Thèses sur le sujet « ARCHITETT »

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1

VENUDO, ADRIANO. « SPESSORI, CODICI, INTERFACCE. ARCHITETTURE DELLA STRADA ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2007. http://hdl.handle.net/10077/2524.

Texte intégral
Résumé :
2005/2006
Parkway, strip, viadotto e autostrada sono alcune delle tipologie stradali generate, dal secolo scorso a oggi, direttamente dall’automobile e in cui, per ragioni di sicurezza e comfort, è prevista la totale separazione tra flussi e forme di abitabilità dello spazio, tra l’automobilista e il pedone: per normativa, tutti i possibili utenti non motorizzati e qualsiasi pratica che non contempli il movimento veloce ne vengono infatti escluse. Questa dinamica interessa anche le maglie frammentate della città diffusa contemporanea, in cui l’automobile rappresenta l’interfaccia necessaria per poter vivere un “territorio allargato”, dove la strada è anche motore di quella particolare urbanità che, sempre a una certa distanza, si estende lungo le reti e che potremmo definire come effetto urbano. Un tempo la gente stava sulle strade1, i pedoni al centro e carri, cavalli e altri mezzi ai lati, il dominio dell’automobile ha invertito questo rapporto, confinando, nella migliore delle ipotesi, ai bordi queste attività e utenti. Le strade delle le automobili si sono così trasformate in uno dei più grossi problemi per il funzionamento delle città, non solo per la presenza invasiva del “fenomeno infrastrutturale”, ma anche e soprattutto perché esse rappresentano sempre più un limite invalicabile per tutte le altre pratiche urbane; la strada è diventato un sistema chiuso, che a sua volta genera discontinuità e forti vincoli per gli utenti non meccanizzati. Va aggiunto che l’influenza di un’autostrada, ad esempio, non si limita allo spazio dei sedimi carrabili, ma porta con se un perimetro molto più ampio determinato dalle fasce di rispetto o pertinenza, attraverso imponenti manufatti di sostegno, nel caso di viadotti e altri rilevati, e con altrettanto importanti dispositivi di separazione e chiusura sia tecnica - gli spartitraffico - che sensoriale, barriere acustiche o visive. Se consideriamo poi le autostrade urbane, che attraversano densi tessuti residenziali, tali effetti non possono che aumentare. Questi grandi tubi per il traffico, che passano ovunque, secondo i principi della via più breve, della velocità di progetto degli standard di sicurezza, si configurano come delle vere e proprie eterotopie, dei mondi paralleli, organizzati da regole proprie che frequentemente non integrano alcuna relazione con i contesti attraversati. Di fronte alla “necessità tecnica” espressa da queste enclave del movimento, l’unico atteggiamento possibile sembra essere la subordinazione, la città cresce sotto, sopra, di fianco e negli interstizi, l’architettura piega i propri codici alle esigenze del manufatto viabilistico. Una condizione che può anche essere sfruttata vantaggiosamente: si pensi al museo Guggenheim a Bilbao e a come si “adegua” al viadotto soprastante. Il famoso intervento di Frank O. Gehry rimane però un esempio raro e isolato, l’ordinario si consuma tra barriere antirumore, guard-rail, isole spartitraffico, muri di separazione, piloni e intradossi di viadotti, elementi tanto banali quanto invasivi, i cui caratteri sono determinati dai costi, dalla normativa e dai regolamenti per la sicurezza. Elementi permanenti e “duri”, che chiudono l’orizzonte, che impediscono il passaggio, o che costringono i flussi lenti della città a traiettorie arzigogolate, lungo passerelle aeree o sottopassi, in un regime di separazione, che attraverso dispositivi e manufatti tecnici garantisce distanza tra le diverse velocità, generando contemporaneamente un largo “consumo di spazio” e di risorse. Se questo è l’atteggiamento più diffuso, esiste tuttavia un’ampia serie di esperienze progettuali e di teorie che hanno sperimentato forme di riavvicinamento ai canali di traffico, in aderenza ai flussi, proponendo forme di condivisione dello spazio-strada, di promiscuità d’uso, di ibridazione tra i manufatti tecnici e gli spazi dell’abita- Introduzione re, di integrazione dei sedimi automobilistici con gli spazi per il pedone, facendo del binomio velocità/frizioni una vera e propria strategia del progetto stradale. Tali esperienze dimostrano che le strade delle grandi reti che attraversano i contesti naturali e urbani possono smettere