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Imbach, Ruedi. « »Aus Liebe zur Wahrheit« ». Deutsches Dante-Jahrbuch 95, no 1 (23 septembre 2020) : 22–37. http://dx.doi.org/10.1515/dante-2020-0003.

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Résumé :
RiassuntoIl contributo si dedica all’ultima opera dantesca, la »quaestio disputata« in cui gli elementi acqua e terra occupano una posizione cruciale. Se l’opera, la cui autenticità viene messa in dubbio da alcuni studiosi, è effettivamente da attribuire a Dante, essa sarebbe di grande rilievo per la comprensione della personalità intellettuale di Dante. Per valutare questo scritto, nel quale si vuole provare che la terra occupa una posizione più alta rispetto all’acqua, non importa in primo luogo il modo in cui si risolve la questione di filosofia naturale, ma il modo in cui viene affrontato il problema cosmologico. L’autore sottolinea di voler trattare il problema esclusivamente dal punto di vista della filosofia naturale. Oltre a ciò, Dante in questo testo viene presentato (o presenta se stesso!) come filosofo, anche se come il minore tra tutti i filosofi.
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O'Grady, Deirdre. « Da Dante a Mercadante : Francesca da Rimini voce del belcanto ottocentesco ». Dante e l'Arte 8 (7 mars 2022) : 183–202. http://dx.doi.org/10.5565/rev/dea.145.

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Résumé :
Questo studio rintraccia l’evoluzione della figura di Francesca da Rimini da voce poetica dantesca, a voce scenica del Romanticismo italiano per arrivare sulla scena lirica ottocentesca in veste di primadonna, espressione del belcanto ottocentesco. In questo nuovo contesto Francesca si esprime come voce del Romanticismo medievale. Questo itinerario la libera dall’essere strumento della dottrina tomistica per diventare una figura che medita su una filosofia tutta nuova, che la spinge a riflettere sulla natura della colpevolezza e sul suo rapporto con l’innocenza. Nel campo della musica, il manoscritto riscoperto ci spinge a una rivisitazione delle voci e della tecnica vocale dei grandi interpreti dell’Ottocento e anche a una riconsiderazione della voce di tenore del periodo. Dalla poesia di Dante si passa al teatro di Pellico, al libretto di Romani per riscoprire il Personaggio lirico senza Interprete.
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Ribeiro, Anne Caroline do Nascimento, et Juciane dos Santos Cavalheiro. « Entre a entidade terrena e deífica de Beatriz : transfigurações da musa dantesca em Vida Nova e na Divina Comédia ». Revista de Italianística, no 43 (31 décembre 2021) : 36–50. http://dx.doi.org/10.11606/issn.2238-8281.i43p36-50.

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Neste estudo, centrar-nos-emos na inspiração máxima de Dante Alighieri, Beatriz. Um dos grandes trunfos da musa – e de Dante, ao construí-la de forma tão elaborada – encontra-se na transmutação que a personagem recebe nas obras de Dante: no amor cortês e stilnovista de Vida Nova, na filosofia de Convívio, e nas alegorias e na teologia de A Divina Comédia, é possível, através dela, tecer uma representação não apenas da intelectualidade do homem medieval, mas também das diferentes representações da mulher na literatura do trecento. É na personagem que também encontramos o maior símbolo desta escola literária italiana, que nos permitirá divisar o auge da concepção da mulher como figura beatificada na Idade Média. Beatriz, como uma figura profética, traz consigo a gênese da literatura italiana. Por exprimir tal efeito de transformação em cada obra dantesca e por se constituir de sentidos que se suplementam e, ao mesmo tempo, que denotam a mudança gradual da personagem, iniciaremos tratando da gênese de Beatriz em Vida Nova até sua transfiguração post mortem na Comédia.
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Verdicchio, Massimo. « Vico lettore di Dante ». Quaderni d'italianistica 28, no 2 (1 juin 2007) : 103–17. http://dx.doi.org/10.33137/q.i..v28i2.8523.

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La molta discussa questione del rapporto tra Dante e Vico, che ha visto la critica favorire una lettura di Dante come uno dei primi poeti vichiani subordinato alla maggiore filosofìa di Vico viene qui ripresa in esame e decisa nei termini di una distinzione del concetto di errore. Da questa prospettiva diventa facile vedere come la concezione dantesca non sia simbolica come quella dei generi fantastici dei primi poeti del genere umano ma, al contrario, costituisca per Dante l'errore di ogni rappresentazione poetica. In questi termini si può prospettare che quella vichiana del verum factum, su cui si fonda la possibilità di scienza, e garantisce ad ogni lettore di fare e accertare per sé la propria scienza, implichi invece una concezione simbolica, e quindi una forma concettuale più regressiva e primitiva rispetto a quella dantesca.
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Ippolito, Antonella. « Vom »aer perso« zum »giallo de la rosa sempiterna« : Farbabstufungen von Luft und Erde in der ›Landschaft‹ der Commedia ». Deutsches Dante-Jahrbuch 95, no 1 (23 septembre 2020) : 53–68. http://dx.doi.org/10.1515/dante-2020-0005.

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Résumé :
Riassunto Il contributo prende in esame gli effetti cromatici associati nella Divina Commedia alla rappresentazione di aria e terra. Partendo dalle premesse teoriche alla base della concezione dantesca del colore, come pure dal rapporto con la concezione patristica e medievale che vede nell’aer caliginosus la sede delle potenze diaboliche, si mostrano i connotati metaforici dell’oscurità e della densità dell’aria, che rinviano alla correlazione tra tenebre e peccato, ma anche, in un’ottica filosofica, tra tenebre e lontananza dal vero. Riferimenti a precise tonalità acquistano inoltre una funzione chiave che rivela i livelli di significato interni al testo, in relazione all’impianto metaforico dell’intero poema. Nel corso dell’analisi, inoltre, uno sguardo ad una selezione di esempi consente di osservare come gli aspetti discussi si riflettano nelle illustrazioni medievali della Commedia.
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Fanini, Barbara. « Trasformazioni della materia e moti celesti. » DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia, no 1 (28 mars 2022) : 124–46. http://dx.doi.org/10.35948/dilef/2022.3281.

