e pedologiche più estreme. L’apparato radicale è in grado di sviluppare un “muro di radici”, che può spingersi fino a profondità superiori ai 5 metri. Viene ampiamente utilizzata nell’ingegneria naturalistica. Medicago sativa L., appartiene alla famiglie delle Fabaceae, specie largamente usata in agricoltura per la produzione di foraggio; è ampiamente discusso in bibliografica l’effetto di questa pianta come rizodegradatrice di contaminanti organici e come pianta avente effetti positivi sulla qualità del suolo. In secondo luogo si è voluto realizzare una sperimentazione con Medicago sativa L. in condizioni maggiormente controllate, riducendo la scala sperimentale e lavorando in serra, ma affrontando un maggiore livello di contaminazione. Essendo nota la scarsa biodisponibilità degli IPA, in una terza parte della tesi si è mirato a verificare se una contaminazione difficilmente aggredibile dalle tecniche di rizodegradazione, possa essere bioaccumulata e mobilizzata da organismi viventi, impiegando un animale che tipicamente si nutre ingerendo il suolo. Nella sperimentazione sono stati impiegati lombrichi della specie Eisenia andrei, facilmente allevabili e reperibili commercialmente. Questi diversi approcci rivolti alla valutazione delle interazioni tra organismi viventi, contaminanti e comparti ambientali mirano a sviluppare una conoscenza che consenta di mitigare la contaminazione del suolo, risorsa non rinnovabile ed estremamente preziosa, con metodi sostenibili, in situ; si mira anche a conseguire elementi per valutazioni associate al trasferimento dei contaminanti nell’ambiente che tengano conto non soltanto della tutela della specie umana, ma anche di altri organismi, nel contesto di una analisi di rischio ecologico. I risultati sinora acquisiti appaiono incoraggianti, ed in particolare i dati ottenuti dalla sperimentazione in pieno campo, effettuata in condizioni di contaminazione moderata, riportano riduzioni significative (dall’80 al 100%), e il rientro in condizioni inferiori alle “concentrazioni soglia di contaminazione” indicate dalla norma nazionale vigente. La sperimentazione in serra, effettuata considerando una contaminazione più elevata, ha evidenziato alcuni limiti non mostrando una mitigazione dell’inquinamento. È emersa la necessità di un miglior controllo di possibili contributi esterni alla contaminazione come ad esempio le deposizioni su suolo e piante di IPA aerodispersi. La capacità di intercettare contaminanti aerodispersi da parte degli apparati fogliari, in particolare in prossimità di direttrici di traffico, ha aperto una nuova linea di ricerca nell’ambito delle fitotecnologie, volta all’ottimizzazione di “barriere verdi” per particolato atmosferico ed IPA. L’ipotesi di scarsa mobilità attribuita a contaminazioni invecchiate di IPA pesanti, è stata confutata, nel caso considerato, dal test di bioaccumulo con Eisenia andrei. Disporre di dati sul contenuto totale della contaminazione di un suolo non è sufficiente per valutare il rischio ecologico che queste sostanze possono comportare. La disponibilità di una sostanza dipende dalle condizioni chimico-fisiche del terreno (es. pH, contenuto di argilla, capacità di scambio cationica, quantità di materia organica) e dalle caratteristiche del composto. Per valutare l’effettivo stato di contaminazione di un suolo in relazione alla sua potenziale pericolosità per gli esseri viventi, devono essere utilizzati dei test biologici che permettono di valutare l’effettiva tossicità dei contaminanti. Il fitorimedio appare una promettente tecnologia per dare risposta a stati alterati dell’ambiente. Si è constatato che l’approccio alla risoluzione dei problemi in campo ambientale deve esser considerato come un approccio multidisciplinare, dove diverse competenze (biologiche, chimiche, agronomiche, gestionali, etc.) scelgono di compartecipare ai fini di una progettazione il più esaustiva possibile, e di portare a soluzione i processi di mitigazione della contaminazione e di rinaturalizzazione. In particolare per quel che riguarda interventi sul sito di San Giovanni “ex-OPP” si ritiene utile implementare lo studio iniziato con degli approfondimenti rispetto al territorio: appare necessaria una elaborazione vegetazionale del sito, la quale potrebbe fornire indicazioni di maggior dettaglio per l’identificazione delle specie più adatte alla fitobonifica del sito. In questo contesto appare necessaria un’interlocuzione con legislatori in campo ambientale, e amministratori pubblici ai fini di identificare percorsi istituzionali per poter promuovere tecniche di bonifica e messa in sicurezza sostenibili come quelle proposte dal fitorimedio.
XXIII Ciclo
1978
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18

Gerdol, Marco. « Un approccio trascrittomico per delineare i meccanismi molecolari alla base della risposta del mitilo Mytilus galloprovincialis a patogeni e alla contaminazione da biotossine algali ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7383.

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Résumé :
2010/2011
L’avvento delle tecniche di sequenziamento di nuova generazione ha reso recentemente disponibile l’opportunità di analizzare su scala genomica e trascrittomica organismi non modello, anche nel caso in cui virtualmente non sia disponibile alcuna informazione pregressa. Il mitilo mediterraneo Mytilus galloprovincialis è un organismo di grande importanza economica ed è considerato un utile bioindicatore, ma nonostante ciò fino a questo momento gli studi molecolari sono stati fortemente limitati proprio dalla limitata conoscenza genomica di questo importante bivalve. In questa tesi sono state utilizzate tecniche di sequenziamento di nuova generazione per analizzare la risposta del mitilo a biotossine algali paralitiche (PSP) su scala trascrittomica a livello della ghiandola digestiva. L’enorme mole di dati di sequenza ottenuti ha permesso di studiare in modo approfondito alcune famiglie di geni di grande importanza nella risposta immune del mitilo. In particolare sono state individuate e descritte l’ampia famiglia di lectine C1q-like, coinvolte nel riconoscimento dei patogeni, e due nuove famiglie di peptidi antimicrobici, le big defensine e le mitimacine.
XXIV Ciclo
1984
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19

Bradassi, Fulvia. « Determining a threshold in effect of ocean acidification on crustose coralline algae (including a case study to teach at school) ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7857.

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Résumé :
2010/2011
The recent and steady CO2 increase, mainly due to human activities, causes a shift in the chemical equilibrium of the carbonates dissolved in sea-water, which results in a lowering of pH level. This phenomenon, known as ocean acidification, interacts with many physiological processes, including, calcification due to biological factors. Plenty of consequences can affect both the ecosystem and the human society; the latter benefits from goods and services produced by the ecosystem itself, such as fishing, shoreline protection, landscape, tourist and recreational activities. It seems there isn’t much awareness of all of this. The study of the effect of acidification on coralline algae (Corallinales) is of primary importance for the comprehension of the consequences at ecosystem level, since the Corallinales represent one of the key groups in the formation of submerged habitats, but also because they’ve proven to be some of the most responsive to acidification. The question that was tried to answer is whether the calcareous algae can be resilient towards acidification and, if that is so, which is the threshold value beyond which that ability expires. In this analysis, particular attention has been paid to reproductive phases, that represent a de facto sensitive point in the life cycle.
Il recente e costante aumento della CO2 dovuto principalmente alle attività antropiche provoca un’alterazione dell’equilibrio chimico dei carbonati disciolti nell’acqua marina, che si traduce in un abbassamento del pH. Questo fenomeno, noto come ocean acidification, interagisce con numerosi processi fisiologici fra cui, in primis, la calcificazione di origine biologica. Numerose potrebbero essere le conseguenze sugli ecosistemi, e quindi anche sulla società umana, che usufruisce di beni e servizi prodotti dagli ecosistemi stessi, come la pesca, la protezione della linea di costa, il paesaggio e le attività turistico - ricreative. Di tutto questo non sembra esserci in realtà grande consapevolezza. Lo studio degli effetti dell’acidificazione sulle alghe rosse calcaree (Corallinales) è di primaria importanza nella comprensione delle conseguenze a livello di ecosistema, in quanto le Corallinales rappresentano uno dei gruppi chiave nella formazione di habitat sommersi, ma anche perché esse si sono rivelate fra gli organismi più sensibili all’acidificazione. Il quesito di fondo a cui si è cercato quindi di dare una risposta è quale sia la resilienza da parte delle alghe calcaree nei confronti dell’acidificazione e quale possa essere il valore soglia al di là del quale tale capacità venga meno. In questa analisi, particolare attenzione è stata rivolta alle fasi riproduttive, che potrebbero rappresentare la fase più sensibile nel ciclo vitale.
XXIV Ciclo
1969
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20

Di, Poi Elena. « Microzooplankton grazing impact along a trophic gradient from the atlantic ocean to the western mediterranean sea ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3514.

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Résumé :
2008/2009
Nell'ambito della crociera transmediterranea facente parte del progetto V.E.C.T.O.R. è stato quantificato il flusso di carbonio che veicola attraverso le reti trofiche pelagiche tramite la predazione del microzooplancton su un ampio spettro di prede; si è inoltre verificato la selezione delle prede e quantificato la produzione secondaria. Per questa analisi è stato adottato il metodo delle diluizioni introdotto da Landry ed Hassett (1982)che ci permette di stimare sia il tasso di crescita delle prede, che quello di mortalità delle prede indotta da predazione. In concomitanza con gli esperimenti di diluizione,si è valutato la comunità dei predatori con differenti metodi di campionamento e di conservazione dei campioni nonchè, l'attività di predazione del mesozooplancton sul comparto microplanctonico nel Mar Ligure e nel Mar Tirreno. I risultati complessivi della ricerca indicano che in condizioni di estrema oligotrofia nelle quali è avvenuta la crociera nell'estate 2007, il flusso di carbonio di maggiore entità che fluisce attraverso il comparto microzooplanctonico deriva dalle biomasse dei batteri eterotrofi, che sono le uniche consistenti in tutta l'area. Nanoplancton e microfitoplancton, contribuiscono scarsamente alla dieta del microzooplancton. Dallo studio quali-quantitativo del microooplancton si evince che la rappresentazione migliore in termini di ricchezza si ottiene con maggiori volumi di campionamento (5 L, conservati in formalina al 2%) mentre, l'abbondanza più rilevante si riscontra quando i campioni (300 mL) vengono conservati in soluzione di Lugol al 2%. I campioni ottenuti dall'esperimento di diluizione (2 L, conservati in formalina al 2%) offrono nel complesso la miglior rappresentazione della comunità dei predatori. Nel Mar Ligure, il calanoide Centropages esercita il suo impatto di predazione sia sul comparto microzooplanctonico che su quello microfitoplanctonico, sebbene sia indirizzato in questo caso, unicamente alla categoria dei dinoflagellati a dimensioni maggiori e ai coccolitoforidi. Nel Mar Tirreno, il ciclopoide Corycaeus esercita la sua selezione unicamente sul comparto microzooplanctonico. Per la stazione tirrenica si registrano valori di export seppur minimi. Nel complesso, sembra che in condizioni di oligotrofia, l'energia trasferita ai livelli trofici superiori sia molto esigua.
In the frame of the V.E.C.T.O.R. project, during the transmediterranean cruise, the carbon fluxes throughout the pelagic trophic webs were quantified by means of the grazing impact of microzooplankton on a wide variety of prey; The selection exerted by microzooplankton on its prey and the secondary production was also estimated. The dilution method introduced by Landry and hassett (1982) was applied to the research. The method assess both the growth of the prey and their mortality induced by grazing. Beside dilution experiments, a quali-quantitative analysis of the predators comunity treated with different fixatives and sampling techniques was performed. In the Ligurian and in the Tyrrhenian Sea, a further examination on mesozooplankton grazing on microplankton assemblages was estimated. Risults confirm that in extreme oligotrophic conditions as those occured during summer 2007, the major carbon flux fuelled through microzooplankton community derived from heterotrophic bacteria, that showed the most abundant biomasses along the sampled stations. Nano- and microphytoplankton were of minor importance in the diet of their direct grazers. From the quali-quantitative analysis of microzooplankton, the best representation in terms of species richness is obtained by means of higher sampling volumes (5 L, fixed in 2% formalin) whereas, the higher abundances were displayed for samples collected in 300 mL and conserved in Lugol's solution. Samples derived from dilution experiments (2 L fixed in 2% formalin) among all, displayed the best representation of the predators community. In the Ligurian Sea, the calanoid Centropages, exerted its grazing impact on both microzooplankton and microphytoplankton; on the latters, the selection is addressed only on dinoflagellates of bigger size and on coccolithophorids. In the Tyrrhenian Sea, the cyclopoid Corycaeus, selects all microzooplankton assemblage but aloricate ciliates. The Tyrrhenian Sea, recorded a minimum export. In oligotrophic conditions, the energy fuelled to the higher trophic levels seems to be very scarce.
XXII Ciclo
1972
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Capriglia, Lorenzo. « Studi sul bioaccumulo di microinquinanti organici ed inorganici tramite Mytilus galloprovincialis in prossimità di un sito costiero contaminato ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3165.