di essere esclusivamente concepite come canali che smistano i flussi secondo la sola logica dell’efficienza idraulica. Dimostrano che anche le strade delle automobili, in cui la velocità determina distanze, forme e usi, possono diventare spazi in cui vivere e soprattutto in cui stare. Questa ricerca è orientata, attraverso la messa in campo di tre livelli di lettura (spessori, codici e interfacce) a individuare le forme, le misure, le caratteristiche e le strategie del possibile avvicinamento e commistione dei flussi verso usi multipli delle infrastrutture di comunicazione, specialmente di quelle veloci. Questi tre livelli corrispondono anche a delle grandezze fisiche, dimensioni e dispositivi della strada, ed in particolare lo spessore è inteso come profondità, o spazio di emanazione connesso allo spazio-strada (sotto, sopra, affianco e tra), e non sempre usato dalle automobili; i codici sono intesi come le relazioni che legano le tre dimensioni principali della strada (sezione, tracciato e bordo); l’interfaccia è infine considerata come l’insieme degli spazi-soglia che dividono e connettono il sistema strada con gli altri sistemi locali. L’intenzione è di superare il dibattito attualmente polarizzato tra due posizioni inconciliabili: la prima legata a una idea di strada intesa come fattore di sviluppo a tutti i costi, incurante delle ragioni del territorio, la seconda espressa da chi vede ogni sviluppo infrastrutturale come una minaccia intollerabile all’ambiente. Si è quindi deciso di ripartire dalla questione primaria, vale a dire quella legata allo spazio, laddove il campo privilegiato di osservazione è quello del canale di traffico e la possibilità di trasformarlo in spaziostrada, ovvero in supporto dotato di un proprio specifico spessore disponibile alle molteplici funzioni associabili al movimento. In particolare, la prima parte sviluppa una riflessione sulle forme dello spessore a partire dall’ambiguità dei due principali paradigmi dello spazio-strada, ovvero quello della strada come macroarchitettura e dell’edificio come organismo complesso che integra anche la strada, e quello dello spazio-strada “in bilico” tra luogo e collegamento. Si è quindi cercato di individuarne l’origine attraverso l’osservazione di prototipi, di progetti instauratori, messi a confronto con le proposte delle avanguardie, le utopie, le visioni e le teorie degli architetti poi assunte come nucleo tematico da cui partire per una interpretazione del significato plurale della strada, da spazio aperto,inteso come superficie, a quello di manufatto, inteso come volume. Questa parte è divisa in tre sezioni, di cui la prima ha come obiettivo la costruzione di un lessico, la seconda la messa a fuoco del rapporto tra infrastruttura e architettura attraverso le “prime architetture della strada” e la terza la sistematizzazione dei materiali iconografici e d’archivio di due casi studio, rispettivamente sulle possibilità di “urbanizzazione” delle autostrade italiane (Autilia di Giò Ponti) e sulla capacità della strada di diventare edificio complesso, macroarchitettura alla scala della città (Coliseum Center di Monaco e Luccichenti). La diffusione del mezzo motorizzato ha avuto un ruolo fondamentale non solo nella trasformazione dei modi di abitare il territorio, ma soprattutto riguardo agli effetti morfologici e funzionali sulle strade, divenute in diverse esperienze (raccolte e sistematizzate all’interno di questa ricerca) la ragione insediativa di architetture e sistemi urbani. La seconda e più ampia parte di questa ricerca si occupa dei codici dello spazio-strada, intesi come regole e misure dello spessore. Si ritiene che gran parte del conflitto strada veloce/spazio abitabile nasca da una cultura progettuale e da una pratica diffusa impostate su un equivoco dimensionale, per cui il sistema di misure che garantisce sicurezza e comfort è inutilmente ipertrofico. Gli esempi selezionati mostrano come questi fattori possano essere comunque soddisfati con misure e geometrie ridotte, che permettono però di modellare lo spazio-strada anche per altri utenti. Sono questi i punti di partenza dell’indagine, che tenta di mettere poi a fuoco le regole compositive e di elaborare strumenti e strategie con cui affrontare il progetto stradale alla scala locale (spazio-strada) in relazione con quella territoriale, dal cordolo alla rete, attraverso tre dimensioni fondamentali ricavate dallo studio di un’ampia casistica