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Résumé :
AbstractIl contributo prende in esame alcuni tecnicismi propri della filosofia naturale medievale che risultano attestati in volgare per la prima volta proprio grazie al poema dantesco (come denso, esalazione ecc.). Un'attenzione particolare è dedicata anche al ruolo svolto dai più antichi esegeti della Commedia nell'introduzione e nella diffusione di tale lessico.The essay focuses on some technicalities typical of medieval natural philosophy that are documented in the ancient italian for the first time through the Divine Comedy (such as denso, esalazione etc.). Particular attention is also dedicated to the role played by the commentaries of the 14th century in the dissemination of this lexicon.
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Costa de Freitas, Jan Clefferson, et Jennifer Sarah Cooper. « Flanelinha-Flagelado/Lightboy Lash ». Cadernos Cajuína 2, no 3 (19 novembre 2017) : 128. http://dx.doi.org/10.52641/cadcaj.v2i3.168.

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<p><strong>Flanelinha-flagelado </strong></p><p> </p><p>Abastardado enquanto poeta,</p><p>Quebrei garrafas na minha cabeça:</p><p>Em paraísos artificiais de tinta dantesca,</p><p>Onde antecipei o punk ao ser pateta;</p><p> </p><p>Estou rugindo sobre tudo que não presta,</p><p>Desgovernando a grande força que afasta:</p><p>Lati famélico e depois caí na praça,</p><p>Com ares cínicos a vida é uma festa;</p><p> </p><p>As minhas letras são escritas em fumaça,</p><p>Por isso todas vêm jogadas e dispersas:</p><p>Longe lançadas como tempo que se passa,</p><p>Caminhando todo torto em linhas retas.</p><p> </p><p>Atravessando brechas e atirando farpas,</p><p>Espinhos do mal perfurando as épocas,</p><p>Fazer dos crânios as melhores taças,</p><p>Bebendo ao feio na poesia destas.</p><p> </p><p>A minha contribuição aqui foi esta:</p><p>Deixar meus sonhos e também poemas;</p><p>Como se meus delitos fossem minhas penas,</p><p>Vi-me morrer sangrando, tipo um estigmata!</p><p> </p><p> </p><p>Jan Clefferson Costa de Freitas – Doutorando em Filosofia: UFPB/UFPE/UFRN</p><p> </p><p> </p><p><strong>Lightboy Lash </strong></p><p> </p><p>Bastard Poet I</p><p>broke bottles on my head:</p><p>Artificial paradises in Dantesque tones</p><p>I predicted punk would be Goofy;</p><p> </p><p>I’m howling about the crap, </p><p>Unruly the great fugitive force:</p><p>Yelping irate &amp; later pass out in the plaza,</p><p>In the cynical air, life just a party.</p><p> </p><p>My words written in smoke</p><p>All of them thrown &amp; scattered:</p><p>Far, flung like time passing,</p><p>Zigzagging in straight lines.</p><p> </p><p>Crossing chasms &amp; slinging barbs,</p><p>Evil needles piercing the ages,</p><p>Fashioning skulls into the finest goblets</p><p>Drinking to the hideous in poetry.</p><p> </p><p>My contribution here is this:</p><p>Leave dreams &amp; poems</p><p>As if my crimes were my wings</p><p>I watch as I bleed to death, from my own Stigmata!</p><p> </p><p> </p><p>Translated by Jennifer Sarah Cooper, PhD</p><p>Natal, 2016</p>
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Ciência, Cadernos de História da. « Debate ». Cadernos de História da Ciência 1, no 1 (30 juin 2005) : 91–98. http://dx.doi.org/10.47692/cadhistcienc.2005.v1.35854.

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Os textos apresentados a seguir são reconstituições sintéticas dos depoimentos verbais proferidos pelos debatedores por ocasião do evento dedicado ao museu histórico e horto Osvaldo Cruz. Procuramos assegurar, nesse trabalho de edição, o melhor compromisso entre fidelidade ao conteúdo e economia da forma . Oregistro de tais depoimentos por gravação, assim como sua transcrição literal, encontram-se à disposição dos interessados nos arquivos do LEHG. - Dra. Jandira Lopes de Oliveira - Diretora do Museu Emílio Ribas da Secretaria de Estado da Saúde de São Paulo. - Dra. Maria Amélia Mascarenhas Dantes - Docente do Programa de Pós-graduação em História Social do Depto. de História da Faculdade de Filosofia, Letras e Ciências Humanas da USP.
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Lima Junior, Paulo, Flavia Rezende et Fernanda Ostermann. « DIFERENÇAS DE GÊNERO NAS PREFERÊNCIAS DISCIPLINARES E PROFISSIONAIS DE ESTUDANTES DE NÍVEL MÉDIO : RELAÇÕES COM A EDUCAÇÃO EM CIÊNCIAS ». Ensaio Pesquisa em Educação em Ciências (Belo Horizonte) 13, no 2 (août 2011) : 119–34. http://dx.doi.org/10.1590/1983-21172011130208.

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Este artigo investiga diferenças de gênero no discurso de estu dantes sobre suas preferências por disciplinas e profissões. A análise encontra-se pautada na filosofia da linguagem de Bakhtin e orienta-se em direção às seguintes questões: Meninos e meninas adotam estilos de lin guagem diferentes quando abordam suas preferências disciplinares e pro fissionais? Como os estilos adotados podem estar relacionados às dispari dades de gênero na educação científica? Um total de 362 estudantes do Ensino Médio de três escolas brasileiras respondeu por escrito a um con junto de questões abertas. Os resultados obtidos somam-se à literatura nacional e internacional e avançam ao ilustrar aspectos socioculturais envolvidos em diferentes padrões de socialização, moldando de formas distintas o discurso de meninos e meninas.
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Gragnolati, Manuele. « Zwischen Unsterblichkeit und Auferstehung : das körperliche Jenseits der Göttlichen Komödie ». Deutsches Dante-Jahrbuch 93, no 1 (28 septembre 2018) : 57–73. http://dx.doi.org/10.1515/dante-2018-0004.