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Résumé :
2007/2008
Durante i tre anni di dottorato sono stati sviluppati degli strumenti utili a definire e ad interpretare il quadro ambientale associato alla presenza sul territorio di sorgenti secondarie non puntiformi come i siti inquinati ubicati sulla linea di costa. A tal fine sono stati ottimizzati e validati 2 metodi veloci e precisi per la determinazione rispettivamente di 51 PCB e 13 pesticidi organoclorurati sui mitili umidi e 12 pesticidi organoclorurati sui mitili liofilizzati. Inoltre sono stati sviluppati degli schemi interpretativi da applicare a risultati sperimentali mediante approfondimenti sugli aspetti fisiologici dei mitili, in termini di ciclo iproduttivo, abitudini alimentari e sistemi enzimatici. Lo studio si è basato su un sito contaminato reale, denominato Acquario, ubicato presso la costa muggesana del Golfo di Trieste; la contaminazione è stata provocata dalla realizzazione di un terrapieno di colmata di circa 28.000 m2, ideato per uno stabilimento balneare; l’imbonimento, eseguito con del terreno inquinato, ha provocato la contaminazione delle acque di falda e del sedimento limitrofo. L’attività di mitilicoltura prospiciente il sito stesso, aggrava la già complessa situazione, introducendo la delicata variabile alimentare/sanitaria nella definizione di un quadro ambientale. In convenzione con l’amministrazione comunale competente, è stato pianificato un monitoraggio per valutare il bioaccumulo su mitili di contaminanti eventualmente rilasciati dal sito inquinato fronte mare. La strategia di monitoraggio è strutturata nei seguenti punti: - Innesto di mitili “puliti” - Campionamento mensile dei mitili - Pulizia, apertura e omogeneizzazione dei campioni - Conservazione in congelatore dei campioni - Analisi per la valutazione del bioaccumulo - Interpretazione dei dati ottenuti Il monitoraggio ha coperto un periodo di 15 mesi. I 2 punti in cui sono collocate le reste hanno le seguenti coordinate: Punto A: 2421130 5051578 (13°43,916’ E, 45°36,631’ N) Punto B: 2420518 5051182 (13° 43,450’ E, 45°36,412’N) I campionamenti mensili sono stati effettuati con la collaborazione del personale del Servizio Territoriale del Dipartimento Provinciale di Trieste dell’ARPA FVG. Inizialmente, il monitoraggio è stato pianificato sui contaminanti massicciamente presenti nel terrapieno, quali IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) e metalli pesanti (piombo e mercurio). Successivamente ci siamo concentrati anche su altri contaminati organici quali i PCB (PoliCloroBifenili) e pesticidi organoclorurati. Le analisi di tredici IPA (fluorene, fenantrene, antracene, fluorantene, pirene, benzo[a]antracene, crisene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a]pirene, dibenzo[a,h]antracene, benzo[g,h,i]perilene e indeno[1,2,3-cd]pirene) sono state effettuate previa estrazione dai mitili con il sistema microsoxhlet, mediante HPLC con rivelatore fluorimetrico. Le analisi di PCB e pesticidi organoclorurati sono state condotte mediante una metodica rapida messa a punto durante la tesi, senza pretrattamento spinto del campione, solvent free e completamente automatizzata tramite la tecnica HS-SPME (Head Space-Solid Phase MicroExtraction) associata alla gas cromatografia con spettrometria di massa. L’analisi impiegata è definita dalle operazioni di seguito descritte: in una vial vengono aggiunti 1 g di mitili freschi con 3 g (NH4)2SO4 e 5 ml di una soluzione al 5% di H2SO4. La vial così preparata viene incubata per 15 minuti sotto agitazione continua alla temperatura di 105°C. In seguito la fibra SPME viene esposta per 40 minuti nello spazio di testa, per consentire l’adsorbimento dei composti in fase vapore; tale operazione viene effettuata sempre a 105°C. La fibra SPME, in copolimero polidimetilsilossano/divinilbenzene (PDMS/DVB) con uno spessore di 65 μm, viene in seguito desorbita termicamente nell’iniettore del gas-cromatografo alla temperatura di 270°C per “liberare” le sostanze e consentire l’analisi cromatografica. L’analisi è completamente automatizzata grazie al sistema GC/MS Agilent (6890/5973) con autocampionatore per SPME Gerstel. Le tarature sono state effettuate mediante l’applicazione di uno spike (o fortificazione). Dodici dei 51 PCB analizzati sono diossina simili; le concentrazioni di tali PCB sono state convertite mediante opportuni fattori di tossicità equivalente (TEF) in equivalenti di tossicità di diossina (TEQ), per confrontare il dato ottenuto con il limite previsto dalla normativa vigente. I pesticidi determinati con la presente analisi sono i seguenti: l’esaclorobenzene, l’eptacloro epossido, l’aldrin, l’endrin, il dieldrin, gli isomeri alfa e gamma del clordano, gli isomeri e metaboliti del DDT (o,p’ DDE, p,p’ DDE, o,p’ DDD, p,p’ DDD, o,p’ DDT, p,p’ DDT). Inoltre è stata messa a punto un’altra analisi sempre in modalità SPME sui seguenti pesticidi organoclorurati: eptacloro epossido, aldrin, endrin, dieldrin, gli isomeri alfa e gamma del clordano e gli isomeri e metaboliti del DDT (o,p’ DDE, p,p’ DDE, o,p’ DDD, p,p’ DDD, o,p’ DDT, p,p’ DDT). L’ottimizzazione ha coinvolto i seguenti parametri: tipo di attacco, temperatura di incubazione/estrazione, tempo di estrazione, tipologia di fibra SPME. La metodica messa a punto è costituita dai seguenti punti: in una vial vengono aggiunti 0,1 g di mitili liofilizzati con 1 g di acetato di sodio e 8 ml di acqua. La vial così preparata viene incubata per 15 minuti, sotto agitazione continua alla temperatura di 130°C. In seguito, la fibra SPME viene esposta per 40 minuti nello spazio di testa, per consentire l’adsorbimento dei composti in fase vapore; tale operazione viene effettuata sempre a 130°C. La fibra SPME, in (PDMS/DVB), viene in seguito desorbita termicamente nell’iniettore del gas-cromatografo alla temperatura di 270°C. Le analisi relative al piombo sono state condotte previa mineralizzazione su 5 g di mitili con 25 ml di acido nitrico seguiti da 5 ml di acido perclorico. La mineralizzazione viene effettuata applicando una rampa di temperatura che mantiene il sistema a 110°C per 1 ora e, in seguito, a 130°C per 2 ore. L’analisi strumentale viene eseguita con il sistema Perkin Elmer 800, cioè assorbimento atomico (AAS)/fornetto di grafite. Per quanto concerne il mercurio, la mineralizzazione viene effettuata a caldo per 30 minuti a riflusso (per evitare perdite del mercurio volatile) con 10 ml di miscela solfonitrica 1÷1. L’analisi strumentale viene successivamente condotta con il sistema a vapori freddi di idruri con AAS (3100 PE). I risultati ottenuti non hanno evidenziato degli sforamenti ai limiti di legge previsti per i mitili quale alimento per benzo[a]pirene, PCB “diossina simili”, piombo, mercurio (regolamento 1881/2006) e pesticidi organoclorurati (D.M. 27/08/2004). I risultati sono di seguito riassunti - i pesticidi organoclorurati analizzati sono sotto i rispettivi limiti di rilevabilità. - il mercurio non presenta bioaccumulo, oscillando su valori che normalmente vengono riscontrati nei mitili del golfo di Trieste. - i valori di piombo presentano una situazione di modesto, ma graduale bioaccumulo - dai dati preliminari dei PCB si evince uno scarso bioaccumulo indice, comunque, della presenza di tali composti nel golfo. - per quanto concerne gli IPA totali, si può evidenziare un bioaccumulo, pur a valori inferiori alle soglie di criticità, soprattutto in certi mesi dell’anno. Tale bioaccumulo, infatti, non si presenta come un aumento costante, ma varia, in prima analisi, con un andamento non prospettato all’inizio di tale studio di monitoraggio. Il bioaccumulo è soprattutto a carico degli IPA più leggeri. - L’eventuale rilascio di contaminanti dal sito inquinato, inteso come sistema terreno/falda/sedimenti quale sorgente secondaria di emissione, sebbene non abbia compromesso la qualità del prodotto ittico durante il periodo di studio, ne ha caratterizzato il profilo dei contaminanti. Questa considerazione è evidente soprattutto per gli IPA, il cui profilo, sbilanciato verso la frazione più pesante, è influenzato dalla distribuzione di tali contaminanti in sedimenti, terreni e falde. In seguito a queste prime conclusioni, abbiamo valutato l’attività di monitoraggio su scala mensile, visualizzando gli andamenti mese per mese per il bioaccumulo degli analiti. Gli andamenti mensili di PCB e, soprattutto, di IPA non evidenziano un progressivo bioaccumulo, ma sono caratterizzati dalla presenza di minimi e massimi assoluti e relativi. Per le due classi di composti organici i massimi sono individuabili nel periodo estivo (che si protrae fino ad ottobre ‘06) e nel periodo gennaio-febbraio ‘07, mentre i minimi sono identificabili nei periodi primaverili ‘06-‘07 e nel periodo novembre-dicembre ’06. L’andamento del piombo,invece, nonostante alcune oscillazioni, è contrassegnato da un graduale, ma modesto bioaccumulo. Il mercurio non presenta bioaccumulo, mentre le concentrazioni dei pesticidi analizzati sono inferiori ai rispettivi LOD. La ciclicità nel trattenere e rilasciare soprattutto i contaminanti organici trova conferme in letteratura scientifica. Si è intrapreso, quindi, un percorso interpratativo che, mediante approfondimenti relativi alla biochimica e alla fisiologia dei mitili, ha fatto luce sulle possibili cause di tale ciclicità, come le abitudini alimentari che variano durante l’anno, e il sistema enzimatico, dal carattere stagionale, che può detossificare i livelli di contaminazione accumulati. Il tutto sembra correlato con l’andamento del ciclo riproduttivo, il quale ha una nota cadenza stagionale. Sulla base di queste considerazioni viene proposto uno schema che semplifica il complicato quadro generale e che giustifica l’andamento di massimi e minimi ottenuto nella campagna di monitoraggio.
XXI Ciclo
1979
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22

Bertoli, Marco. « Analisi della comunità macrozoobentonica e del suo contenuto energetico in una zona umida dell’alto Adriatico (Isola della Cona, GO) ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8552.

Texte intégral
Résumé :
2011/2012
Il presente lavoro è stato condotto nella Riserva Naturale della Foce dell’Isonzo, in un'area caratterizzata da un ampio invaso d’acqua dolce, soggetto a prosciugamento in periodo estivo. Lo scopo di questo studio è stato quello di analizzare struttura ed abbondanza della comunità macrozoobentonica e valutare il contenuto energetico dei taxa più rappresentativi, in relazione all’importante ruolo che questa comunità assume da un punto di vista trofico in questi ambienti. I macroinvertebrati bentonici ricoprono tutti i ruoli trofici dei consumatori e sono la componente più importante della dieta di Pesci ed Uccelli limicoli. Sono state scelte 5 stazioni di campionamento sulla base della diversa profondità dell’acqua, diversa copertura vegetale del substrato e diversa durata della fase bagnata. Mensilmente, a partire dal gennaio 2009 fino a ottobre 2012 è stata rilevata la profondità assieme ad alcuni parametri chimico-fisici, quali: ossigeno disciolto (mg l-1), temperatura (°C), pH e conduttività (mS cm-1). I dati evidenziano per la profondità una tendenza inversa rispetto alla temperatura, legata al ciclo stagionale di prosciugamento/riallagamento a cui è soggetta l’area di studio, e tra temperatura e ossigeno disciolto. La conduttività tende ad aumentare in corrispondenza dell’aumento di temperatura in estate, mente il pH si mantiene su valori neutri tendenti leggermente al basico, oscillando entro un range piuttosto ristretto. Durante l’ultimo anno di attività (novembre 2011-ottobre 2012) sono state monitorate le concentrazioni di alcuni nutrienti (mg l-1), quali NH4, NO3, NO2, PO4, all’interno del sedimento. Per tale scopo sono stati prelevati mensilmente campioni di sedimento mediante un carotiere manuale, e stagionalmente campioni a carico della colonna d’acqua. I risultati denunciano un’alta concentrazione di nutrienti, in particolare dei composti dell’azoto, rispetto a quanto atteso in ambienti dilciacquicoli, verosimilmente, in relazione al carico organico dovuto alla presenza dell’avifauna nell’area di studio. Allo scopo di effettuare analisi granulometriche e misurazioni del C organico, nell’inverno ed autunno 2009, sono stati analizzati campioni di sedimento, in collaborazione con il Dipartimento di Matematica e Geoscienze dell’Università di Trieste. Le analisi granulometriche hanno evidenziato in febbraio la presenza di silt sabbioso in tutte le stazioni, ad eccezione della stazione 2, in cui è stato invece rinvenuto silt argilloso. In ottobre anche nelle stazioni 3 e 4 è stato osservato silt argilloso, mentre non vi sono variazioni nelle restanti stazioni. L’analisi del carbonio organico mostra sempre valori simili nei due campionamenti, con valori più alti nella stazione 1 (3,29% in febbraio, 3,93% in ottobre) e più bassi nelle stazioni 2 e 5 (rispettivamente 1,73% e 1,71% in febbraio e 1,18% e 1,14% in ottobre). Per quanto attiene le comunità macrozoobentoniche, sono stati effettuati campionamenti mediante utilizzo di due tecniche: 1) mediante box corer manuale, strumento dotato di un’area di presa definita (289 cm²), che garantisce un campionamento di tipo quantitativo e minimizza le perdite del campione; 2) tramite la tecnica dei pacchetti fogliari che simulano il naturale accumulo di detrito e che permettono di analizzare i processi decompositivi ed i taxa che riescono a colonizzare i pacchetti. I campionamenti che hanno visto l’utilizzo del box corer si sono svolti nell’aprile 2009 e a cavallo tra ottobre e novembre 2009, e hanno visto il prelievo di 6 subcampionamenti per stazione. La determinazione tassonomica si è spinta fino a livello di famiglia o di genere e, per alcuni taxa raccolti nella primavera, a livello di specie, grazie anche alla collaborazione della Dott.ssa Boggero (CNR, Pallanza) e del Prof. Rossaro (Università di Milano). Le campagne di campionamento mediante pacchi fogliari si sono svolte per tre anni consecutivi, dall’autunno 2009 all’estate 2012, durante le stagioni autunnale, primaverile ed estiva. I pacchi sono stati realizzati con foglie di Phragmites australis, raccolte all’interno della Riserva, seguendo il protocollo indicato da Basset et al., 2006. Sono state organizzate tre unità subcampionarie per ogni stazione, messe in posa con evento unico e raccolte a scaglioni (una per stazione) con cadenza quindicinale. Dopo la raccolta i macroinvertebrati sono stati separati immediatamente dalla componente fogliare, in attesa della determinazione che si è spinta allo stesso livello indicato per i campioni raccolti con box-corer. La struttura della comunità macrozoobentonica è risultata esser costituita principalmente da Crostacei (Classe Ostracoda, famiglie Asellidae e Gammaridae), Oligocheti (famiglie Lumbricidae, Tubificidae, Naididae) ed Insetti. Tra questi ultimi il taxon dominante è risultato essere quello dei Ditteri Chironomidi, i quali rappresentano sempre oltre il 90% degli Insetti rinvenuti. Tale strutura di comunità è stata riscontrata, pur variando i rapporti tra le frequenze percentuali dei vari taxa, nelle diverse stagioni, con entrambi i metodi di campionamento. Numerosità e diversità (espressa come numero dei taxa rinvenuti) sono risultate maggiori durante la primavera rispetto all’autunno, sia nei campioni raccolti con box corer che con le trappole trofiche. Sulla base dei pesi dei pacchetti fogliari post periodo di permanenza nelle stazioni sono stati calcolati i tassi di decomposizione della sostanza organica vegetale (gg-1), utilizzando il modello di Olson (1963). Il modello è stato trasformato da esponenziale a lineare e sono stati effettuati dei confronti a livello inter- e intrastagionale mediante analogo dell’ ANCOVA. La pianificazione del protocollo di campionamento è stata organizzata con la collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali dell’Università degli Studi del Salento. Il tasso di decomposizione della sostanza organica vegetale è risultato esser compreso tra 0,0066 e 0,0075 gg-1 in autunno e tra 0,0108 e 0,0158 gg-1 in primavera. I confronti hanno permesso di mettere in evidenza differenze significative tra i tassi di decomposizione autunnale e primaverile per ogni anno di attività (p>0,05). Non sono state osservate differenze significative tra i tassi autunnali, mentre tali differenze sono sempre emerse a livello della stagione primaverile (p<0,0001). Le campagne di campionamento estive non sono state completate con successo a causa del prosciugamento dell’area, per cui non è stato possibile effettuare paragoni. Confronti intra stagionali non hanno evidenziato (salvo due eccezioni) differenze tra le stazioni (p>0,05). Si può concludere quindi che il sistema degrada la sostanza organica vegetale alla stessa velocità in ogni sua parte nelle stagioni esaminate. Per i taxa per cui numerosità e peso secco lo hanno reso possibile, (Ditteri Chironimidi appartenenti alla tribù dei Chironomini e due famiglie di Crostacei: Gammaridae e Asellidae) sono state effettuate misure a carico della densità energetica ED (cal g-1, peso secco). I taxa sono stati trattati in stufa a 60 °C per 72 ore e in seguito polverizzati. Con il materiale ottenuto sono state prodotte delle pastiglie in seguito processate in un calorimetro adiabatico a bomba Parr 1425 (Parr Instrument Company, U.S.A.). I valori ottenuti sono stati confrontati (quando possibile) mediante statistica non parametrica (test di Kruskal e Wallis per i Chironomini e test U di Mann e Whitney per i Gammaridae), allo scopo di indagare differenze stagionali tra i valori di ogni taxon. Le misure sono state effettuate presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali dell’Università degli Studi del Salento. I valori di densità energetica per la tribù dei Chironomini sono risultati esser compresi tra 3398,7 cal g-1 (valore autunnale) e 3483,6 cal g-1 (valore primaverile), mentre per i Gammaridae i valori sono risultati pari a 3863,7 cal g-1 in primavera e 40008,6 cal g-1 in autunno. Il valore della densità energetica per il taxon degli Asellidi è risultato pari a 3856,1 cal g-1 . Non è stato possibile evidenziare differenze significative a livello stagionale né per i Chironomini né per i Gammaridae. Per la tribù dei Chironomini e la famiglia dei Gammaridae sono state costruite curve di regressione lunghezza/peso secco. Per tale scopo è stata rilevata la lunghezza L (mm) ed è stato misurato o stimato il peso secco DW (g) per almeno 50 esemplari per ciascun taxon. Dall’analisi delle comunità macrozoobentoniche osservate all’interno del Ripristino emerge come il sistema rappresentato da quest’area sia assimilabile a una sorta di “laboratorio naturale” che torna praticamente a una condizione di “zero” a seguito del prosciugamento che avviene durante i mesi estivi. Al termine della fase secca, segue una fase di riallagamento, che si completa durante la stagione autunnale, con conseguente ricolonizzazione dei microhabitat da parte dei macroinvertebrati. La ricolonizzazione porta però a strutture di popolazione che possono essere ben diverse da quelle osservate in precedenza. Si può quindi affermare che il Ripristino è un sistema in uno stato di “perenne ricolonizzazione”. Questa conclusione è ulteriormente supportata dall’analisi dei tassi di decomposizione, i quali sono risultati esser praticamente identici nella stagione autunnale (a seguito dell’azzeramento del sistema) e sempre diversi in primavera, variando di anno in anno. I risultati fin qui ottenuti, forniscono nuove conoscenze riguardo ad aspetti finora poco studiati nell’area di studio (tassi di decomposizione della sostanza organica vegetale e densità energetice dei macroinvertebrati bentonici), e supportano la teoria secondi cui il mondo ecologico è un mondo di “non-equilibrio”, in cui i fenomeni di disturbo sono comuni e possono esser sempre diversi di volta. Questi fenomeni, possono portare a direzioni non facilmente prevedibili, e ogni ecosistema è dunque unico, irriproducibile e intendibile come fenimeno pro tempore.
XXIV Ciclo
1976
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23