di esperienze contemporanee: 1. la dimensione trasversale, che trova una diretta traduzione nella sezione come strumento di articolazione del piano (progetto di suolo) e di controllo della tridimensionalità della strada (volume della strada); 2. la dimensione longitudinale, espressa nel tracciato come strumento di organizzazione dei flussi in relazione alla velocità e ai materiali dei contesti attraversati (progetto di paesaggio e progetto urbano), e come disegno delle forme di prossimità tra diversi mezzi, utenti e velocità (strategia della collocazione); 3. la dimensione relazionale, esplicitata nelle forme e misure del bordo, come luogo privilegiato del rapporto di scambio con il contesto (aperto/chiuso, continuo/discontinuo, ecc…) e come plusvalore dello spazio-strada, in quanto spazio soglia a disposizione, “luogo in attesa di…”. Chiude la trattazione il capitolo dedicato alle interfacce della strada, ovvero l’insieme di dispositivi pensati con il preciso scopo di mediare il rapporto tra automobili e altri utenti, tra strada e contesto, tra diverse velocità. L’attenzione si è focalizzata sulle superfici orizzontali e verticali, oltre che sulle possibilità di ispessimento, trasfigurazione e accoglimento di usi complementari, per arrivare ai casi più estremi di applicazione delle tecnologie wireless, con le conseguenti ipotesi di decomposizione dello spazio-strada avanzata dagli esempi riportati. Queste tre sezioni, oltre a individuare altrettante attitudini della strada a generare una propria specifica architettura (traffic architecture2), corrispondono anche a tre livelli di complessità del tema infrastrutturale e della sua capacità di diventare altro o di accogliere altri usi. L’intenzione è sempre di evitare l’equivoco della specializzazione, ovvero di considerare la strada materiale urbano di dominio esclusivo delle automobili. In questo senso, il recupero delle ricerche e dei progetti di Lawrence Halprin assume il ruolo di modello diretto all’integrazione tra manufatti viabilistici e architetture, verso la sperimentazione di edifici-strada ibridi e di forme di condivisione dello spazio infrastrutturale tra diverse velocità e categorie di utenti. Negli stessi anni, le proposte di Giò Ponti configurano assetti dei tracciati e dei nodi autostradali come possibili sistemi insediativi delle strade veloci. Queste ipotesi sono il risultato di un periodo storico particolarmente fertile per l’infrastruttura, che fa riferimento alla situazione generale determinata dal boom economico, dalla costruzione dei grandi itinerari di attraversamento e dalla parallela diffusione dell’automobile come mezzo di massa. Dall’America all’Europa, con un nucleo particolarmente prolifico in Italia, la speranza verso la capacità della strada di generare il “mondo nuovo” guida ricerche e sperimentazioni sull’infrastruttura come supporto in grado di accogliere qualsiasi cosa,dotato di una propria autonomia e di un proprio statuto spaziale. È la stagione dei grandi concorsi di architettura per quartieri popolari, università, centri direzionali, in cui la strada disegna le regole compositive di architetture che guardano al territorio, di macro-edifici impostati sulle corsie di traffico, di spazi la cui composizione è determinata dal fattore velocità. Poche di queste visioni hanno trovato una diretta realizzazione, ma l’importanza di queste idee depositate al suolo arriva fino ad oggi. Dopo la crisi petrolifera mondiale degli anni settanta e il conseguente spostamento generale dell’attenzione disciplinare verso altri temi (ad esempio il progetto urbano e lo spazio aperto negli anni ottanta) è emerso un nuovo atteggiamento, un misto tra pragmatismo e neo-utopia. Alcuni grandi eventi degli anni novanta, soprattutto europei come i programmi nazionali olandesi di espansione residenziale, i Datar o i Vinex, hanno contribuito a generare una nuova sensibilità per il tema infrastrutturale e in particolare per quello del progetto stradale, non più come prezzo da pagare ma come strumento di trasformazione del territorio. A partire da alcuni progetti, primo fra tutti il Moll de la Fusta di Manuel de Solà Morales a Barcellona, la strada non è più vista come “consumo di spazio” e di risorse, ma come occasione di riassetto per la città e il paesaggio. In particolare, l’ampia azione di riqualificazione urbana in Spagna, iniziata negli anni novanta parte proprio dalla concezione del progetto stradale come progetto