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RiassuntoQuesto articolo esplora il concetto di »antropologia escatologica« nella Commedia. In un primo tempo verranno presentati i cambiamenti che caratterizzano la concezione escatologica dell’Occidente cristiano a partire dal XII secolo e che si realizzano pienamente nel poema dantesco. Si discuteranno in seguito due modelli antropologici discussi dalla filosofia scolastica a partire degli ultimi decenni del XIII secolo: quello più tradizionale della pluralità delle forme e quello più innovativo dell’unità della forma. In una terza parte si analizzerà la posizione originale presa da Dante all’interno del dibattito filosofico contemporaneo quando nel XXV canto del Purgatorio la figura di Stazio dà una lunga spiegazione sulla formazione dell’anima razionale nell’embrione umano: se infatti la dottina embriologica presentata da Stazio si apre con i dettami della dottrina della pluralità delle forme, essa si conclude secondo i principi dell’unità della forma. La Commedia può così immaginare che quando l’anima si separa dal corpo e giunge nell’aldilà, può crearsi un corpo d’aria che le permette di avere tanto una forma (»veduta«) quanto tutti i sensi (»ciascun sentire«), così che anche senza il suo corpo terreno l’anima può comunque avere una piena esperienza sensoriale dell’aldilà. L’ultima parte dell’articolo mostra come nonostante questa esperienza dei sensi permessa all’anima dal corpo aereo nel periodo tra la morte fisica e la fine dei tempi, la Commedia continui a considerare il Giudizio Universale e la Resurrezione del corpo come gli eventi finali in cui l’essere umano ritroverà la sua pienezza veramente corporea e di conseguenza la sua esperienza dell’aldilà sarà veramente completa e definitiva.
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Baptista, Ana Maria Haddad, Carla Maria Menezes et Viviani Aparecida Zornetta Almendra. « Experiência do Pensamento : ensaios sobre a obra de Merleau-Ponty, CHAUÍ, Marilena. São Paulo : Martins Fontes, 2022 ». Dialogia, no 42 (5 septembre 2022) : e22442. http://dx.doi.org/10.5585/42.2022.22442.