Galidaki, Georgia. « Mediterranean Forest Species Mapping Using Hyperspectral Imagery ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8553.

Texte intégral
Résumé :
2011/2012
Advances in hyperspectral technology provides scientists the opportunity to investigate problems that were difficult if not impossible to approach using multispectral data; among those, species composition which is a very important and dynamic forest parameter, linked with many environmental qualities that we want to map and monitor. This study addresses the problem of Mediterranean forest species mapping using satellite EO-1 Hyperion imagery (30m, 196 bands). Two pixel based techniques were evaluated, namely Spectral Angle Mapper (SAM) and Support Vector Machines (SVM), as well as an object oriented approach (GEOBIA). These techniques were applied in two study areas with different species composition and pattern complexity, namely Thasos and Taksiarchis. Extensive field work provided reference data for the accuracy assessment of the produced maps. Image preprocessing included several steps of data corrections and the Minimum Noise Fraction transformation, as means for data dimensionality reduction. In the case of Thasos, where two conifer species are present, SAM technique resulted in an overall accuracy (OA) of 3.9%, SVM technique yielded OA of 89.0% and GEOBIA achieved an OA of 85.3%. In the case of Taksiarchis, where more species are present – both conifers and broadleaved- the respective OA was 80.0%, 82.6% and 74.1%. All three methodologies implemented to investigate the value of hyperspectral imagery in Mediterranean forest species mapping, achieved very accurate results; in some cases equivalent to forest inventory maps. SAM was the straightest forward to implement, only depending on the training samples. Implementation SVM involved the specification of several parameters as well as the use of custom software and was more successful in the challenging landscape of Taksiarchis. GEOBIA adapted to scale through segmentation and extended the exercise of classification, allowing for knowledge based refinement. Lower accuracies could be attributed to the assessment method, as research on alternative assessment methods better adapted to the nature of object space is ongoing. Two typical Mediterranean forests were studied. In Thasos, two conifer species of the same genus, namely Pinus brutia and Pinus nigra, dominate a big part of the island. Both of them were accurately mapped by all methodologies. In Taksiarchis primarily stands of Quercus frainetto mix with stands of Fagus sylvatica and the aforementioned pines. The two pines were again mapped with high accuracy. However, there was a notable confusion between the two broadleaved species, indicating the need for further research, possibly taking advantage of species phenology. The outcome of the proposed methodologies could confidently meet the current needs for vegetation geographical data in regional to national scale, and demonstrate the value of hyperspectral imagery in Mediterranean forest species mapping.
XXIII Ciclo
1981
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24

Pignolo, Giulia. « Studi su gasteropodi terrestri come potenziali bioaccumuli per metalli pesanti ed idrocarburi policiclici aromatici nella provincia di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4584.