urbano e di spazio pubblico. In Francia, sempre nelle stesso periodo, la Direction des Routse, attraverso programmi nazionali promossi dal governo, avvia un processo di riqualificazione delle autostrade esistenti e di costruzione di nuovi corridoi di attraversamento con l’obiettivo di “ristrutturare” il paesaggio del sud della Francia. Analogamente in Olanda i piani Vinex e altri interventi effettuati sulla base dei documenti nazionali di pianificazione (Architectuur Nota) (come il recente Making Space, Sharing Space) hanno visto nel progetto stradale l’occasione di correzione per politiche rivelatesi fallimentari, nel loro promuovere la “dispersione” e la frammentazione del paesaggio della randstad. Il progetto della strada diventa in questo caso progetto di densità e di concentrazione. Le esperienze soprattutto spagnole, francesi e olandesi degli ultimi quindici anni, pur largamente legate alle sperimentazioni precedenti, assumono un carattere di particolare interesse, soprattutto per la capacità di trasformare le utopie di un tempo in strategie tanto paradossali quanto pragmatiche. Una serie di proposte operative che, unendo gli aspetti tecnici a una visione integrata dell’infrastruttura, del paesaggio e dell’architettura, costituiscono un orizzonte di ricerca nuovo e necessario.
XIX
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2

Semerani, Francesco. « John Hejduk dalla forma alla figura all'archetipo ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2676.

Texte intégral
Résumé :
2006/2007
Questo studio si interroga sul significato che il progetto di architettura assume nell’orizzonte contemporaneo attraverso il pensiero espresso da John Hejduk nei suoi progetti: un architetto per il quale le riflessioni sono direttamente espresse attraverso il progetto che assume dentro di sé tanto la dimensione teorica che quella rappresentativa. Le tracce teoriche di Hejduk sono fondamentali perché definiscono il percorso di un pensiero che passa dall’astratto al figurativo, dalla forma all’archetipo. Rintracciare tale percorso significa indagare il rapporto tra dimensione assoluta e universale dell’architettura e dimensione soggettiva. Si tratta di capire cosa significa, nel modo contemporaneo, definirsi “architetto”, “urbanista” o “docente”. Si evidenzia come nel momento in cui la crisi dei paradigmi del Movimento Moderno si fa più evidente sia in Europa che in America, John Hejduk, come altri architetti americani, senta la necessità di fare i conti con l’eredità di Le Corbusier, di Mies e di Gropius, avvertendo la necessità di rivisitare il lessico e le tecniche compositive delle avanguardie europee che si erano trasferite in America, rifiutando il successo dell’International Style e cercando una distanza dal mercato. La riflessione teorica diventa così centrale e trova nella scuola il luogo ideale dove essere formulata; mentre la costruzione passa in secondo piano, il disegno diventa il vero luogo della sperimentazione. Nei progetti per Venezia (1974-1979), secondo la nostra ipotesi, c'è il momento chiave di quel processo che porta Hejduk dalle indagini sulla forma alla ricerca e definizione di nuovi archetipi. Il tema così circoscritto in un determinato periodo potrà successivamente essere allargato con una lettura dei rapporti tra il pensiero europeo e quello americano, attraverso le relazioni con figure come Peter Eisenman, Aldo Rossi, Manfredo Tafuri. Tali relazioni si verificano in un preciso arco di tempo, al centro del quale si pone l'incontro con Venezia. La nostra tesi è che in John Hejduk via via aumenti d'importanza l'idea archetipica dell'architettura. Per Hejduk l’archetipo non è la grotta o la capanna di Semper e di Laugier, ma vale piuttosto l’accezione Junghiana di “senza contenuto”. Dice Jung: “Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L'archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni.” Così, attraverso il ricorso alla memoria e al significato, Hejduk cerca gli archetipi che, utilizzando i meccanismi del pensiero, possono dare nuova forma alle figure fondamentali. In questo processo l’architettura si avvicina sempre di più all’arte e acquista una dimensione poetica. Ma se, come dice Tafuri, “l’eccesso è sempre portatore di conoscenze”, è prioritario capire i passaggi e i modi in cui Hejduk cerca di liberare i meccanismi del pensiero, generando quella liberazione nell’immaginario architettonico che è il suo lascito più evidente.