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Résumé :
Marilena Chauí é uma grande pensadora, professora da USP e, de fato, pode ser denominada filósofa. Não é simplesmente uma bacharel em filosofia. Por quê? Porque diferentemente daquela maioria que se declara filósofo, mas somente repete a fala dos outros, possui um caminho próprio de percurso filosofal. Criou conceitos originais e profundos. Entre tantas outras coisas que poderiam ser destacadas de Marilena Chauí, uma delas seria a leitura abrangente e profunda de Baruch Spinoza, Blanchot e outros filósofos de grande peso para o pensamento humano.Na obra em questão a autora reúne alguns ensaios, diversos já publicados em outras épocas, mas revistos e ampliados, e outros bem recentes, do grande pensador que também faz parte de sua trajetória. Estamos falando do extraordinário Merleau-Ponty. Este grande filósofo foi um dos mais influentes na França, em especial, durante a década de 50. Conviveu, de perto e de longe, com Sartre, Camus e outros que repensaram uma Europa devastada, em todos os graus e sentidos, pela Segunda Guerra Mundial.Muitos ensaios integram o livro em referência. O primeiro deles que merece, sob nossa perspectiva, um destaque especial é o denominado Experiência do Pensamento. Justamente, dá nome ao livro como um todo. Neste ensaio Marilena Chauí destaca, como não poderia deixar de ser, a imensa importância sobre as reflexões entre sujeito e pensamento do amplo legado conceitual de Merleau-Ponty. Em princípio, enfatiza o quanto ele contribuiu para responder um questionamento, fenomenológico, muito importante e que sempre vem à tona, especialmente, na área da filosofia. Declara a autora: "Aprendemos com Merleau-Ponty que as questões são interiores à nossa vida e à nossa história, onde nascem, morrem ou se transformam se conseguimos responder a elas. Os filósofos não produziram sistemas nem doutrinas – aparecem para nós dessa forma quando nos distanciamos das inquietações que os faziam pensar. Como ignorar que o movimento que anima o trabalho da filosofia está sempre a desfazer o tecido da tradição, rompendo o fio de uma continuidade apaziguadora? A filosofia não inventa questões nem traz respostas. Interroga a experiência individual e coletiva, o sensível e o inteligível, o punctum caecum da consciência, aquilo que necessariamente ela não pode 'ver', sob pena de deixar de ser consciência (p.11)". Eis um dos pontos fulcrais deste livro. Ou seja, qual a medida daquilo que se nos apresenta, num primeiro momento, de fato, corresponda ao real? Corresponde à verdade? Merleau-Ponty sempre buscou algumas respostas atravessando, conforme se sabe, não somente Kant, mas diversos filósofos que ousaram fazer tais travessias. Muitas vezes insondáveis! Se pensarmos na complexidade e nos brilhantes postulados de Bergson a respeito do assunto.Sabemos que em se tratando de percepção as inquietudes se triplicam. Por um lado, porque entramos na esfera da autonomia do sujeito e valor da experiência. Por outro, se levarmos em conta a atmosfera coletiva indomável – (ou quase?) – que, de certa forma, possui determinismos, acasos e fatos independentes de nossa vontade. Como conciliar e dar uma relativa unidade a uma posição? Durante a leitura de Experiência do Pensamento, impossível, nós leitores, ignorarmos as contribuições, por exemplo, de Vladimir Jankélévitch, que fez incursões singulares em se tratando de percepção. Isto é, existem momentos privilegiados cujo "real" se apresenta sem mediações? Qual seria a abrangência do inanalisável de Peirce (primeiridade)? Corresponderia às analogias eleitas pelos ícones em sua busca das purezas, digamos, silenciosas? Melhor dizendo: o grau mais puro de uma percepção? Quais os lugares em que se instalam os verdadeiros silêncios? Como tais, mostram as elipses que nos rasgam de ponta a ponta? Sacodem, furiosamente, o que estava completamente entorpecido em nós mesmos? E mais ainda: conseguimos captar, sem mediações, o adâmico?Diante de tantas indagações, eis que Marilena Chauí nos oferece algumas pistas valiosas, nunca definitivas: "Merleau-Ponty busca o fundamental e critica o fundamento. Declara que toda expressão é perfeita e que não há expressão completa. Mostra que a sedimentação é o modo de ser de toda idealidade e que por isso mesmo é o que nos permite ir além, mas também é o que nos imobiliza. Que o corpo é um sensível exemplar, a carne é protótipo de uma maneira geral de ser, mas que não conduzem a uma antropologia filosófica na qual tudo é projeção do que não se encontra sob a máscara humana. (...) Recusa que o sujeito seja atitude e posição, afirma que os sujeitos percipiente, falante e pensante são práxis e indaga: que é a subjetividade? (p. 44) ". Conforme se sabe, houve à época de Merleau-Ponty uma grande problemática em relação a questões relacionadas à subjetividade. Facilmente dedutível se pensarmos, historicamente, no contexto pós-guerra na França. Ou seja, a construção urgente de novos valores depois do massacre de Hitler. A questão do sujeito e, consequentemente, da subjetividade estavam na ordem do dia. Mas de acordo com a autora, o pensador francês não se rendeu a certas posições da esquerda radical cujos princípios, de certa forma, subtraíam qualquer singularidade que pudesse advir de um eu predominantemente subjetivo. Nessa perspectiva, existe um processo chamado linguagem. O corpo do pensamento. Segundo a autora, Merleau-Ponty resgata a língua e consegue instituir uma forma nova. Desta maneira, não dá respostas definitivas e nem pretende. Mas consegue situar o estatuto da linguagem de uma forma, como dito, nova. Ele consegue um equilíbrio respeitável entre interioridade e exterioridade. Em outras palavras: objetividade e subjetividade.Outro ensaio que nos chama a atenção e integra o livro intitula-se Obra de Arte e Filosofia. O objetivo da autora é claramente definido, ou seja, localizar Merleau-Ponty em relação às criações: "Por que criação? Porque entre a realidade dada como um fato, instituída, e a essência secreta que a sustenta por dentro há o momento instituinte no qual o Ser vem a ser: para que o Ser do visível venha à visibilidade, solicita o trabalho do pintor; para que o Ser da linguagem venha à expressão, pede o trabalho da expressão; para que o Ser do pensamento venha à inteligibilidade, exige o trabalho do filósofo. Se esses trabalhos são criadores, é justamente porque tateiam ao redor de uma intenção de exprimir alguma coisa para a qual não possuem modelo que lhes garanta o acesso ao Ser, pois é sua ação que abre a via de acesso para o contato pelo qual pode haver experiência do Ser (p. 152)."O fragmento da autora diz muitas coisas. Impossível, nós leitores, não identificarmos a influência de Merleau-Ponty, nas gerações posteriores a ele, em especial, na área da filosofia. Deleuze, por exemplo, sempre foi firme ao localizar o papel da filosofia, das artes, da literatura e das ciências enquanto criadoras de conceitos (aliás, sem hierarquias). Mas, qual, efetivamente, a posição de Merleau-Ponty? Ele parte do pressuposto de que a experiência