Texte intégral
Résumé :
2009/2010
Questa tesi mira a fornire, attraverso dati di monitoraggio sul campo ed esperimenti effettuati in condizioni controllate, elementi per valutare se alcuni gasteropodi terrestri possano essere utilizzati come indicatori per la contaminazione da metalli pesanti ed idrocarburi policiclici aromatici del suolo e dell'aria con particolare riferimento a tipologie di contaminazione ambientale presenti nella Provincia di Trieste. La letteratura scientifica ha già evidenziato l’applicabilità di questo approccio in alcune situazioni ambientali, ma non risultano disponibili studi approfonditi sulle modalità di bioaccumulo e sulle diverse tipologie di contaminazione in prossimità di industrie siderurgiche e siti contaminati costieri. Nel presente lavoro, è stata studiata la contaminazione di suoli superficiali e le ricadute di emissioni atmosferiche al suolo con i gasteropodi terrestri polmonati delle specie Cornu aspersus (O.F.Muller, 1774) ed Eobania vermiculata (O.F.Muller, 1774). In particolare, è stato affrontato lo studio della specie Eobania vermiculata in qualità di bioaccumulatore di metalli e idrocarburi policiclici aromatici per la prima volta, non essendoci della letteratura a riguardo. Inizialmente si sono svolte le seguenti indagini: 1. valutazione delle specie di chiocciole presenti in regione Friuli Venezia Giulia (dalle Alpi orientali all’Adriatico settentrionale) per capire quale specie fosse adatta a questa ricerca. E' stata riorganizzata e sistemata la collezione di molluschi terrestri del Museo Civico di Scienze Naturali di Trieste. Il lavoro ha comportato la sistemazione e ricollocazione di 1500 specie di chiocciole nell'archivio malacologico del Museo; la creazione di un data base dal quale si sono individuate le chiocciole presenti sul territorio regionale meglio rappresentate nella collezione; 2. indagini bibliografiche sull'attitudine dei gasteropodi terrestri ad accumulare metalli pesanti ed idrocarburi policiclici aromatici a seguito di contatto cutaneo col suolo, ingestione della vegetazione o del suolo, dell’acqua ed inalazione dell’aria. Inoltre, sono sufficientemente stanziali per poter fornire delle informazioni sulla contaminazione di un'area. 3. determinazione delle specie presenti nel sito contaminato oggetto di studio. Dopo queste considerazioni la ricerca è proseguita con la messa a punto di una procedura per la determinazione dei metalli e degli IPA tramite ICP ottico e Gas Cromatografia accoppiata a Spettrometria di Massa e per verificare la significatività del quantitativo di contaminanti bioaccumulati. A tale scopo sono state raccolte chiocciole autoctone della specie Cornu aspersus in due siti di studio. E’ stata scelta la specie Cornu aspersus anche a fronte delle precedenti valutazioni. La prima area considerata è un sito costiero, noto come “Acquario”, ubicato nel Comune di Muggia (Trieste) e costituito da un imbonimento con terre da scavo, in cui è stata identificata una contaminazione da metalli e idrocarburi policiclici aromatici; da metà degli anni novanta del secolo scorso fino all’autunno 2010, è stato sostanzialmente abbandonato ed esposto ad un’azione di weathering significativa. Il secondo sito, si trova a Trieste, in prossimità di un impianto siderurgico, la Ferriera di Servola, che è stata riscontrata come fonte emissiva di idrocarburi policiclici aromatici, metalli pesanti e altri inquinanti. E' stata eseguita una caratterizzazione del suolo superficiale (0-0,20 m ) per verificare le concentrazioni di metalli pesanti e degli idrocarburi policiclici aromatici. Le concentrazioni rilevate di piombo, zinco, manganese e nichel nei due siti sono superiori secondo il livello di screening ecologico indicati dall’agenzia per l’ambiente americana (US-EPA, 2005). Le concentrazioni di questi metalli sono tali per cui l'US-EPA afferma la possibilità di un effetto tossico per gli invertebrati del suolo. Nel sito Acquario, l'analisi del suolo superficiale ha evidenziato una contaminazione di IPA in base alle concentrazioni soglia di contaminazione per lo scenario residenziale del D.Lgs 152/2006. I livelli di screening ecologici per gli invertebrati dell’US-EPA non si riferiscono ai congeneri pesanti degli IPA, dal benzo[a]antracene al benzo[ghi]perilene, ma solo in riferimento ai mammiferi e all’avifauna. Per quanto riguarda la tossicità per gli invertebrati del suolo, l'EPA riporta il valore del pirene, la cui concentrazione rilevata nel sito Acquario si avvicina al limite proposto dall'agenzia. Le chiocciole autoctone, della specie Cornu aspersus, nel sito Acquario hanno evidenziato una concentrazione maggiore a carico dell’epatopancreas per i metalli Cd, Pb e Zn, mentre il Cu, che ha anche funzioni fisiologiche, presenta valori relativamente elevati nel piede. Invece, dall'analisi degli IPA è emerso che nelle chiocciole campionate presso la Ferriera prevalgono gli IPA a medio-basso peso molecolare, come naftalene, acenaftene e tra i congeneri più pesanti spicca il benzo[g,h,i]perilene. Nell’indagine condotta sulle chiocciole del sito Acquario, invece, si sono trovate concentrazioni anomale di un congenere ad alto peso molecolare, il dibenzo[a,h]antracene. Questa differenza è stata spiegata in quanto a Servola è presente una significativa fonte attiva di IPA, la cokeria. Le emissioni in atmosfera delle attività siderurgiche oltre che impattare sulla qualità dell’aria ambiente possono avere effetti su suoli ed acque a causa delle ricadute di polveri contenenti metalli pesanti e idrocarburi. Nelle emissioni, in genere, si rileva una maggior abbondanza dei policiclici più leggeri. Nel sito Acquario la contaminazione è dovuta all’interramento di terreno in parte contaminato, in cui gli inquinanti, gli IPA in particolare, possono subire processi di attenuazione e degradazione naturale ad opera di microorganismi che degradano e rimuovono prevalentemente gli IPA più leggeri, mantenendo inalterati quelli più pesanti, come ad esempio il dibenzo[a,h]antracene. La ricerca è proseguita con degli esperimenti di esposizione di chiocciole di allevamento, presupposte "pulite" allo scopo di capire la ripartizione dei contaminanti nella chiocciola (epatopancreas, piede e corpo) e i tempi di accumulo. Nel sito Acquario e in prossimità della Ferriera di Servola è stato costruito un recinto in plastica, in cui sono state rilasciate le chiocciole della specie Cornu aspersus. L'obiettivo è stato quello di valutare l'uptake dei contaminati per ingestione della vegetazione e contatto cutaneo col suolo. E' stata studiata anche un'altra specie, Eobania vermiculata, per valutare la capacità di accumulo e poterla utilizzare in sostituzione a Cornu aspersus, di cui la raccolta in ambiente naturale è regolamentata dalla legge regionale n.16 del 5 dicembre 2008. Dopo un periodo di esposizione di 60 giorni si è osservata una grande variabilità fra le repliche indipendenti dei campioni di chiocciole, indicando una notevole eterogeneità nell’assunzione degli inquinanti. L'analisi statistica dei dati ha però permesso di individuare delle differenze significative nell'accumulo dei metalli pesanti e degli IPA tra epatopancreas, piede e corpo. E' stato osservato che la chiocciola Cornu aspersus rispetto ad Eobania vermiculata è in grado di concentrare un quantitativo maggiore di Zn, Ni, Fe e Mn nell'epatopancreas. Mentre le due specie non presentano una differenza significativa nell’accumulo di Cd e Pb. Questo fa presupporre che sia Cornu che Eobania abbiano modalità molto simile di accumulo e di uptake dei metalli all’interno del proprio corpo. Infatti, entrambe si possono definire degli organismi macroconcentratori (BAF >2) per Cd, Cu e B e deconcentratori (BAF<1) verso gli altri metalli analizzati, Pb, Zn, Mn, Fe, Al, Cr e B. Inoltre, la specie Eobania vermiculata è stata esposta sia nel sito Acquario che a Servola; in quest’ultimo sito, ha evidenziato un accumulo maggiore di Cd e Pb a prova di una concentrazione non trascurabile e biodisponibile presente nel suolo e nella vegetazione. Si è visto anche dall'analisi delle feci che questa specie ha anche una buona capacità di eliminare il Pb. E’ stato osservato anche che, i metalli fisiologici boro, ferro, manganese e alluminio, come il rame, sono per lo più presenti nel muscolo pedale o nel corpo delle chiocciole. Per quel che riguarda gli IPA, nel sito Acquario ne è stata determinata la concentrazione in pool di esemplari di Cornu aspersus esposte. E’ stato difficile verificare un effettivo accumulo in quanto le chiocciole fornite dall'allevamento presentavano valori di alcuni IPA superiori rispetto a quelli che si sono registrati a seguito della sperimentazione. In particolare, si è verificato accumulo significativo del pirene nell'epatopancreas. Si è quindi, verificato che i congeneri di medio–basso peso molecolare (3 e 4 anelli) sono presenti nell’intera chiocciola, mentre quelli con peso molecolare maggiore (5-6 anelli) si concentrano quasi esclusivamente nell’epatopancreas. Successivamente si è effettuato uno studio per valutare il bioaccumulo di inquinanti aereodispersi mediante un esperimento di esposizione controllata in prossimità della cokeria dell’impianto siderurgico della Ferriera di Servola. In studi precedenti, ARPA (2005), Falomo (2009) e Di Monte (2009) è stato appurato che la qualità dell’aria in prossimità dell’impianto è alterata da emissioni di IPA e di polveri con evidenza di deposizioni al suolo. Le chiocciole della specie Eobania vermiculata sono state esposte in due tipologie di gabbie, escludendo il contatto col suolo, per monitorare l’assunzione dei metalli e degli IPA. Sono state utilizzate piccole gabbie con le pareti aperte che permettono un ricircolo dell’aria e la deposizione delle polveri di granulometria medio-grossolana, costituenti la cosiddetta frazione sedimentabile del particolato totale sospeso (PTS) e gabbie con pareti chiuse che riducono la deposizione del particolato atmosferico. Inoltre, è stato utilizzato un campionatore passivo del PMx e un campionatore passivo (“quadrello”) per il campionamento degli IPA aerodispersi. Dall’analisi delle chiocciole si è constatato che è stato maggiore l’apporto dei metalli Cd, Pb, Zn, Cr, Ni, Mn, B assunti a causa della deposizione delle polveri all’interno delle gabbie aperte in prossimità della Ferriera è stato maggiore di quello nel sito di controllo presso l’Università di Trieste. L’analisi degli IPA nei quadrelli ha appurato che le concentrazioni a Servola sono maggiori di quelle del sito di controllo e i valori elevati del fattore arricchimento indicano che i fenomeni di deposizione delle polveri avvengono in maniera non trascurabile. Nelle chiocciole esposte a Servola, si è constatato un accumulo significativo di fluorene, fenantrene, antracene e in particolare del benzo[e]pirene. Tuttavia, la concentrazione degli IPA anche nelle chiocciole poste nel sito di controllo è comunque non trascurabile e ciò riconduce ad un inquinamento di tipo urbano diffuso (riscaldamento, traffico veicolare, etc…). In considerazione del maggior accumulo degli idrocarburi policiclici aromatici più leggeri e volatili, si è approfondita la valutazione dei possibili effetti biologici dell’inalazione mediante lo studio del tessuto olfattivo nelle chiocciole della specie Eobania vermiculata, impiegata nell’esperimento precedente. Lo studio del tessuto olfattivo è particolarmente importante per conoscere e capire quello dei mammiferi in quanto possiede molte somiglianze e può spiegare come un inquinante può agire nell’uomo (Chase, 1986). Mediante colorazione tricromica si è appurato che le chiocciole esposte a Servola presentavano un notevole ispessimento dello strato muciparo e del tessuto olfattivo rispetto agli esemplari del sito di controllo presso l’Università. Questo ha confermato quanto osservato da Lemaire e Chase (1998) che affermarono che le sostanze aerodisperse molto irritanti provocano un ingrossamento del tessuto epiteliale e una maggior produzione di muco. Nella seconda parte della tesi si è approfondito lo studio dell'accumulo degli IPA mediante uptake per ingestione e contatto cutaneo del suolo, in condizioni controllate in laboratorio, impiegando chiocciole Cornu aspersus. Non risultando operativamente semplice contaminare suoli con policiclici aromatici in maniera sicura e controllata, grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università di Udine, si è valutato il bioaccumulo di IPA in suoli trattati con biochar, carbonella vegetale, che può apportare composti policiclici, per una concentrazione pari a 100t/ha, compatibile con quella che alcuni agronomi propongono l’incorporazione nei suoli per aumentare la sostanza organica e quindi far sì che il biochar funzioni come sequestratore di CO2 (Steinbeis et al., 2009). Recenti studi indicano come vi sia un bioaccumulo di IPA in anellidi esposti a terreno trattato con biochar, per cui si è valutata la significatività dell’esposizione per contatto anche nel caso di molluschi terrestri. Lo studio degli IPA si è focalizzato sui congeneri acenaftene, fluorene, fenantrene, antracene, fluorantene e pirene, in quanto le concentrazioni degli IPA più pesanti misurate nelle chiocciole e nei suoli si sono sempre mostrate inferiori ai limiti di rilevabilità analitici e alle concentrazioni soglia di contaminazione per scenari residenziali normati per i suoli dal D.Lgs 152 del 2006. E’ stato appurato che nel suolo trattato con biochar, la concentrazione degli IPA è rimasta stabile nel’arco della sperimentazione, a differenza del suolo di controllo che per quanto sia un suolo artificiale, costituito in parte da torba, privo di una fauna microbica naturale ha presentato fenomeni di attenuazione della contaminazione da IPA nel tempo. Il biochar infatti è un materiale relativamente stabile, poroso e potenzialmente un buon adsorbente per contaminanti organici nei suoli. Si è visto che l’accumulo nelle chiocciole è avvenuto a carico del resto del corpo le cui concentrazioni degli IPA aumentano man mano che aumenta il periodo di esposizione. Questo indica che gli IPA leggeri, presenti anche nel suolo artificiale di controllo (torba, caolino e sabbia) siano biodisponibili per i gasteropodi e vengono assorbiti per contatto cutaneo, mentre quelli pesanti, qualora presenti, rimangono adsorbiti sulla tipologia di biochar considerata e non contaminano significativamente il biota. Quindi, si ha evidenza che in condizioni di laboratorio, una concentrazione proposta da Steinbeis (2009), ovvero di 100t/ha, per l’incorporazione nei suoli superficiali di biochar/carbonella vegetale finemente suddivisa, non rappresenta un rischio di contaminazione da idrocarburi policiclici pesanti per le chiocciole della specie Cornu aspersus. In conclusione, si è visto che l’impiego di gasteropodi terrestri, arricchisce la base informativa su cui fondare valutazioni sul destino dei contaminanti e sulle interazioni tra contaminanti e biota, fornendo un utile complemento a metodi di valutazione ambientale più consolidati. Infatti, nel lavoro di tesi si è evidenziato come l’impiego di molluschi terrestri consenta di valutare il trasferimento di inquinanti quali metalli ed IPA da suoli ed aria ambiente ad organismi invertebrati, in siti della Provincia di Trieste in cui è stata riportata la presenza di contaminanti. Si è avuta conferma che, in termini generali, l’epatopancreas è l’organo in cui si ritrovano le massime concentrazioni di contaminanti e si desume che l’uptake dei metalli avvenga per ingestione della vegetazione e/o del suolo. E’ stato appurato mediante degli esperimenti di esposizione di esemplari non contaminati di Cornu aspersus che questa specie è in grado di accumulare nei propri tessuti il piombo e il cadmio in quantità maggiori alla specie Eobania vermiculata. Si è anche verificato che l’assunzione dei contaminanti può avvenire per inalazione di particolato aereodisperso in tempi relativamente brevi considerando la capacità respiratoria delle chiocciole. In particolare, l’esposizione all’aria in condizioni controllate è stata utile per verificare il bioaccumulo di alcuni IPA, in quanto nelle chiocciole si è rilevata la presenza di benzo[e]pirene, isomero relativamente più stabile del benzo[a]pirene, in prossimità dell’impianto siderurgico della Ferriera di Servola. Infine, con l’esperimento di esposizione al biochar si è potuto constatare che gli IPA leggeri vengono anche assunti in modo non trascurabile per contatto cutaneo col suolo e quindi non solo per ingestione.
XXII Ciclo
1980
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25

Della, Torre Chiara. « Valutazioni sulla sostenibilità di interventi di gestione ambientale : applicabilità del fitorimedio per l' attenuazione della contaminazione in siti inquinati e carbon footprint ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3513.

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Résumé :
2008/2009
Il fitorimedio è una tecnologia di bonifica che sfrutta l’azione delle piante e dei microrganismi del suolo ad esse associati per attenuare la contaminazione nei suoli. Rispetto ad altre tecniche tradizionali, presenta dei vantaggi interessanti dal punto di vista della sostenibilità del processo: è un tipo di intervento meno invasivo, si realizza in situ con costi di gestione bassi, offre benefici dal punto di vista paesaggistico e in termini di sottrazione di CO2 dall’atmosfera, in quanto vengono impiegati organismi fotosintetizzanti e l’impatto dovuto ai trasporti e all’utilizzo di macchinari è minimo. La prima linea di ricerca sviluppata in questo lavoro ha avuto come obiettivo la verifica dell’efficacia di due specie erbacee perenni, Festuca arundinacea e Lolium perenne, nella rizodegradazione di una tipologia di inquinanti organici particolarmente significativa per la provincia di Trieste, gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). In particolare si è considerata una contaminazione da IPA “invecchiata”. Oltre alla degradazione di IPA, sono stati monitorati parametri che forniscono informazioni sulla comunità microbica del suolo (biomassa microbica e attività enzimatica totali) e sul contenuto di carbonio organico. La concentrazione di IPA nel suolo è stata determinata mediante analisi in GC-MS, l’attività microbica con l’idrolisi della fluoresceina diacetato, la biomassa microbica attraverso il metodo della fumigazione-estrazione, il carbonio organico totale mediante analisi elementare al CHN. In aggiunta a queste analisi, è stato effettuato un test di fitotossicità su eluati di suolo con semi di Cucumis sativus, Lepidium sativum e Sorghum saccharatum. La sperimentazione di rizodegradazione si è svolta sia in pieno campo, in lotti sperimentali, sia in serra, in condizioni più controllate. Sono state effettuate quattro serie di campionamenti nell’arco di 15 mesi in campo, sei campionamenti di suolo e materiale vegetale in serra a cadenza mensile. Relativamente alla sperimentazione in pieno campo con Festuca arundinacea si sono determinati valori di attenuazione di oltre il 70% in una sola stagione vegetativa, anche per gli IPA ad alto peso molecolare. Lolium perenne, che la letteratura riporta efficace per la rizodegradazione di contaminazioni “invecchiate” di IPA, non ha dato in pieno campo buoni risultati; la presenza nei suoli di concentrazioni di nichel ben inferiori alle concentrazioni soglia di contaminazione protettive per la salute umana ma superiori a livelli di screening proposti dall’US-EPA per effetti sui vegetali, consente di interpretare la poca vigoria di Lolium perenne nei lotti sperimentali. Festuca arundincea è accumulatrice e tollerante ad elevate concentrazioni di metalli pesanti quali il nichel e non ha manifestato problemi. La sperimentazione in serra ha evidenziato una attenuazione inferiore a quella ottenuta in pieno campo per Festuca arundinacea. I confronti con l’attenuazione ottenuta nel suolo non seminato indicano che tale fenomeno non è associabile alla presenza della pianta. Si conclude che per valutare in vaso i fenomeni di rizodegradazione, che coinvolgono comunità microbiologiche, è necessario impostare sperimentazioni in microcosmi/recipienti di maggior capienza o comunque garantire minori stress idrici e termici, in particolare nella stagione estiva. Una seconda linea di ricerca ha riguardato studi sperimentali per valutare flussi di carbonio nei lotti in cui si applica il fitorimedio. È stata effettuata una prima stima del bilancio del carbonio nel sistema suolo-pianta nel lotto sperimentale di Festuca arundinacea in campo, valutando il contributo della fissazione di CO2 da parte di specie erbacee da prato e della respirazione del suolo all'emissione di CO2 in atmosfera. Lo strumento utilizzato è un analizzatore di gas all’infrarosso (IRGA, Infra Red Gas Analyzer). Sono state svolte tre serie di misure diurne. Questi dati possono essere usati per evidenziare come l’impiego di tecnologie in cui si favorisce l’utilizzo di piante possa apportare vantaggi ambientali rappresentando un sink per il carbonio, con beneficio nelle valutazioni di sostenibilità ambientale di tecnologie, basate ad esempio sul calcolo del carbon footprint. Questo indicatore di sostenibilità potrà essere applicato all’ambito delle bonifiche al fine di comparare fitotecnologie con metodi di tipo fisico o chimico, favorendo gli interventi che implichino emissioni ridotte di CO2 e un maggior sequestro da parte del sistema suolo-pianta. La metodologia di analisi impiegata per la misura degli scambi di CO2 in questo studio su piccola scala può trovare un’utile applicazione in studi sul bilancio del carbonio anche su scala più ampia, integrando le suddette misure di respirazione eterotrofa del suolo effettuate a terra con stime di rateo di fotosintesi netta ottenute mediante indici radiometrici, in misure di remote sensing. L’integrazione di questi due tipi di analisi potrà rappresentare un effettivo strumento per la valutazione del carbon footprint di territori estesi, come quello della provincia di Trieste.
XXII Ciclo
1979
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26

Mosco, Alessandro. « Sviluppo di un bioindicatore naturale per il monitoraggio della qualità delle acque ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8557.