XIX Ciclo
1970
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3

Du, Preez Jaco Andries. « Understanding the architect in enterprise architecture : the Daedulus Instrument for architects ». Thesis, University of Pretoria, 2016. http://hdl.handle.net/2263/57172.

Texte intégral
Résumé :
With numerous enterprise architecture management (EAM) methodologies, frameworks, and tools, there is still no universally accepted standard on what Enterprise Architecture (EA) really means to practicing architects. Traditionally practitioners concentrated on specific aspects of EA, such as tools, repositories, components and frameworks. However, little attention was given to the architect, who completes this trio of system perspectives (people, process & technology). This thesis reports on the research findings from multiple studies that investigated diverse factors and attributes that are associated with enterprise architects; the belief systems of enterprise architects as they pertain to enterprise architecture and enterprise architecture management; the behavioural styles of enterprise architects which they follow within their socio-technical environment, as well as enterprise architect profiles, representing a specific enterprise architect viewpoint. The enterprise architect belief systems affect the worldview and ultimately the school of thought of the practicing architect. Similarly, the role and competency of enterprise architects operating within their working environment affects their behavioural style. This thesis made use of design science research as a foundational strategy, making use of various research methodologies including a systemic literature review and qualitative surveys and the use of the framework for the evaluation of design science research (FEDS). The design science research strategy allowed for the development of the design artefact as well as its technology-based implementation, the Daedalus Instrument for Architects (DIA). DIA can be used in conjunction with existing EA frameworks and methodologies, such as The Open Group Architecture Framework (TOGAF) for the understanding of architects on why they operate and perform architectural designs in the way they do. The findings may assist enterprise architects and EA stakeholders concerned with having the right calibre of person acting as an enterprise architect fulfilling a specific architecture function within an EA team or EA practice. Keywords: Enterprise Architecture, Enterprise Architecture Management, Enterprise Architect, EA Factors, Architect Attributes, EA Schools of thought, Architect Belief Systems, Architect Styles, Architect Behavioural Styles, Architect Profiles, Architect Viewpoints, Architect Archetypes, Daedalus Instrument, Daedalus Instrument for Architects, DIA, EA, EAM, TOGAF.
Thesis (PhD)--University of Pretoria, 2016.
tm2016
Informatics
PhD
Unrestricted
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4

Ugolini, Luca. « Architettura non ufficiale. L'autore anonimo come autore collettivo (1961-1966) ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2749.

Texte intégral
Résumé :
2006/2007
Cap. 01.0 Lessico Rielaborare il significato di alcuni termini come “vernacolare” “anonimo” è l’operazione di partenza per definire il concetto di architettura non ufficiale. Si comincia dunque col ricercare la radice storica-etimologica del termine “vernacolo” per sottolineare l’origine di un fraintendimento cronico nella tradizione disciplinare. La condizione di anonimato dell’oggetto e dell’autore sembrano i nodi sui quali posare lo sguardo per discutere il ruolo del progettista e la sua adeguatezza, come figura di collegamento tra pratiche artistiche e tecniche. Con la perdita dell’autore, proclamata in letteratura da Barthes, ed evidenziata in architettura da Rudofsky, si sottolinea un passaggio storico nella percezione di una professione in continuo mutamento; la vicinanza tematica con l’assegnazione di un “Compasso d’Oro a Ignoti”, voluto da Bruno Munari, per la qualità di alcuni oggetti d’uso comune, o la ricerca di Alexander della “qualità senza nome”, sono solo alcune tra le manifestazioni a conferma di un cambio di atteggiamento da parte del progettista nei confronti del suo ruolo. 