criadora indica uma falta. Ou seja, um vazio que deveria ser preenchido. O sujeito necessita preenchê-lo com a intenção clara de determinar no espaço da indeterminação, – (um dos mais belos espaços de liberdade acenando para a humanidade, mas, passando despercebido por aqueles que amam as algemas e as correntes escravizantes) –, e com isso artistas e escritores buscam dar expressão e concretude ao ainda nunca expresso. "O sentimento do querer-poder e da falta suscita a ação significadora que é assim, experiência ativa de determinação do indeterminado: o pintor desvenda o invisível, o escritor quebra o silêncio, o pensador interroga o impensado. Realizam um trabalho no qual vem exprimir-se o co-pertencimento de uma intenção e de um gesto inseparáveis, de um sujeito que só se efetua como tal porque sai de si para expor-por sua interioridade prática como obra. É isso a criação, fazendo vir ao Ser aquilo que sem ela nos privaria de experimentá-lo (p.153)".Na verdade, os maiores pensadores do mundo, desde tempos imemoriais, jamais deixaram de pensar o real papel das artes em geral e, sobretudo, da literatura. Merleau-Ponty não poderia ficar indiferente. Para ele existe um Ser Bruto que seria a distância interna entre um visível-dizível e um outro seria o seu indizível. Inclusive, entre aquilo que é pensável-impensável. Enfim, existiria um sistema de equivalências no existir no mundo. Qual seria o papel do Ser Bruto? Uma grande abertura ao qualitativo. Diferenças qualitativas entre as coisas. Nesse contexto, tudo fica mais claro para nós leitores. O mundo, num primeiro momento, exibe certas equivalências não visíveis para nós. Tudo se apresenta como repetição e não diferença, (por lembrarmos uma vez mais de Deleuze). No entanto, somente o qualitativo poderá, de fato, materializar as diferenças. Como localizar o qualitativo? Como? Ora! As cores, sons, odores que, de alguma maneira, nos reenviam a uma espécie de substancialidade. Contudo, ao mesmo tempo impalpável do que poderia vir a ser. Neste momento entram em ação o escritor, o artista, o músico e os grandes pensadores. Tornam-se, para nós, os mensageiros e mediadores concretos do que antes deles não conseguiríamos acessar.Por isso, entre tantos outros motivos que poderíamos colocar, a desestabilização quando nos deparamos com algo realmente novo, original e criativo. Algo estranho porque não reconhecemos. Emerge a diferença qualitativa. Não custa lembrar: toda diferença qualitativa é espantosa e surpreendente. Quando menos esperamos somos alçados e capturados por laços e tentáculos que embaralham o âmago de nosso ser. Despertamos de certas sonolências. Em outras palavras: acordamos de um certo torpor que embriaga a percepção comum, ordinária e repetitiva. Aquele que conforta e máscara o indizível e o invisível. A presença do novo, agora perceptível, nos traz mudanças e transformações paradoxais. Dantes jamais pensadas ou imaginadas.Marilena Chauí prossegue: "O apelo à obra de arte como recomeço da interrogação filosófica é apelo àqueles que não manipulam e sim manejam as coisas e que, 'ruminando o mundo', jamais abandonam sua inerência a ele, mas, de dentro dele, o transfiguram para que seja verdadeiro sendo o que é quando encontra quem saiba vê-lo ou dizê-lo, isto é, quem consiga arrancá-la de si mesmo para que seu sentido venha à expressão. Em outras palavras, a invocação das obras de arte rompe com a tradição filosófica que as julgara cópias imaginativas da percepção, simulacros platônicos e, portanto, identificara ficção, erro e ilusão (p.158)". Veja-se que a autora faz uma interpretação sólida e fundamentada da filosofia e de seus objetivos incontornáveis. Traduz, para os leitores, o quanto seu repertório é rico, não somente por conhecer os clássicos da tradição da filosofia, mas, também, por elaborar ideias próprias e singulares a partir de uma leitura qualitativa do pensamento de Merleau-Ponty.Recomendamos o livro em questão a todos que ainda possuem a rara capacidade da indignação e, sobretudo, da admiração (tão fugidia em tempos líquidos). Ao finalizarmos a leitura desta obra muitas indagações e inquietudes nos incomodam e nos fortalecem.Entre elas poderíamos citar, por exemplo, em que medida somos tão facilmente enganados pela percepção comum? Onde estariam localizadas as linhas de fugas propostas por Deleuze? Como dar mais visibilidade ao que, num primeiro momento, se esconde sob a capa do esquecimento, das desmemórias, ambas, claramente intencionais sob as malhas, entrelaçadas e invisíveis, dos poderes estabelecidos?Arriscamos algumas respostas. Isto é, se pensarmos que a humanidade estaria num patamar muito mais degradante caso Victor Hugo não tivesse povoado o nosso universo ao publicar Os Miseráveis. Ou: o que seria de nós sem As flores do mal de Baudelaire? Como pudemos sonhar com as loucuras do amor se não tivéssemos lido A Flauta e a Lua ou Domínios da Insônia de Marco Lucchesi? Como pensar na amplidão oceânica da musicalidade e da filosofia sem ter lido A Música e o Inefável de Vladimir Janquélévitch? Como pensaríamos, de maneira radical, sobre os signos que nos permeiam, muitas vezes, dissonantes sem ter lido As palavras e as coisas de Michel Foucault? Como pensar, conceitualmente, prosa e poesia sem ter lido o nosso gigante Octavio Paz? Como auscultar a linguagem das estrelas sem ter lido Estrela da Vida Inteira de Manuel Bandeira? O que entenderíamos da alma subterrânea dos rios e do sertão se não tivesse existido Guimarães Rosa? Diferença e Repetição, de Deleuze, soa, ecoa ou ressoa em nossas almas não localizáveis?Na realidade, sem ter lido as diversas tipologias (ensaios, filosofia, poesia, romances, contos) daquelas que desestabilizam nossos anseios e devaneios, seríamos muito mais insuficientes, em nossas percepções e afecções, ao contemplar um simples rio. Ou a fúria indomável das ressacas oceânicas. Assim como, talvez, nunca tivéssemos dado a devida atenção para as cintilações dos pirilampos que, muitas vezes, sobrevoaram nossas cabeças. Ou, quem sabe, teríamos deixado de lado a eternidade do meio-dia cuja síntese dos espaços qualitativos propostos por instantes privilegiados nos conduzem para os grandes mistérios dos sonhos. (E não fossem os sonhos pouco teríamos a inventar, movimentar ou criar).Devemos ficar atentos, durante a leitura do livro em questão, ao estilo inconfundível e singular de Marilena Chauí. Assim como na estruturação da obra, na forma como se coloca e repensa as contribuições incontestáveis de filósofos que possuem a felicidade de cair em suas mãos. A obra possui a dignidade de uma filósofa que prova, implicitamente, o quanto dedicou uma vida a ler, estudar, pesquisar, publicar, lecionar. E, sobretudo, jamais perdeu a rara capacidade de contradizer o que afronta e obscurece amores, valores e conceitos que ameaçam a contínua construção da liberdade humana.
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Ferro, Roberto. « Introducción ». Revista Valenciana, estudios de filosofía y letras, no 20 (3 juillet 2017) : 264. http://dx.doi.org/10.15174/rv.v0i20.357.