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Résumé :
2011/2012
La concentrazione del glucosio emolinfatico è regolata nei Crostacei dal crustacean Hyperglycemic Hormone (cHH), un neuropeptide prodotto e rilasciato in circolo nel complesso organo X-ghiandola del seno, localizzato nei peduncoli oculari. Il cHH, oltre a essere coinvolto nella regolazione di diversi processi fisiologici, è implicato anche nelle risposte da stress di origine ambientale o dovute all’esposizione a xenobiotici, il cui risultato finale è un aumento della glicemia. In numerose specie di crostacei sono state identificate più forme circolanti del cHH, alcune delle quali derivano da geni diversi e si differenziano per la sequenza amminoacidica, altre invece risultano da processi di maturazione post-traduzionale dei peptidi come l’isomerizzazione della L-Phe3 con la conseguente formazione di D-Phe3. Le eventuali differenze nella funzione biologica di queste due isoforme chirali sono ancora poco chiare, ma gli scarsi studi sin qui condotti indicano che il D-cHH ha una maggiore e più prolungata attività iperglicemizzante. Inoltre, è stato proposto un suo coinvolgimento sia nell’inibizione della sintesi degli ecdisteroidi sia nella regolazione osmotica. Due sono stati gli indirizzi principali di ricerca sviluppati in questi anni di dottorato. Il primo è consistito nel gettare le basi per la realizzazione di un organismo bioindicatore capace di rilevare la presenza di sostanze tossiche cambiando la propria colorazione in modo facilmente visualizzabile, ed è stato completato con il clonaggio e l’identificazione del promotore del cHH di Astacus leptodactylus (Crustacea, Decapoda), la verifica in vitro della sua funzionalità e l’identificazione di possibili siti di legame per dei fattori di trascrizione. L’obiettivo finale è la modifica in via transiente di Palaemon elegans e Palaemonetes antennarius (Crustacea, Decapoda) mediante l’iniezione di emociti trasfettati con il plasmide veicolante il promotore del cHH ed un gene reporter che visualizza la risposta mediante colorazione dell’animale. Il secondo progetto ha riguardato la sintesi chimica di alcune forme chirali del cHH di A. leptodactylus che è l’unica strategia possibile per ottenere peptidi identici all’ormone nativo, essendo la sola capace di consentire l’introduzione di tutte le modificazioni post-traduzionali necessarie. I peptidi ottenuti sono stati quindi adoperati in saggi biologici in vivo per provare la loro funzionalità. Inoltre, è stato fatto uno studio per appurare il possibile ruolo del cHH nel controllo dell’aggressività in Procambarus clarkii (Crustacea, Decapoda). Per ottenere una quantità sufficiente delle forme chirali del cHH in modo da poterne studiare la funzione biologica, abbiamo scelto la strada della sintesi chimica in fase solida (SPPS). La SPPS è generalmente limitata alla sintesi di peptidi non più lunghi di 40 amminoacidi. Per ottenere sequenze più lunghe è necessario sintetizzare segmenti diversi e quindi ligarli assieme attraverso delle reazioni chimiche. In questo caso si è adoperata la native chemical ligation. Il primo passo ha riguardato la sintesi di sei segmenti (QVF-cHH4-38, QVdF-cHH4-38, pEVF-cHH4-38, pEVdF-cHH4-38, pEVdA-cHH4-38, cHH-39-72) che legati fra loro in maniera diversa avrebbero portato alla formazione di cinque peptidi ammidati al C-terminale, due con la L-Phe3 e la parte N-terminale libera oppure bloccata con il piroglutammato, due con la D-Phe3 e la parte N-terminale anch’essa libera oppure bloccata, e uno con la D-Phe3 sostituita dalla D-Ala3 e l’N-terminale bloccato dal piroglutammato. La sintesi dei diversi segmenti non ha dato particolari problemi, ma la purificazione del segmento cHH-39-72 è risultata particolarmente difficile, in quanto questo peptide è risultato essere molto poco solubile. Questo problema è stato risolto con l’aggiunta di gruppi –SO3 allo zolfo delle cisteine che ha reso solubile il segmento cHH-39-72. Sono stati quindi sintetizzati in quantità sufficienti, dell’ordine di un centinaio di microgrammi, le seguenti forme chirali del cHH: QVdF-cHH, QVF-cHH, pEVF-cHH, pEVdF-CHH e pEVdA-cHH. In quest’ultima isoforma la D-fenilalanina in posizione 3 è stata sostituita dalla D-alanina, per verificare se la fenilalanina avesse un ruolo fondamentale nella funzionalità del peptide. I peptidi di sintesi sono stati quindi utilizzati per eseguire dei saggi in vivo su A. leptodactylus, iniettando nei gamberi il cHH sintetico e verificando la risposta biologica indotta attraverso il dosaggio della glicemia. I prelievi per il dosaggio del glucosio sono stati fatti ai tempi 0 h, 1 h, 2 h, 4 h, 8 h e 24 h. Il profilo temporale della risposta glicemica indotta dalle due forme chirali è diverso, con il L-cHH avente un picco di risposta tra le 2 h e le 4 h, mentre il picco massimo della risposta del D-cHH è più tardivo, situandosi tra le 4 h e le 8 h. Invece, la differenza nella risposta iperglicemica tra la forma bloccata all’N-terminale (Glp-D-cHH) e la forma non bloccata (D-cHH) non è stata significativa a dimostrazione che la presenza del piroglutammato non influenza la risposta biologica indotta dal cHH. L’attività biologica dell’isomero Glp-dA-cHH è stata verificata usando il medesimo protocollo. L’attività iperglicemizzante di questo peptide è risultata essere significativamente inferiore a quella indotta dal Glp-D-cHH. Il risultato ottenuto dimostra che la porzione N-terminale del cHH è fondamentale per la funzionalità del peptide. Lo studio del promotore del cHH è stato effettuato su una sequenza clonata di 176 nucleotidi a monte della regione 5’ del gene per il cHH di A. leptodactylus, che è stata inserita in un vettore senza promotore (pGL3-Basic) a monte del gene reporter per la luciferasi. Con questo vettore sono state trasfettate cellule HEK 293T e la funzionalità del promotore è stata dimostrata da un incremento di circa 1000 volte nell’espressione della luciferasi rispetto a pGL3-Basic. La ricerca di eventuali siti di legame per elementi di regolazione presenti nella sequenza clonata ha consentito di identificare numerosi possibili siti di legame, inclusi una TATA box a -23, una CCAAT box a -78, due GC box a -63 e -70, ed altri per specifici elementi di trascrizione, più precisamente una sequenza a -91 dove i siti di legame per il cAMP response element-binding (CREB), l’elemento di risposta all’ipossia (HRE), il recettore per l’estrogeno (ER-alpha) si sovrappongono, mentre a -160 è stato identificato un possibile sito di legame per il recettore dell’ecdisone (EcR). L’influenza del cHH sull’aggressività in P. clarkii è stata studiata iniettando negli animali il cHH nativo estratto dalle ghiandole del seno. In generale gli animali in cui era stato iniettato il cHH hanno mostrato un aumento nell’espressione della dominanza, gli alfa attraverso un aumento della durata dei combattimenti e i beta per la maggiore intensità dei combattimenti che ne aumentava la dominanza fino a raggiungere una temporanea inversione della gerarchia. Il potenziamento del comportamento aggressivo potrebbe essere dovuto o a una modulazione da parte del cHH dei neuroni che controllano l’espressione del comportamento agonistico, oppure essere dovuto a una maggiore mobilizzazione delle risorse energetiche necessarie per la lotta. Per la prima volta sono state ottenute diverse isoforme del cHH mediante la sintesi peptidica in fase solida accoppiata alla native chemical ligation. I dati ottenuti indicano che questa è la strategia appropriata per la sintesi dei peptidi della famiglia del cHH, essendo l’unica in grado di consentire l’introduzione di tutte le modifiche post-traduzionali per ottenere un peptide identico all’ormone nativo. L’ottimizzazione del presente protocollo consente di rendere disponibili adeguate quantità di peptidi per esperimenti su larga scala, in vivo e in vitro, che possono portare a una migliore conoscenza della funzione del cHH e della relazione tra funzione e struttura. Inoltre sono state gettate le basi per la realizzazione di un organismo bioindicatore per monitorare l’inquinamento delle acque. È stato clonato il promotore del cHH di A. leptodactylus e per la prima volta la funzionalità di un promotore di un peptide della famiglia del cHH è stata verificata in un saggio in vitro. L’identificazione di diversi possibili siti di legame per gli elementi di regolazione nel promotore del cHH suggerisce che l’espressione del cHH sia regolata da svariati fattori fisiologici e ambientali. I risultati ottenuti sono rilevanti per futuri studi indirizzati alla comprensione del ruolo che i fattori di trascrizione identificati possono avere nella regolazione del promotore del cHH. Infine, lo studio sulla relazione di dominanza in Procambarus clarkii ha dimostrato, per la prima volta, che un neuropeptide, nella fattispecie il cHH, è in grado di modulare il comportamento aggressivo, sino a invertire, sia pur temporaneamente, il rango.
XXIV Ciclo
1955
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27

Manfrin, Chiara. « Alterazione dell'espressione genica in mitili contaminati con acido Okadaico e Dinofisitossine ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4580.

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Résumé :
2009/2010
Gli aumenti stagionali delle temperature dei mari sono tra le condizioni ottimali di crescita per i Dinoflagellati, i quali possono raggiungere elevate concentrazioni nella colonna d’acqua e negli organismi filtratori come in Mytilus galloprovincialis. Alcuni dinoflagellati, comunemente Dinophysis e Prorocentrum spp., sono conosciuti produttori di acido okadaico (OA) e dei suoi analoghi che sono responsabili della sindrome diarroica (Diarrheic Shellfish Poisoning (DSP)) nell’uomo. Quando i livelli delle tossine DSP nei mitili eccedono i 16 μg su 100 g di polpa, le mitilicolture vengono chiuse e le vendite dei molluschi sono bloccate. Risulta chiaro che nonostante non siano mai state registrate mortalità negli uomini o nei mitili, gli eventi DSP provocano importanti problemi sanitari ed economici in tutto il settore dell’acquacoltura. Questo lavoro suddiviso in 3 parti ha, dapprima sondato l’applicabilità di metodiche molecolari, quali l’impiego di un microarray (MytArray 1.0) e le validazioni in PCR real time quantitativa (qRT PCR), per la rilevazione delle modifiche dei profili trascrizionali indotte dalla presenza delle biotossine DSP. Questa prima parte ha fornito una lista di geni attivati o silenziati nel corso di un esperimento durato 35 giorni in mitili mantenuti a condizioni costanti e contaminati con OA. Sebbene le condizioni di mantenimento non rappresentino le situazioni alle quali i mitili sono sottoposti in natura, ciò ha permesso un’analisi preliminare dei putativi effetti indotti dall’acido okadaico (OA). L’insieme dei trascritti differenzialmente espressi ha consentito di avere una panoramica di quelli che sono i pattern molecolari maggiormente influenzati dalla presenza della biotossina. Al fine di validare i risultati ottenuti dalle ibridazioni sul MytArray 1.0 e per poter individuare putativi biomarker di OA si è proceduto a validare alcuni trascritti attraverso qRT PCR. Questa analisi ci ha consentito di osservare i livelli di espressione dei singoli trascritti selezionati e non ultimo di validare o meno i risultati ottenuti dal MytArray 1.0. La disponibilità dei Dott Zanolin e Franceschini ha reso possibile sondare i trascritti ritenuti putativi marker di OA in campioni naturalmente contaminati. 14 trascritti sono stati analizzati nei campioni provenienti da varie zone del Golfo di Trieste. Questa seconda parte del lavoro è stata indispensabile e scientificamente necessaria per poter discriminare i trascritti differenzialmente espressi a seguito della presenza di tossine DSP o a causa del mantenimento in condizioni controllate dei mitili, nell’esperimento iniziale. L’individuazione di pattern molecolari comuni ai campioni naturalmente contaminati e raccolti in anni diversi e ai profili di espressione ottenuti nello studio iniziale, è un punto di partenza interessante per la ricerca indirizzata all’individuazione di un set di trascritti attivati in modo specifico dalla presenza di tossine DSP e rafforza la validità dell’utilizzo di approcci molecolari negli studi di biomonitoraggio ambientale. Non ultimo l’analisi dei trascritti proteici che costituisce un altro aspetto importante della ricerca volta all’individuazione di trascritti attivati e specificatamente correlati alla presenza di tossine DSP. La sinergia dei metodi di rilevamento applicati di routine per l’accertamento della presenza di biotossine, supportato da metodiche di indagine genetica o estese al trascrittoma dell’organismo oggetto di studio, permetterebbero l’individuazione di contaminazioni a livelli sicuramente inferiori rispetto a quelli che sono i limiti di sensibilità dei test oggi applicati. L’applicazione di metodiche molecolari di questo tipo è d’uso crescente in analisi di biomonitoraggio ambientale supportando la validità e la robustezza dei risultati che questi approcci forniscono. In un lasso relativamente breve di 3 anni è stato possibile ottenere e validare un set di risultati correlati alla risposta genica del mitilo sottoposto a contaminazione con tossine DSP. Le problematiche connesse agli eventi di DSP nel nostro Golfo, legato alle pesanti perdite economiche che derivano dalle chiusure delle mitilicolture in alcuni periodi dell’anno e la mancanza di metodiche di rilevamento ad oggi completamente accettate dalla Comunità Scientifica, pongono le metodologie di analisi impiegate in questo studio, tra le più interessanti e sensibili nella rilevazione di situazioni di stress ambientale.
XXIII Ciclo
1982
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28

Roppa, Flavio. « Dinamiche di utilizzo dell'habitat in 3 specie di limicoli nella zona costiera del Friuli Venezia Giulia ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3171.