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Résumé :
Los tres ensayos críticos que componen este dossier tienen un punto de convergencia en torno del cual he pensado articularlos: son modalidades diversas del ensayo crítico literario expuestas como teorizaciones de la lectura. En la variación de sus modulaciones, los trabajos exhiben un conjunto de rasgos distintivos que se van insinuando en los estudios literarios latinoamericanos, al tiempo que despliegan una serie de conjeturas que anuncian un hacer crítico capaz de no olvidar o reprimir la resistencia que los textos literarios presentan a la lectura ni el residuo de indeterminación que toda ocurrencia de palabra siempre provoca. Ya a fines del siglo pasado, la preeminencia en el ámbito de los estudios literarios de los grandes modelos teóricos fue socavada por su transformación en principio de autoridad. Pero este colapso no hubiese sido posible sin la puesta en cuestión de la voluntad de verdad que esos modelos ejercían desde su posición hegemónica. Así, muchas de sus manifestaciones derivaron en jergas de estereotipos convirtiendo en novedad de circulación mediática lo que ya eran anacronismos académicos.En los aledaños del año 2000, el tipo de deterioro de la teoría causado por su cooptación como moneda devaluada parece haberse extendido como parte de cierto sentido común en la crítica latinoamericana; vinculada a la crisis que sacude las humanidades, una de sus consecuencias más perturbadoras ha sido el desvío de la crítica literaria hacia los estudios culturales, con el cuestionamiento de la especificidad tanto de los estudios literarios como de la entidad de los propios textos literarios.Los textos de este dossier se alejan y confrontan con esa perspectiva exhibiendo variados modos de interdependencia entre los discursos que configuran el campo de la crítica literaria con los que participan del campo de la teoría literaria.En “Héctor Libertella, de la narración al ensayo. Una poética de la ficción teórica”, Silvana López sitúa su mirada crítica en el escrutinio de la poética del escritor argentino, proponiéndose leerla como un complejo entramado de tematizaciones de las diversas instancias de procesos de reescritura. El punto nodal de su argumentación está centrado en que el escribir aparece en su narrativa como una modalidad exhibida del reescribir, particularidad que le imprime a los textos de Libertella una productividad con múltiples entradas y salidas que conlleva la puesta en escena de una escritura de la huella, de una escritura como proceso en el que se encuentran implicadas la lectura, la escritura y la exhibición de esa lectura/escritura. El ensayo aborda la configuración de una poética que se muestra como una literatura de segundo grado y que, en su artificialidad, pivotea entre la tradición y la fundición de la letra antigua, entre la literatura latinoamericana y la literatura legitimada por el canon occidental, entre el mercado literario y la mónada o pequeño cepo gramatical en el que emerge la inasibilidad de la palabra literaria.Héctor Libertella está situado en una de de las genealogías más productivas de la tradición argentina que se configura como una literatura conceptual; es decir, textualidades que consisten en una intensa reflexión sobre las condiciones de posibilidad del sentido literario. Silvana López, para adentrarse en ese corpus, se mueve en la tensión y la interdependencia entre el lector crítico centrado en la letra de los textos y el memoralista que indaga en el archivo de una vasta biblioteca teórica. En ese vaivén va tensando la reflexión sobre el sentido de la obra libertelliana, cumpliendo de ese modo con uno de los designios de la crítica literaria que no se deja seducir por los espasmos del mercado: el rescate de textualidades en las que residen yacimientos inagotables de sentido, que sólo son posibles en lo que hemos convenido en llamar literatura. Hebert Benítez Pessolano, en “El temido infierno de la autonomía”, comienza su especulación con un repaso sobre algunos de las desarrollos y confrontaciones de la teoría literaria para indagar acerca la consideración actual de las dinámicas de los fenómenos literarios y de las teorías –con sus diferencias ontológicas claras aunque envueltas en una trama que necesariamente las vincula– que ha conducido, para decirlo en términos de la topografía dantesca, a la puerta de un infierno cuya sentencia se enciende para las letras y sus teorías: como no hay más evidencia literaria, tampoco queda lugar para una pertinencia teórico-disciplinaria –o aun transdiciplinaria– que la refiera. Ese es el cul de sac que Benítez Pessolano apunta a desmontar al centrarse en la problemática de la autonomía. Lo que en principio se llamó teoría literaria (una mezcla de psicoanálisis, filosofía y demás), junto con el objeto de estudio, mutó su denominación para ser reconocida sólo como teoría. Ese deslizamiento le otorgó mayor relevancia a la cuestión de la autonomía; en su artículo, Benítez Pessolano polemiza con Josefina Ludmer acerca de esa categoría, tomando distancia tanto de la autonomía como un fetiche operante, que condicionó muchas prácticas, como de un concepto sin pertenencia alguna, en el actual se encuentra el horizonte de expectativas de la circulación de los discursos. A partir de la aseveración de Borges que dice: “Todo escritor deja dos obras. Una, la suma de sus textos escritos; otra, la imagen que del hombre se forman los demás” retomada en “El arte de canonizar. De celebraciones, parentescos y márgenes”, he considerado que en la instancia de reflexión del lugar canónico que ocupa el escritor argentino en el espacio literario se impone analizar tanto cuestiones de legibilidad como de visibilidad.La relación entre textos y figura de autor en la obra de Borges está atravesada tanto por posiciones en el espacio canónico y en el ámbito público que va ocupando como por las transformaciones que se producen en su escritura; se impone, entonces, la necesidad de establecer, desde la perspectiva histórica, los diferentes modos de concebir esa relación y cada uno de sus términos; los cuales no pueden ser pensados como inalterables sin falsearlos, pues aparecen en constante mutación de acuerdo con los diferentes contextos sociohistóricos en los que se producen y con la economía general de los discursos que los constituyen.En este dossier confluyen, entonces, un conjunto de ensayos que participan de un gesto compartido: el ensayo crítico es una vía adecuada de exponer la crítica literaria como una teorización de la lectura. Claro, sin que ello suponga una instancia modélica, pero sí una reivindicación tanto de la necesidad de confrontar con la resistencia a la teoría como una defensa de la especificidad de los textos literarios, concebidos como yacimientos inagotables de sentido con restos que permanecen inasibles a toda voluntad de clausura o sometimiento a regímenes de referenciales subsidiarios de verdad. Roberto FerroBuenos Aires/Pilar, febrero de 2017
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Haddad Baptista, Ana Maria, Kacianna Patrícia De Jesus Barbosa e Amorim et Paulo Saul Duek. « Em algum lugar do inacabado. JANKÉLÉVITCH, Wladimir ; BERLOWITZ, Béatrice. São Paulo : Perspectiva, 2021 ». EccoS – Revista Científica, no 61 (28 juin 2022) : e22289. http://dx.doi.org/10.5585/eccos.n61.22289.

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Résumé :
Wladimir Jankélévitch, (1903-1985), era graduado em Filosofia pela Escola Normal Superior em Paris. Sua vida foi dedicada, predominantemente, ao magistério e a pesquisas, por excelência, na área musical entrelaçada com fortes indagações epistemológicas. Lecionou em diversas universidades da Europa e participou de inumeráveis movimentos que poderiam ser sintetizados em uma só expressão: resistência. Resistência a tudo aquilo que subtrai nossas capacidades mais criativas. Em outras palavras: resistência a tudo aquilo que oprime e nos torna incapazes de olhar para as pequenas coisas que tornam a vida tão fascinante. Por mais simples que ela seja. Foi autor de inúmeras obras. Uma das mais conhecidas é seu famoso livro O paradoxo da moral. Em algum lugar do inacabado é um livro que materializa uma longa entrevista feita pela aluna, dileta, do autor (a ela dedicou a obra A música e o inefável) Béatrice Berlowitz. A excelente introdução, tradução e notas foi realizada por Clóvis Salgado Gontijo. O livro em referência é estruturado por partes. Cada parte possui uma temática em que a entrevistadora demonstra um preparo e conhecimento do entrevistado fora do comum. De fato, ela mostra total domínio do conjunto de obras de Jankélévitch.Apesar de ser um livro cuja estrutura se estabelece pelos diversos temas abordados, existe uma unidade que é tecida, finamente, por uma grande obsessão do autor: o tempo! Conduz-nos, nós leitores, a verdadeiros jardins da memória atravessado por rios que refletem cintilações, diga-se de passagem, em que o tempo ora se mostra aprisionado em cápsulas de um retorno, ora como um devir irreversível, (por lembramos do saudoso Prigogine), ora na música, ora quando se refere à morte enquanto uma finitude concreta.A grande verdade, ao lermos o livro em questão, é que seria quase impossível falar sobre ele. As imagens poéticas, entrelaçadas agudamente, com perspectivas filosóficas dignas de serem questionadas, praticamente, tiram o nosso fôlego diante de tantas possibilidades a que o autor nos conduz. De forma leve e sedutora. Como se estivéssemos lado a lado diante de suas colocações regidas, quase que cegamente, por uma sensibilidade elevada ao mais alto grau. Rumo, de fato, ao inacabado de nossas esferas subjetivas. A inesquecível e atordoante descida ao abismo que a interioridade jamais para de nos cindir e escavar, por não esquecer de Deleuze (sejamos justos). Nessa medida, somos conduzidos por ele e pela entrevistadora quando adentramos, por exemplo, na parte em que ambos falam do amor. O filósofo vai direto a certos pontos marcados pela tradição literária e filosófica. Situa-nos, entre tantos outros pontos que poderiam ser mencionados, a margens paradoxais de estados amorosos, que dançam nas profundezas de rios tão insondáveis quanto aqueles descritos pela alma de Guimarães Rosa. "O amor é mais forte que o mal, o mal é mais forte que o amor, e assim infinitamente. Essa contradição nunca poderá ser resolvida, o dilaceramento nunca poderá ser recosturado" (p.185). Prossegue o autor: "O amor não é mais verdadeiro que a verdade e mais justo que a justiça?" (p.184). Ou: "O amante ama seu amado por inteiro, incluindo os defeitos; ama-o como ele é, com os seus vícios, apesar dos seus vícios...Chegaríamos até mesmo a dizer: por causa dos seus vícios" (p.187). Enfim, particularmente sobre o amor, Jankélévitch atordoa os leitores como se estivéssemos dentro de um cilindro, espiralado, subjugados por movimentos contínuos de subidas e descidas. E assim nos conduz para as concepções de amor em Platão e outras esferas. No entanto, sem jamais tangenciar o banal e a mesmice digna de almanaques ordinários que não cessam de povoar, para infelicidade humana, o nosso cotidiano em todos os graus.Uma outra parte do livro que nos chama a atenção é aquela dedicada à morte. O questionamento a respeito da finitude inescapável é agudíssimo. De certa forma, ele nos arrasta para pensarmos: em que medida encaramos a morte? Por que, mesmo sabendo que vamos morrer, (uma determinação fatal), o sobressalto diante da morte de alguém nos paralisa?"Ao mesmo tempo, porém, podemos dizer que nos preparamos para morte a cada instante de nossa vida, posto que a morte nunca nos desvencilha por completo de sua misteriosa presença, simultaneamente prevista e imprevisível" (p.226). Reporta-se, de forma contundente, à morte não como uma doença! E, sim, como a doença. E, claro, incurável. Uma condição humana da qual ninguém pode escapar. "Não se aprende a morrer. Não se pode se preparar ao que é absolutamente de outra ordem. Uma preparação sem preparativos: eis o que exige a morte" (p.227). O filósofo prossegue declarando que a morte jamais oferece à humanidade um ponto de apoio. Ou seja, não existem escapatórias. Por tal razão ela não pode ser capturada por meditações. "O pensamento, ao não ter do que se ocupar gira em círculos indefinidamente. De tanto repetir, de tanto entrechocar todas as palavras relativas à morte, acabaremos por fazer fulgurar algum clarão?" (p. 228). Nessa medida, o autor nos leva a pensar, entre tantas outras coisas que poderiam ser destacadas, que meditar sobre a morte, na verdade, é meditar sobre a vida e, assim sendo, oscilamos entre a sonolência e a angústia. Deveríamos, antes, olharmos para acontecimentos que possam nos preencher. Caso contrário somente nos restaria o vazio de uma existência que não valeria a pena viver. Remete-nos a uma dolorosa situação e que no entanto é real: após a morte de alguém, (não importa de quem), a vida como um todo, inabalável, possui continuidade. Tudo continua e deixa de lado aquele momento, de interrupção, criada por uma morte individual. Como já disseram muitos poetas: o dia em que morrermos o sol continuará a brilhar. E os lobos continuarão a uivar. As formigas continuarão a trabalhar. As cigarras não vão interromper seus cantos! E mais: queiramos ou não cairemos nos mares das memórias regidas pelo esquecimento, indiferença. Provavelmente algumas cintilações, efêmeras, do que fomos um dia surjam. Mas nada podemos assegurar após o nosso desaparecimento. Nada. Nada. Nada. "A morte abre a janela para alguma nova terra? É uma sacada que dá para um torrão desconhecido? Já basta! Ela desemboca no vazio...no nada (rien) de toda terra. Para escapar a esse nada, os homens inventaram um alhures, uma para além, uma margem ulterior" (p.232).Merece ser ressaltado, ao lermos este belíssimo livro, a parte em que Jankélévitch nos coloca, – a partir, sempre, da conduta da entrevistadora –, como temática, central, a música. O autor relaciona música e silêncio. Um ponto alto em suas reflexões. Dessa forma, somos tentados, sedutoramente, a pensarmos nas relações incontornáveis entre a exigência da música que é, sobretudo, o silêncio. Ou seja, para que possamos ouvir uma música é necessário que façamos o silêncio. Uma imposição quase que automática! Como ouvir uma música sem que nenhum ruído nos distraia? Como ouvir uma música se estivermos falando? A música jamais tolera o barulho. Ela exige o silêncio. "A música, que por sua vez faz tanto ruído na sala, é o silêncio de todos os outros ruídos; todos os ruídos são parasitas diante da música" (p.257). Quando atravessamos as reflexões do autor a respeito da arte musical somos invadidos por uma incrível perplexidade. Em que consiste tal perplexidade? O que ele nos diz já sabíamos. Mas jamais tínhamos pensado nisso. Eis o papel daqueles que dão voz ao que não tínhamos sequer pensado. Imaginado. No entanto, tudo estava diante de nossos olhos! Dançando e pululando! Mas não enxergávamos. Estávamos surdos e cegos ao que agora se mostra tão lucidamente para nós. Mas foi preciso alguém sentir, ver e materializar o imperceptível que num verdadeiro salto se mostra irradiante e luminoso diante de nós. Sentimo-nos atônitos mediante o sublime exposto pelo autor. Sabíamos de tudo. Mas, ao mesmo