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Résumé :
2007/2008
Gli uccelli limicoli sono importanti indicatori su scala globale della stato delle zone umide e la perdita di tali habitat è la principale causa del decremento di molte delle loro popolazioni. Questa ricerca analizza le strategie di utilizzo dell’habitat nel Chiurlo (Numenius arquata), nella Pivieressa (Pluvialis squatarola) e nel Piovanello pancianera (Calidris alpina), che assieme rappresentano più del 90% dei limicoli svernanti in Friuli Venezia Giulia. Le popolazioni sono state monitorate mensilmente ai roost da ottobre 2005 a maggio 2008. Nello stesso periodo 17 Chiurli, 19 Pivieresse e 71 Piovanelli pancianera sono stati radiomarcati nel settore orientale dell’area di studio e monitorati per un totale di 1.762 localizzazioni (fix). Emerge una generale stabilità delle popolazioni svernanti. Il calo legato alla migrazione primaverile si verifica prima nel Chiurlo (marzo-aprile) e nel Piovanello pancianera (aprile-maggio), più tardivamente nella Pivieressa (maggio-giugno), mentre la migrazione postriproduttiva copre una finestra temporale più ampia per tutte e tre le specie. La telemetria ha fornito delle conferme agli andamenti fenologici ed evidenzia una bassa mobilità nelle tre specie, data anche l’elevata fedeltà ai siti di roost. I fix, infatti, si concentrano prevalentemente nel settore orientale dell’area di studio, dove è avvenuta la cattura degli individui. Dall’analisi degli home range, la mobilità minore si registra nel Chiurlo, poco superiore è quella della Pivieressa, mentre il Piovanello pancianera presenta gli spostamenti maggiori. La presenza di numerosi roost ed aree di foraggiamento anche nella parte centro-occidentale dell’area di studio ha suggerito come specifici settori siano utilizzati prevalentemente da differenti gruppi di individui, sia per la sosta che per l’alimentazione. Queste “unità funzionali” sono state verificate ed analizzate nel Chiurlo sulla base della risorsa trofica presente, misurata tramite campionamenti bentonici, e del comportamento di foraggiamento degli individui, ottenuto tramite videoriprese. Infine, per la Pivieressa e il Chiurlo si evidenzia una stagionalità nell’utilizzo dell’habitat, anche per singole unità funzionali. L’elevata localizzazione che caratterizza gli individui radiomarcati mette in luce l’importanza delle core area di alimentazione e di sosta. Data l’evidenza delle dinamiche spaziali e temporali legate alle diverse popolazioni e la presenza di differenti unità funzionali, quanto emerso rappresenta uno strumento importante per pianificare al meglio la conservazione di queste popolazioni, in un’ottica adattativa di gestione del territorio.
XXI Ciclo
1977
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29

Falconi, Claus Francois. « Complex water column nutrient dynamics in the Gulf of Trieste ; freshwater nutrient discharge Vs biologicallly mediated cycling of dissolved organic matter ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3172.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
Il Golfo di Trieste, localizzato nella parte più settentrionale ed orientale del bacino Adriatico, rappresenta un’area peculiare per le sue caratteristiche geomorfologiche, oceanografiche e biologiche. In quest’area, in particolare, insistono diverse attività economiche che vanno dalla maricoltura al turismo e pertanto i problemi legati alla qualità ambientale sono oltremodo diversificati: da un lato è importante che la trofia del sistema supporti lo sviluppo e la crescita dei molluschi allevati e dall’altro la fruizione delle acque per la balneazione richiede requisiti di qualità precisi e stabiliti dalle normative europee. Alla base di qualsiasi approccio gestionale all’ambiente marino costiero è comunque necessario conoscere la dinamica dei composti che stanno alla base della rete alimentare e che rappresentano anche importanti segnali di apporti antropici al sistema. I nutrienti, siano essi nella forma inorganica o in quella organica, regolano le dinamiche trofiche dell’ecosistema costiero e sono oltremodo concentrati in prossimità di scarichi urbani o nelle acque a bassa salinità frutto del mescolamento tra fiume e mare. Nonostante i numerosi e approfonditi studi sull’ecosistema del Golfo di Trieste, la dinamica dei nutrienti è stata poco approfondita, soprattutto in relazione alla frazione organica. La ricerca svolta nell’ambito di questo dottorato ha avuto come obiettivi principali: La valutazione delle dinamiche spaziali e temporali della concentrazione dei macronutrienti, nella forma inorganica ed organica, nelle acque del Golfo di Trieste La verifica del ruolo degli apporti fluviali e antropici sulla loro disponibilità La comprensione dell'importanza delle attività microbiche di rimineralizzazione sulla disponibilità degli stessi. Il protocollo sperimentale ha previsto l'analisi di campioni d'acqua prelevati mensilmente in 9 stazioni del Golfo, nel periodo 2004-2008. Nella stazione storica C1 il campionamento è stato intensificato per meglio valutare le dinamiche temporali esplorando la variabilità giornaliera e quella a scala oraria. Poiché il Golfo è soggetto a notevoli apporti fluviali, è stato valutato il ruolo dell’Isonzo, il fiume più importante, e, a partire dal 2006, è stato considerato anche il Timavo. Per evidenziare il ruolo degli scarichi antropici sono stati considerati i dati provenienti dal Monitoraggio delle acque costiere predisposto dalla Regione FVG (2002-2005). L’imponente lavoro analitico ha permesso di confermare la scarsa disponibilità di fosforo nelle acque del Golfo anche in periodi di limitata utilizzazione biologica. L’apporto dei fiumi arricchisce le acque delle forme particellate ma non incide sulla frazione disciolta mentre gli scarichi urbani non influenzano significativamente la disponibilità. Importante risulta, invece, il ruolo della degradazione enzimatica della sostanza organica. Sia il fitoplancton che il batterioplancton producono, infatti, notevoli quantità di fosfatasi alcalina, enzima in grado di recuperare fosforo da molecole organiche. Attraverso la produzione di enzimi, i microrganismi riescono a sopperire alla scarsa disponibilità di molecole inorganiche, più facilmente utilizzabili ma estremamente meno abbondanti. Questi risultati sono oltremodo importanti per l’organizzazione dei futuri piani di monitoraggio degli ambienti marini costieri caratterizzati da forti input di acqua dolce sia di origine antropica che fluviale. La trofia del sistema, infatti, non è sostenuta soltanto dai Sali inorganici disciolti di azoto, fosforo e silicio ma è fortemente dipendente dal pool di organico sia disciolto che particellato. L’attività degradativi dei microrganismi su queste matrici consente loro di ottenere le sotanze essenziali per la crescita e la duplicazione.
XIX Ciclo
1966
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30

Fortibuoni, Tomaso. « La pesca in Alto Adriatico dalla caduta della Serenissima ad oggi : un analisi storica ed ecologica ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3613.