tempo, não sabíamos. "Muitos músicos, ao envelhecerem, tendem pouco a pouco ao silêncio; como se as suas obras fossem vencidas pelo despojamento e pela nudez do inverno" (p.260).O filósofo nos coloca diante de muitos músicos. Mas, nitidamente, percebemos o quanto ele nos chama a atenção para Debussy: "O ruído do mar que ouvimos se compõe de uma infinidade de murmúrios que não ouvimos; em Debussy, as incontáveis gotinhas de onde nascem esses incontáveis murmúrios são convertidos em música" (p.264). Evidentemente, o autor se refere à famosa música de Debussy que se intitula La Mer . Quase impossível, nós leitores, não ouvirmos La Mer novamente. Assim vamos em busca dos sons indicados pela sensibilidade de Jankélévitch. Descortinam-se sons inusitados. Murmúrios oceânicos que vem ao encontro das finas camadas de nossa – oscilante, sempre oscilante – subjetividade. "O chiar de um inseto, o gaguejar de um bicho noturno, o estalar de uma folha seca, o suspiro de um brotinho de relva...Nada escapa ao ouvido milagroso de Debussy" (p.264). Novas sonoridades pululam ao encalço do que antes, talvez, fossem inaudíveis, para nós leitores, muitas vezes, asfixiados por nosso infame e tedioso cotidiano, isto é, onde reinam a mesmice e as infelicidades da angústia e que resistem aos grandiosos convites que a vida nos proporciona.Conforme adentramos nos textos do livro, muitas questões são, de certa forma, impostas à reflexão. Entre elas: por que somos enredados, muitas vezes, por coisas que não valeriam sequer ser notadas por nós? Em que medida deixamos para trás – sem a mínima chance de um retorno – o que deveria ser admirado? Por que as misérias humanas se abrem diante de nós sem que possamos domá-las? Por que não paramos e, de fato, seguimos o famoso Olhai os lírios do campo? O que nos impede? Seria, na real, nossa única forma de vida aquela que nos rouba, descaradamente, seus melhores momentos? Em que dimensão existencial nos encontramos? Em que medida a circularidade temporal, (que coexiste com o eixo irreversível), repetitiva e que subtrai a transformação, se mantém soberana?E, finalmente, as últimas entrevistas do livro possuem um fio condutor que promove a união da música, do tempo e do piano enquanto instrumento: "É pelo piano que me conecto à música, amo a música que posso ter sob os dedos; a minha ligação com certos músicos que nem sempre são criadores geniais se deve ao lado pianístico de suas obras" (p.289). Afirma, com muita suavidade e poeticidade, a satisfação tátil que o piano, enquanto instrumento, possibilita. Assim como "a participação de todo ser no encanto do tempo" (p.290). Afirma como uma música ao piano é plena. Dispensa outros instrumentos. Ele quando está diante de uma partitura sente como se estivesse adentrando no que já sabia de antemão. Sensação primeira jamais experimentada antes. Uma espécie de leitura à primeira vista. Muitas vezes adiada porque ele já espera algo que vai empurrá-lo para abismos de vislumbres nunca antes vividos. "Quando consigo reservar uma ou duas horas no fim da jornada, é ao piano que as consagro: isso porque o piano derrama em nós a serenidade da alma, a exaltação poética, o esquecimento do tempo" (p.300). Com isso, nós leitores, sentimos que abrem-se diante de nós certas perplexidades que vão da inércia, frequente automatização de nossa intuição sensorial, às aberturas de nossa alma para outras paisagens repletas de novos aromas. Dantes nunca testados ou experimentados. Uma delas, quando o autor nos coloca que juízos de valores em relação à música são quase inúteis. Em especial, declara o autor, porque a música se desenvolve numa dimensão de temporalidade que se mostra continuamente inacabada! "E ainda que a obra musical, sonata ou sinfonia, tenha um começo ou um fim, a temporalidade na qual a obra se recorta nunca começa e não há de terminar" (p.301). Prossegue o autor: "O inacabamento da temporalidade nunca é uma simples mutilação e influencia a obra fechada, tornando-a evasiva, vaporosa e difluente" (p.301). Nessa medida, conclui o autor que a música encerra em si mesma uma temporalidade brumosa e englobante. Com isso não existem critérios unívocos que possam julgá-la. A música foge aos critérios. Ela não se deixa prender pelos tentáculos dos modelos preestabelecidos que regem as críticas.Ao finalizarmos a leitura da obra vemos que este livro poderia ser indicado para qualquer ser humano, não importa a área de especialização, e a todos aqueles que, momentaneamente, esquecerem de si mesmos. Mas também a todos que estão à escuta de uma sinfonia mais vasta. Sinfonias aromáticas que nos arrastam para um olhar mais complacente diante das adversidades da vida que como tais, na maioria das vezes, sempre se farão presentes. A grande sabedoria está em como administrarmos aquilo que não é esperado. O imprevisível e as indeterminações fazem parte de um círculo que envolve, queiramos ou não, as nossas vidas. Concluímos, também, o quanto determinadas existências foram marcantes e necessárias para pontuar e desviar nossos olhares para outros horizontes. E ao descortiná-los para nós temos a sensação, muito nítida, de que muito pode ser mudado e transformado.No entanto, em nenhum momento do livro, Jankélévitch impõe seu ponto de vista ou julga. Deixa que seus leitores, de forma natural e deslizante, sejam conduzidos às paisagens que ele oferece. Como um convite educado em que ninguém seja obrigado a compactuar com suas posições. Confessa, em alguns momentos do livro, que ninguém está obrigado a gostar das mesmas coisas porque estas passaram por crivos de academias de todas as espécies. "A arte não deve recusar o encanto, deve somente refiná-lo e aprofundá-lo: do prazer não recusa senão a repugnante facilidade" (p.323). Com tal afirmativa devemos considerar que, muitas vezes, as artes, (incluindo a literatura), são acusadas de envolver atmosferas sensíveis muito distantes do senso comum e o consagrado por critérios estabelecidos como absolutos. O filósofo possui uma posição muito provocativa. Isto é, declara que a estética, como um todo, deve ser revista e reorganizada para que não possamos estacionar em zonas que paralisam nossos sentidos. "O homem razoável recusa ser cativado por razões que nada provam, que nada ensinam, que não admitem a mudança nem a análise das ideias, mas que solicitam, o silêncio de uma comunhão imediata" (p.320).
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Carrasco, Mariano Pérez. « Hacia una Filosofía de la Lengua Vulgar. Filosofía, poesía y traducción en el Convivio dantesco ». Scientia Traductionis, no 11 (31 juillet 2012). http://dx.doi.org/10.5007/1980-4237.2012n11p207.

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Doré, Andréa. « Dante e o Oriente : as “invasões bárbaras” e o cânone ocidental ». História : Questões & ; Debates 48 (4 septembre 2009). http://dx.doi.org/10.5380/his.v48i0.15302.

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Résumé :
Este artigo tem como objetivo refletir sobre a presença do Oriente na obra de Dante Alighieri, destacando suas possíveis fontes e motivações. Sua obra, sobretudo A divina comédia, é compreendida como um cânone da cultura cristã ocidental e por meio dela é possível apontar a transmissão de uma tópica, que se perpetuará nas filosofias da história dos séculos XVIII e XIX, que considera as regiões orientais como o berço da humanidade. Aliado a esta leitura, este texto discute a definição que Edward Said possui de Orientalismo, para cuja construção a obra dantesca teria contribuído, e a opõe a outras possibilidades de interpretação trazidas pela obra de Miguel Asín Palacios, historiador e filólogo espanhol, que no final dos anos 1920 publicou uma tese sobre as influências da cultura muçulmana em A Divina Comédia. Este diálogo com a cultura islâmica visa problematizar a complexidade das trocas que marcam a construção dos textos canônicos.
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