Texte intégral
Résumé :
2008/2009
L’ecologia è una disciplina storica: i processi ecologici in corso sono il risultato di quello che è accaduto nel passato. Non conosciamo però quando e con che intensità l’uomo ha iniziato ad alterare l’ambiente marino, e non conosciamo lo stato “naturale” degli ecosistemi. L’ecologia storica ha come obiettivo lo studio degli ecosistemi e delle sue componenti a posteriori, attraverso il recupero e la meta-analisi di documenti del passato. La ricostruzione dello stato passato (historical baseline) degli ecosistemi è essenziale per la definizione di punti di riferimento (reference points) e direzioni di riferimento (reference directions) per valutare i cambiamenti e per stabilire obiettivi di ripristino. Basare gli studi di biomonitoraggio solo su dati recenti può, infatti, indurre la sindrome del “shifting baseline”, ovvero uno spostamento di generazione in generazione del punto di riferimento cui confrontare i cambiamenti, con la conseguenza di sottostimare eventuali processi di degrado in atto. Inoltre, i processi ecologici agiscono su scale temporali diverse (da anni a decenni), e per capirne le dinamiche è quindi necessario considerare un’adeguata finestra temporale. Studiare le dinamiche a lungo termine delle comunità marine permette quindi di monitorare e valutare lo stato e i cambiamenti degli ecosistemi rispetto ad un adeguato riferimento, in cui le comunità marine sono usate come indicatori. La raccolta e lo studio di documentazione storica rappresentano, quindi, un’attività imprescindibile nell’ambito del monitoraggio ambientale. La pesca rappresenta uno dei principali fattori di alterazione negli ecosistemi marini, ed è considerata la principale causa di perdita di biodiversità e del collasso delle popolazioni. I suoi effetti, diretti e indiretti, costituiscono una fonte di disturbo ecologico in grado di modificare l’abbondanza delle specie, gli habitat, la rete trofica e quindi la struttura e il funzionamento degli ecosistemi stessi. Essa rappresenta una fonte “storica” di disturbo, essendo una delle prime attività antropiche di alterazione dell’ambiente marino. Inoltre, la sovra-pesca (overfishing) sembra essere un pre-requisito perché altre forme di alterazione, come l’eutrofizzazione o la diffusione di specie alloctone, si manifestino con effetti più pervicaci. La pesca rappresenta però anche una sorta di campionamento estensivo non standardizzato delle popolazioni marine. Dal momento che dati raccolti ad hoc per il monitoraggio delle risorse alieutiche (fishery-independent) sono disponibili solo dopo la seconda metà del 20° secolo, e in alcuni casi (come in Mediterraneo) solo per le ultime decadi, lo studio delle dinamiche a lungo termine richiede il recupero di informazioni che sostituiscono le osservazioni strumentali moderne e possono essere comunque considerati descrittori dei processi di interesse (proxy). La principale criticità nel ricostruire serie storiche a lungo termine nasce dall’eterogeneità dei dati storici e dalla necessità di elaborare metodologie per l’analisi e l’integrazione dei dati qualitativi o semi-quantitativi del passato con i dati moderni. A seconda del periodo considerato e dell’ampiezza della finestra temporale di studio, quindi, è necessario applicare diverse metodologie d’analisi. La gestione sostenibile dello sfruttamento delle risorse alieutiche è un tema sempre più rilevante nel contesto della pesca mondiale, come conseguenza del progressivo aumento della capacità e dell’efficenza di pesca stimolati dal progresso tecnologico. Ciò ha portato all’impoverimento delle risorse ittiche determinando effetti negativi sia in termini ecologici che socio-economici. Tradizionalmente la gestione della pesca si è basata sulla massimizzazione delle catture di singole specie bersaglio, ignorando gli effetti sugli habitat, sulle interazioni trofiche tra le specie sfruttate e le specie non bersaglio, e su altre componenti dell’ecosistema. Questo ha portato al depauperamento delle risorse e all’alterazione della struttura e funzionamento degli ecosistemi, rendendo le misure gestionali spesso inefficaci. Per questo motivo è necessario applicare una gestione della pesca basata sull’ecosistema (Ecosystem-based fishery management), che ha come obiettivi: prevenire o contenere l’alterazione indotta dalla pesca sull’ ecosistema, valutata mediante l’applicazione di indicatori; tenere in considerazione gli effetti indiretti del prelievo sull’insieme delle componenti dell’ecosistema e non solo sulle specie bersaglio (cascading effect); proteggere habitat essenziali per il completamento del ciclo vitale di diverse specie; tutelare importanti componenti dell’ecosistema (keystone species) da pratiche di pesca distruttive; monitorare affinchè le attività antropiche non compromettano le caratteristiche di struttura delle comunità biotiche, per preservare caratteristiche funzionali quali la resilienza e la resistenza dell’ecosistema, prevenendo cambiamenti che potrebbero essere irreversibili (regime-shifts). A tale scopo è necessario essere in possesso di adeguate conoscenze relative alle caratteristiche ecologiche ed allo stato degli stock sfruttati, monitorandone le dinamiche e consentendo l’applicazione di modalità gestionali adeguate. L’approccio ecosistemico alla gestione della pesca prevede l’applicazione di indicatori che siano in grado di descrivere lo stato degli ecosistemi marini, le pressioni antropiche esercitate su di essi e gli effetti di eventuali politiche gestionali sull’ambiente marino e sulla società. Nell’ambito dell’ecologia storica l’Alto Adriatico rappresenta un caso di studio interessante, sia per la disponibilità di fonti storiche, sia perché è un ecosistema che nei secoli ha subito diversi impatti ed alterazioni. La presente tesi di dottorato si inserisce nell’ambito del progetto internazionale History of Marine Animal Populations (HMAP), la componente storica del Census of Marine Life (CoML), uno studio decennale (che si concluderà nel 2010) per valutare e spiegare i cambiamenti della diversità, della distribuzione e dell’abbondanza della vita negli oceani nel passato, nel presente e nel futuro. HMAP è un progetto multidisciplinare che, attraverso una lettura in chiave ecologica delle interazioni storiche tra uomo e ambiente, ha come obiettivo la ricostruzione delle dinamiche a lungo termine degli ecosistemi marini e delle forzanti (sia naturali che antropiche) che li hanno influenzati. Tale ricostruzione permette di migliorare la nostra comprensione dei processi ecologici, di ridefinire i punti di riferimento sullo stato dell’ecosistema (historical baseline), e di valutare la variabilità naturale su ampia scala temporale (historical range of variation). Gli obiettivi del presente progetto di dottorato sono: i) descrivere le attività di pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli, quale principale forzante che ha agito sull’ecosistema; ii) analizzare i cambiamenti a lungo termine della struttura della comunità marina; iii) valutare ed interpretare i cambiamenti intercorsi mediante applicazione di indicatori. Allo scopo è stata condotta un’estensiva ricerca bibliografica nei principali archivi storici e biblioteche di Venezia, Chioggia, Trieste, Roma e Spalato al fine di individuare, catalogare e acquisire informazioni e dati sulle popolazioni marine e le attività di pesca nell’Alto Adriatico nel 19° e 20° secolo. La tipologia delle fonti raccolte include documenti storici e archivistici, cataloghi di specie, fonti statistiche come i dati di sbarcato dei mercati ittici e informazioni sulla consistenza delle flotte e gli attrezzi da pesca utilizzati. Si rileva come la ricerca d’archivio abbia evidenziato un’ampia disponibilità di documenti storici, inerenti sia le popolazioni marine che le attività di pesca. La tesi è organizzata in tre capitoli. Il primo è parzialmente tratto dal libro “T. Fortibuoni, O. Giovanardi, e S. Raicevich, 2009. Un altro mare. Edizioni Associazione Tegnue di Chioggia – onlus, 221 pp.” e ricostruisce la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli; il secondo rappresenta una versione estesa del manoscritto “T. Fortibuoni, S. Libralato, S. Raicevich, O. Giovanardi e C. Solidoro. Coding early naturalists’ accounts into historical fish community changes” (attualmente sottomesso presso rivista internazionale ISI), e ricostruisce, attraverso l’intercalibrazione ed integrazione di fonti qualitative e quantitative, i cambiamenti della struttura della comunità ittica avvenuti tra il 1800 e il 2000; il terzo capitolo analizza, mediante l’applicazione di indicatori, i cambiamenti qualitativi e quantitativi della produzione alieutica dell’Alto Adriatico dal secondo dopoguerra ad oggi (1945-2008), inferendo informazioni sui cambiamenti cui è stata sottoposta la comunità marina alla luce di diverse forzanti (manoscritto in preparazione). L’obiettivo del primo capitolo è descrivere l’evoluzione della capacità di pesca, principale forzante che storicamente ha interagito con l’ecosistema marino, in Alto Adriatico dal 1800 ad oggi. La diversificazione, sia per varietà di attrezzi utilizzati che per la molteplicità delle specie sfruttate, delle attività di pesca storicamente condotte in Alto Adriatico è un tratto caratteristico di tale area. Le differenze morfologiche e biologiche delle due sponde, occidentale e orientale, e le diverse vicende storiche e politiche, hanno portato infatti ad uno sviluppo delle attività di pesca nettamente diversificato. Sulla sponda orientale la pesca ha rappresentato, almeno fino all’inizio del 20° secolo, un’attività di sussistenza. Era praticata quasi esclusivamente nelle acque costiere, con un’ampia varietà di attrezzi artigianali e mono-specifici, concepiti cioè per lo sfruttamento di poche specie e adattati a particolari ambienti. Al contrario, lungo la costa occidentale operavano flotte ben sviluppate, come quella di Chioggia, che si dedicavano alla pesca in mare su entrambe le sponde adriatiche con attrezzi a strascico, compiendo migrazioni stagionali tra le due sponde per seguire le migrazioni del pesce. La capacità di pesca in Alto Adriatico è aumentata a partire dalla seconda metà del 19° secolo, periodo in cui si è osservato uno sviluppo sia in termini di numero di imbarcazioni che di addetti, grazie ad una congiuntura economica, sociale e storica favorevole. Fino alla I Guerra Mondiale, però, le tecniche di pesca sono rimaste pressoché invariate, e le attività erano condotte con barche a vela o a remi. Già all’inizio del 20° secolo l’Alto Adriatico era sottoposto ad un’intensa attività di pesca che, compatibilmente con le tecnologie disponibili all’epoca, riguardava principalmente le aree costiere, mentre l’attività era più moderata in alto mare. Durante la II Guerra Mondiale si è assistito al fermo quasi totale della pesca, con conseguente disarmo della maggior parte dei pescherecci. Nell’immediato dopoguerra il numero di imbarcazioni è aumentato molto velocemente, e sono state introdotte alcune innovazioni che in breve tempo hanno cambiato radicalmente le attività di pesca tradizionali (industrializzazione della pesca). Innanzitutto l’introduzione del motore, con conseguente espansione delle aree di pesca ed aumento delle giornate in mare, grazie all’indipendenza della navigazione dalle condizioni di vento. Il motore ha anche permesso l’introduzione di nuovi attrezzi da pesca, più efficienti ma al contempo più impattanti, che richiedono un’elevata potenza per essere manovrati (ad esempio il rapido e la draga idraulica). Altre innovazioni hanno determinato un miglioramento delle condizioni dei pescatori e un aumento consistente delle catture. Analizzando la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli si possono quindi distinguere principalmente due periodi diversi: pre-1950, quando aveva notevole importanza su entrambe le coste la pesca strettamente costiera, praticata con attrezzi artigianali e mono-specifici, mentre la pesca a strascico in mare aperto era prerogativa delle flotte italiane (ed in particolare di Chioggia) ed era praticata con barche a vela; il periodo successivo al 1950, che ha visto l’introduzione del motore, un aumento esponenziale del tonnellaggio e del numero di barche e la sostituzione graduale di attrezzi artigianali mono-specifici con attrezzi multi-specifici ad elevato impatto. Se nel primo periodo la pesca si basava sulle conoscenze ecologiche del pescatore, che adattava le proprie tecniche in funzione della stagione, dell’habitat e degli spostamenti delle specie, nel secondo si è visto un maggior investimento nella tecnologia e nell’utilizzo di attrezzi multi-specifici. Negli ultimi vent’anni la capacità di pesca delle principali flotte italiane operanti in Alto Adriatico si è stabilizzata su valori elevati, e in alcune marinerie all’inizio del 21° secolo è iniziata una lieve diminuzione, in linea con i dettami della Politica Comune della Pesca dell’Unione Europea. A tutt’oggi comunque lo sforzo di pesca in questo ecosistema è molto elevato; ad esempio, alcuni fondali possono essere disturbati dalla pesca a strascico con intensità superiori a dieci volte in un anno, determinando un disturbo cronico su habitat e biota. Il secondo capitolo presenta una nuova metodologia per intercalibrare ed integrare informazioni qualitative e quantitative sull’abbondanza delle specie, per ottenere una descrizione semi-quantitativa della comunità ittica su ampia scala temporale. La disponibilità di dati quantitativi sulle popolazioni marine dell’Alto Adriatico prima della seconda metà del 20° secolo è, infatti, scarsa, e la ricostruzione di cambiamenti a lungo termine richiede l’integrazione e l’analisi di dati provenienti da altre tipologie di fonti (proxy), tra cui i cataloghi dei naturalisti e le statistiche di sbarcato dei mercati ittici. Le opere dei naturalisti rappresentano la principale e più completa fonte d’informazione sulle popolazioni ittiche dell’Alto Adriatico nel 19° secolo e almeno fino alla seconda metà del 20° secolo. Consistono in cataloghi di specie in cui ne vengono descritte l’abbondanza (in termini qualitativi: ad esempio raro, comune, molto comune), le aree di distribuzione, la taglia, gli aspetti riproduttivi e altre informazioni ancillari. Sono stati raccolti trentasei cataloghi di specie per il periodo 1818-1956, in cui sono descritte un totale di 255 specie ittiche. I dati di sbarcato costituiscono l’unica fonte quantitativa per un elevato numero di specie disponibile per l’Alto Adriatico a partire dalla fine del 19° secolo. I dati utilizzati nel presente lavoro sono riferiti ai principali mercati e aree di pesca dell’Alto Adriatico e coprono il periodo 1874-2000, e sono espressi come peso umido di specie o gruppi di specie commerciate in un anno (kg/anno). Poiché i naturalisti basavano le proprie valutazioni sull’abbondanza delle specie su osservazioni fatte presso mercati ittici, porti e interviste a pescatori, è stato possibile sviluppare una metodologia per intercalibrare ed integrare le due fonti di dati, permettendo un’analisi di lungo periodo dei cambiamenti della comunità ittica. L’intercalibrazione e l’integrazione dei due datasets ha infatti permesso di descrivere, con una scala semi-quantitativa, l’abbondanza di circa 90 taxa nell’arco di due secoli (1800-2000). Mediante l’applicazione di indicatori basati sulle caratteristiche ecologiche dei taxon è stato così possibile analizzare cambiamenti a lungo termine della comunità ittica. Sono stati evidenziati segnali di cambiamento che precedono l’industrializzazione della pesca, con una diminuzione significativa dell’abbondanza relativa dei predatori apicali (pesci cartilaginei e specie di taglia elevata) e delle specie più vulnerabili (specie che raggiungono la maturità sessuale tardi). Questo lavoro rappresenta uno dei pochi casi in cui è stato studiato il cambiamento della struttura di un’intera comunità ittica su un’ampia scala temporale (due secoli), e presenta una nuova metodologia per l’intercalibrazione ed integrazione di dati qualitativi e quantitativi. In particolare le testimonianze dirette dei naturalisti – considerate per molto tempo dai biologi della pesca “aneddoti” e non “scienza” – si sono rilevate un’ottima fonte per ricostruire cambiamenti a lungo termine delle comunità marine. La metodologia elaborata in questo lavoro può essere estesa ad altri casi-studio in cui è necessario integrare informazioni qualitative e quantitative, permettendo di estrarre nuove informazioni da vecchie – e talvolta sottovalutate – fonti, e riscoprire l’importanza delle testimonianze di naturalisti, viaggiatori e storici. Il terzo capitolo affronta un’analisi quantitativa dei cambiamenti ecologici dell’Alto Adriatico, condotta mediante analisi dello sbarcato del Mercato Ittico di Chioggia tra il 1945 e il 2008 e l’applicazione di indicatori. È stato scelto questo mercato per la disponibilità di dati per un ampio periodo storico (circa 60 anni), che ha permesso di valutare i cambiamenti avvenuti in un arco di tempo in cui si è assistito all’industrializzazione, ad una rapida ascesa e al successivo declino della pesca. Chioggia rappresenta il principale mercato ittico dell’Alto Adriatico rifornito dalla più consistente flotta peschereccia dell’area, che sfrutta sia zone costiere che di mare aperto. Oltre ad un’analisi dell’andamento temporale dello sbarcato totale, sono stati applicati alcuni indicatori trofodinamici (livello trofico medio, Fishing-in-Balance, Relative Price Index e rapporto Pelagici/Demersali) e indicatori basati sulle caratteristiche di life-history delle specie (lunghezza media della comunità ittica e rapporto Elasmobranchi/Teleostei). L’utilizzo complementare di più indicatori, sensibili in misura diversa alle fonti di disturbo ecologico e riferite a diverse proprietà emergenti dell’ecosistema e delle relative caratteristiche strutturali, ha permesso di descrivere i cambiamenti avvenuti dal secondo dopoguerra ad oggi e identificare le potenziali forzanti che hanno agito sull’ecosistema. Ad una rapida espansione della pesca, cui è conseguito un aumento significativo delle catture (che hanno raggiunto il massimo negli anni ’80), è seguita una fase di acuta crisi ambientale. L’effetto sinergico di diverse forzanti (pesca, eutrofizzazione, crisi anossiche, fioriture di mucillaggini) ha modificato la struttura e la composizione della comunità biologica, inducendo una graduale semplificazione della rete trofica. Fino agli anni ’80 l’aumento della produttività legato all’incremento di apporto di nutrienti ha sostenuto l’elevata e crescente pressione di pesca, malgrado progressivi cambiamenti strutturali della comunità (regime-shifts), rendendo l’Adriatico il più pescoso mare italiano. Successivamente il sistema sembra essere entrato in una situazione di instabilità, manifestatasi con un drastico calo della produzione alieutica, bloom di meduse (soprattutto Pelagia noctiluca), maree rosse (fioriture di dinoflagellati potenzialmente tossici), crisi anossiche e conseguenti mortalità di massa, regressione di alcune specie importanti per la pesca come la vongola (Chamelea gallina), e fioriture sempre più frequenti di mucillaggini. L’analisi conferma che la sovra-pesca ha agito da pre-requisito perché altre forme di alterazione si manifestassero, e attualmente non sono evidenti segnali di recupero, probabilmente a causa sia di una diminuzione della produttività primaria che della pressione cronica e tuttora crescente indotta dalla pesca. L’approccio di ecologia storica utilizzato ha permesso di ricostruire la storia della pesca in Alto Adriatico, evidenziandone le dinamiche di sviluppo, i cambiamenti tecnologici, strutturali e di pressione ambientale. L’insieme delle analisi e delle fonti raccolte ha permesso di ricostruire - in termini semi-quantitativi - le attività di pesca in Alto Adriatico dal 19° secolo a oggi, analizzare i cambiamenti della comunità ittica nell’arco di due secoli, e infine approfondire le analisi per gli ultimi sessanta anni attraverso l’applicazione di indicatori quantitativi. Da questo studio emerge come già all’inizio del 20° secolo la pesca fosse pienamente sviluppata nell’area, causando cambiamenti strutturali nella comunità ittica, ben prima dell’industrializzazione. Dal secondo dopoguerra si è verificato un rapido incremento dell’intensità delle diverse forzanti antropiche, il cui effetto sinergico ha alterato profondamente l’ecosistema portandolo ad uno stato di inabilità, culminato in gravi crisi ambientali e un netto calo della produzione alieutica.
XXII Ciclo
1979
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31

Hubina, Tatsiana. « Development of a GIS to estimate the effect of abiotic factors on the abundance of waterbirds in the Grado-Marano Lagoon ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3168.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
L’obiettivo di questa tesi è valutare l’influenza di vari fattori biotici e abiotici che possono influenzare l’abbondanza degli uccelli acquatici nella laguna di Grado e Marano. La laguna di Grado e Marano è situata nel NE del mare Adriatico e ha un’estensione approssimativa di 160 km2. Il passo introduttivo nell’implementazione della struttura del progetto è stato individuare un sistema innovativo per la raccolta, la standardizzazione e l’archiviazione dei dati ornitologici. Immagini satellitari ASTER sono state utilizzate per classificare differenti tipi di habitat, incluse le praterie di fanerogame. Nel Sistema Informativo Geografico sono state incluse quattro variabili abiotiche (azoto e fosforo totale, salinità e tessitura del sedimento) e tre fattori biotici (comunità bentonica, praterie di fanerogame e l’abbondanza degli uccelli acquatici presenti (Mean values: December 2006, January and February 2007), raggruppati in unita funzionali o guilds). Una griglia UTM con celle di grandezza 1km x 1km (Operational Geographic Units, OGU), è stata sovrapposta all’intera laguna. Per definire le unità ecologiche sono state applicate la classificazione gerarchica e l’analisi delle componenti principali. Da ultimo è stata usata l’analisi di corrispondenza per esaminare la relazione tra uccelli acquatici raggruppati in guilds e le unità ecologiche. L’integrazione dei metodi standard di censimento con i database relazionali per archiviare e analizzare i dati ornitologici, con le tecniche di telerilevamento e di GIS e con i metodi di analisi multivariata, rappresenta un set di strumenti efficienti e potenti per il monitoraggio integrato della laguna. Il soddisfacente risultato ottenuto si potrebbe applicare per ottenere un miglioramento della struttura gestionale di numerose zone umide dell’Adriatico. The purpose of this thesis is to estimate the influence of several biotic and abiotic factors on the abundance of waterbirds in the Grado-Marano Lagoon. The Grado-Marano Lagoon is situated in the Northeast of the Adriatic Sea with an extension of approximately 160 km2. Design of an innovative system for ornithological data gathering, standardisation and storage has been an initial step in the whole project structure. Waterbirds census was carried out by periodically monitoring the bird population over a two-year period (July 2006- July 2008). The present research is making use of the integrated waterbirds census database December 2006 - February 2007 (Daylight Time Counts completed by Aerial Surveys). Terrestrial and aerial survey methods allowed us to describe bird density and habitat use. An Advanced Spaceborne Thermal Emission and Reflection Radiometer (ASTER) satellite images were utilized to classify different types of morphologies and habitat, including sea grass meadows. Four abiotic factors (total nitrogen, total phosphorous, salinity and sediment texture) and three biotic factors (benthic community, sea grass meadows and waterbird guild abundance) were integrated into a GIS. The flexibility of the procedure proposed in this PhD research depends on the concept of the Operational Geographic Unit (OGU) as a useful tool to integrate in a GIS georeferenced multisource data A regular UTM grid of square cells (OGU), 1km × 1km, was superimposed on the entire lagoon. Using the Hierarchical Cluster Analysis technique it was possible to delineate ecological units (clusters of OGUs) and Principal Component Analysis was used to reduce the dimensionality of the factors considered. Subsequently, Correspondence Analysis (CA) was used to examine the relationship between waterbird guild abundance and ecological units. The results obtained from this study show that sea grass meadows represent a fundamental trophic resource for aquatic birdlife in the lagoon. It is therefore indispensable to assess the distribution of phanerogam meadows and to identify the principal ecological parameters. In this context, GIS techniques allow us to integrate significant amounts of environmental data and multivariate analysis helps us to reduce the dimensionality of the data set. The integration of standard waterbirds census methods, relational databases for the ornithological data storing and analysis, remote sensing techniques, GIS technologies and multivariate statistical methods provides us with a set of powerful and efficient tool for lagoon integrated monitoring. It demonstrates the promising potentials in reforming the management frameworks of the numerous coastal wetlands in the Adriatic.
XXI Ciclo
1979
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32

Di, Monte Luca. « Idrocarburi policiclici aromatici in aria, suoli e biota. Studi analitici ed ambientali su sorgenti, distribuzione e bioaccumulo nella provincia di Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3166.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
Gli Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), generati da processi di combustione o dispersi a seguito di sversamenti di petroli, risultano essere tra i microinquinanti organici più diffusi nell’ambiente. Essi sono spesso veicolati dal particolato atmosferico emesso da sorgenti in cui avvengono combustioni incomplete, quali motori presenti in autoveicoli o navi, sistemi di riscaldamento, impianti industriali. Le emissioni possono quindi contaminare il comparto atmosferico e le deposizioni secche o umide di particolato aerodisperso trasferiscono gli inquinanti a suoli, specchi d’acqua e indirettamente ad organismi viventi. Un ulteriore elemento di possibile criticità ambientale è associato ai residui solidi della combustione (es. ceneri pesanti), che possono contenere vari microinquinanti, tra cui gli idrocarburi policiclici aromatici, che hanno un potenziale tossico e cancerogeno, e che nel passato sono stati smaltiti sul territorio in discariche non sempre adeguatamente costruite e gestite. Lo studio sviluppato per la preparazione della presente tesi riguarda un ambito territoriale costiero, compreso tra Trieste e Muggia, in cui insiste – accanto a sorgenti comuni e diffuse quali il traffico auto-veicolare e portuale, impianti di riscaldamento e attività industriali quali un cementificio ed un inceneritore – una sorgente di idrocarburi policiclici aromatici di una certa rilevanza, costituita da una cokeria che è parte dell’impianto siderurgico a ciclo integrale situato nel rione di Servola, a Trieste. Il processo di distillazione del carbone, in particolare quando avviene in modo imperfetto ed in impianti di vecchia concezione, è una sorgente emissiva di contaminanti che non permette il rispetto degli standard ambientali nella sua prossimità, in particolare per quel che riguarda gli IPA e il particolato aerodisperso. Un significativo lavoro di caratterizzazione ambientale nella prossimità dell’impianto è stato eseguito dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del Friuli Venezia Giulia, che mette in atto campagne di monitoraggio istituzionale. Il presente lavoro, svolto nell’ambito del dottorato di ricerca, si è posto l’obiettivo di fornire informazioni complementari ed integrative al quadro ambientale disponibile, mettendo a punto procedure analitiche e di campionamento robuste che consentano di integrare i dati generati dalla ricerca universitaria con quelli prodotti dagli organi istituzionali di controllo ambientale. Una prima serie di campagne di indagini, svolta tra febbraio e luglio del 2006, ha consentito di determinare le concentrazioni di IPA nelle polveri fini, campionando per la prima volta il PM2.5 nel territorio giuliano, in un sito urbano a Trieste e in un sito posizionato lungo la costa, sottovento, rispetto ai venti prevalenti, alla zona industriale e portuale, che è potenziale sorgente di inquinanti organici persistenti. Le concentrazioni di PM2.5 risultano più critiche rispetto ai valori obiettivo di quanto lo sia il PM10 rispetto ai limiti vigenti. Sono stati determinati gli IPA nel PM2.5, in collaborazione con ARPA-FVG, evidenziando situazioni comparabili e non critiche rispetto al valore obiettivo per le concentrazione di benzo[a]pirene in atmosfera, con sporadici sforamenti rispetto alla media annuale di 1ng·m-3. È stata rilevata una marcata stagionalità nelle concentrazioni di IPA, con valori relativamente elevati in inverno e molto bassi in estate. La presenza di maggiori concentrazioni di ossidanti in atmosfera nel periodo estivo, attesa ad esempio per l’ozono, può giocare un ruolo, non ancora esplorato, nell’abbassare le concentrazioni di IPA nel particolato. È stata quindi messa a punto, presso i laboratori universitari, una procedura di trattamento dei campioni – basata sull’estrazione accelerata con solvente e su uno stadio di purificazione dell’estratto – e di analisi degli IPA in gas cromatografia accoppiata alla spettrometria di massa, che ha consentito di indagare, con modeste modifiche, matrici diverse provenienti da vari comparti ecologici. La validità della filiera analitica è stata verificata con la determinazione delle concentrazioni di IPA in matrici certificate (mitili liofilizzati SRM2977, sedimento di porto di acqua dolce BCR535, fango di impianto di trattamento BCR088) e con un'intercalibrazione con i laboratori ISPRA, ARPA-FVG ed INCA di Marghera per le analisi sul particolato atmosferico. Nella seconda serie di indagini si sono eseguiti monitoraggi nell’arco di otto mesi del 2007, campionando gli IPA aerodispersi totali (su filtro per le polveri totali sospese e su schiuma poliuretanica per la frazione più volatile), PM10 e PM2.5 in prossimità del perimetro dell’impianto siderurgico presente nel rione di Servola a Trieste ed in un sito relativamente remoto identificato nei pressi dell'Università. La caratterizzazione sperimentale della contaminazione da IPA aerodispersi ha permesso di identificare nella cokeria una sorgente di IPA molto rilevante. Si sono determinate concentrazioni totali di benzo[a]pirene (BaP) aerodisperso (nelle immediate vicinanze della Ferriera quasi sempre oltre il valore obiettivo medio annuale di 1ng·m-3) e di IPA totali, che risultano mediamente 100 volte superiori a quelli misurati presso l'Università (presso la quale non si sono mai registrati valori critici). Si è potuto mostrare anche come i profili di concentrazione degli IPA nei due siti (distanti quasi cinque chilometri) siano molto simili; contributi da altre sorgenti (es. emissioni tipicamente urbane come traffico veicolare e riscaldamento domestico/aziendale) non risultano marcatamente evidenti nel periodo di osservazione considerato. Anche a seguito dei risultati della seconda campagna, sono stati implementati degli adeguamenti per diminuire le emissioni incontrollate dall’impianto. Una validazione dei risultati sperimentali conseguiti durante tale campagna di monitoraggio è stata effettuata grazie ad un interconfronto in cui sono stati coinvolti i laboratori dell'Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici (ora ISPRA), dell'ARPA Friuli Venezia Giulia, del Consorzio Interuniversitario INCA di Marghera e dell’Unità di Ricerca in Chimica Ambientale dell’Università. I risultati dell'interconfronto hanno confermato la buona qualità delle metodologie di campionamento e analisi eseguite presso i nostri laboratori, dando un riscontro positivo sulle prestazioni sulle analisi di IPA nel particolato atmosferico, ma anche in fanghi e sedimenti. A seguito di ciò si sono iniziate caratterizzazioni di suoli – nell’ambito di sperimentazioni sul fitorimedio di siti contaminati da IPA – non riportate nella presente tesi. Un’ulteriore campagna di campionamenti ed analisi è stata svolta nel 2008, raccogliendo campioni di particolato atmosferico nell'area abitata di Servola, focalizzando l’attenzione sul contenuto di BaP nel particolato PM10, secondo una norma entrata in vigore con il Decreto Legislativo 152/07 pubblicato il 13 settembre 2007, che recepisce la direttiva europea 2004/107/CE e con il recepimento della norma tecnica EN 15549:2008. Ciò ha comportato una ritaratura delle metodiche di campionamento; in particolare sono stati scelti due siti di campionamento rappresentativi di aree abitate a Servola (“ex-Scuola” e via Pitacco) sono stati acquisiti campionatori di PM10 ad alto volume, integrando la rete di monitoraggio di ARPA-FVG con informazioni nel centro abitato prossimo all’impianto. I risultati di questa campagna di campionamento – conseguiti successivamente agli adeguamenti impiantistici della Ferriera – evidenziano come nelle aree prese in esame le situazioni di criticità riscontrate nelle precedenti campagne non vengano registrate; si verificano ancora sforamenti del valore limite di PM10 di 50μg·m-3, ma gli sforamenti al valore obiettivo di BaP di 1ng·m-3, sono molto più sporadici (1 sforamento su 43 giornate nel sito “ex-Scuola”, e 6 sforamenti su 47 in via Pitacco). Si è ritrovata una stagionalità nell'andamento delle concentrazioni di PM10 e di BaP nell'aria, con situazioni più critiche registrate nei mesi invernali. La presenza degli IPA è stata indagata anche nel comparto marino, vicino alla sorgente industriale di IPA aerodispersi. L'indagine sul bioaccumulo di IPA in Mytilus galloprovincialis nello specchio di mare prossimo all’impianto siderurgico e al terminal petroli – finalizzata ad evidenziare l’ingresso degli IPA nelle acque costiere ed in particolare la possibile contaminazione del biota a seguito di esposizioni di breve durata (cinque mesi) – ha fornito indicazioni sulle cinetiche di bioaccumulo caratteristiche delle diverse situazioni ambientali considerate, evidenziando una situazione di criticità nei pressi dell'area industriale ed una elevata biodisponibilità degli IPA disciolti in quello specchio d'acqua. La differenziazione delle analisi in diversi organi bersaglio (epatopancreas, branchie ed il resto del corpo) e l'integrazione dei livelli di contaminazione rilevati nei tessuti con il contenuto lipidico degli stessi ha mostrato una correlazione diretta fra livello di IPA accumulati e contenuto lipidico, confermando l'epatopancreas come organo bersaglio per l’accumulo di questa classe di inquinanti idrofobici. L'utilizzo di un organismo bioaccumulatore come Mytilus galloprovincialis si è rivelato essere un utile mezzo per la valutazione del grado di contaminazione di acque marine soggette a forte pressione antropica, anche in campagne di misura di durata relativamente breve. In conclusione, grazie all'attività svolta nel presente dottorato di ricerca è stato possibile approfondire vari aspetti sull'entità della contaminazione da idrocarburi policiclici aromatici sul territorio triestino, evidenziando alcune criticità in prossimità dell'impianto siderurgico di Servola. Misure di mitigazione delle emissioni in atmosfera, attuate durante l’arco di sviluppo del lavoro qui riportato, paiono contenere significativamente la criticità correlabile alla presenza di questi cancerogeni nell’aria ambiente. IPA bioaccumulabili sono tuttavia ancora significativamente presenti nelle acque costiere antistanti l’area industriale di Servola. Gli sviluppi del lavoro qui riportato sono orientati allo studio dei processi che modificano stagionalmente le concentrazioni degli IPA nel particolato, associabili all’azione di ossidanti atmosferici, quali l’ozono, sul PMX raccolto sui filtri e sull’impiego delle metodologie di estrazione ed analisi messe a punto per lo studio della contaminazione di campioni biologici, sedimenti e terreni. Si sono iniziati studi ad esempio nel contesto della valutazione di tecniche di fitorimedio per il recupero di aree contaminate da idrocarburi policiclici aromatici e ricerche in merito all'uso di gasteropodi terrestri e marini come bioaccumulatori di IPA, per la valutazione di potenziali rischi per l’ecosistema e la salute umana in siti inquinati.
XXI Ciclo
1974
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COSTANTINI, MARCO. « METODOLOGIE DI BIOMONITORAGGIO ACUSTICO DELLA FAUNA ITTICA. APPLICAZIONE NELLA VALUTAZIONE DELL'IMPATTO ANTROPICO, GESTIONE E CONSERVAZIONE DI SPECIE ED AREE D'INTERESSE ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2004. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12498.

Texte intégral
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