01.1 Precedenti moderni Una lettura delle posizioni prese da alcuni architetti tra le due guerre, e la mostra della triennale organizzata da Pagano e Daniel sull’architettura rurale, sono i punti sui quali si concentra il testo. Uno sguardo indietro nel tempo si rende necessario per trovare le radici di un dibattito caratteristico del movimento moderno e che ha sempre condizionato l’evoluzione della pratica progettuale; il dibattito sembra dividere in due l’atteggiamento accademico e professionale, tra chi considera l’architettura anonima come espressione di “architettura sana e onesta” dell’umanità che si organizza per condividere gli spazi; chi, invece, ne reinterpreta gli stilemi,ricorrendo alla mimesi delle forme. Si esamina il periodo di formazione per la figura ritenuta centrale di Bernard Rudofsky, che animerà il dibattito sull’architettura anonima nella metà degli anni sessanta. Nell’esempio di Villa Oro di Luigi Cosenza e Rudofsky si individua uno dei massimi esempi di felice incontro tra osservazione dell’architettura anonima e pensiero moderno; l’attualità anche formale di questo manufatto è sorprendente e rappresentativa. Rudofky rappresenta la ricerca di un valore nell’architettura non ufficiale che è difficilmente riproducibile; ne vengono messe in luce le qualità aggregative e formali, e tali attenzioni, soprattutto nell’ambito italiano, saranno segno caratterizzante di una linea culturale che valicherà il segno di demarcazione della seconda guerra mondiale fino a tradursi nel neorealismo della ricostruzione. cap. 02.0 “Architecture without Architects”. Un’indagine testuale. La trattazione si snoda all’interno dell’arco cronologico dei primi anni sessanta mettendo in evidenza eventi di carattere editoriale ed espositivo che caratterizzano il dibattito sull’architettura anonima. L’evento della mostra Architecture without Architects è ritenuto snodo nel dibattito e occasione di ripensamento sul ruolo dell’architetto in una società in forte fermento. Gli stessi interessi di Rudofsky vengono individuati anche in una serie di testi di autori, anche distanti da loro, che tendono ad osservare il fenomeno spontaneo come possibile spunto per un rinnovamento delle tradizioni disciplinari. In questo arco cronologico si ritrovano, infatti, il testo di Christopher Alexander, Notes on the Synthesis of Form (1964), la ricerca di Fumihiko Maki, Investigations in Collective Forms (1964), le Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi fino al Il territorio dell'architettura di Vittorio Gregotti (1966); tutti testi che affrontano l’oggetto anonimo con sguardi diversi, celando la stessa inquietudine sul ruolo dei progettisti. Il capitolo si suddivide in quattro paragrafi che affrontano le similitudini e le differenze dell’interesse sull’architettura anonima in quattro contesti culturali diversi; negli Stati Uniti si evidenzia la politica culturale del MoMA con l’esposizione di Rudofsky e il testo di Venturi che tende ad una riedizione del vernacolo in chiave pop; la figura di Maki e del movimento Metabolist mostra come l’esperienza di architettura radicale riesce a trovare spunto dal fenomeno non ufficiale; il panorama europeo dimostra un’attenzione peculiare del vecchio continente nei confronti delle preesistenze architettoniche di carattere popolare e rurale con la Inquérito à Arquitectura Regional Portuguesa, un’analisi puntuale delle radici popolari dell’architettura portoghese, o con le attenzioni di Hollein nei confronti degli insediamenti Pueblo nel nord del Messico. In Italia si nota la fine di un percorso intellettuale e culturale che fin dagli anni trenta aveva osservato l’architettura rurale e mediterranea come fonte per una nuova architettura, con Gregotti e Il territorio dell'architettura si pongono le basi per un cambio di scala nell’osservazione del contesto antropogeografico, che si appoggia su interpretazioni formali per ricercare atteggiamenti nuovi nel progetto. Un episodio trasversale che attraversa gran parte del capitolo è l’occasione di un concorso internazionale sviluppato dalle Nazioni Unite e dal governo del Perù per realizzare alloggi popolari; il concorso PRE.VI. sembra offrire una verifica progettuale per alcuni dei personaggi individuati come agenti del cambiamento. Anche se il concorso si svolge nel 1968, sembra interessante comprenderlo nella trattazione dal momento in cui il suo bando si elabora nel 1966 ed è ricco dei contributi analitici di John Turner, un altro autore che ha tentato una attualizzazione dei fenomeni anonimi, riconoscendo nella formazione delle Barriadas di Lima un esempio di processo spontaneo della formazione di un habitat. Cap. 03.0 presenze contemporanee Dopo aver osservato il dibattito dei primi anni sessanta, risulta importante verificare l’attuale persistere dell’osservazione dell’architettura anonima. Il capitolo tenta di mettere in evidenza alcuni atteggiamenti che ereditano le tematiche care a Rudofsky e che la contemporaneità tende a riproporre con diverse chiavi di lettura. Le analisi di Koolhaas su Lagos e gli interventi di Aravena in Cile fanno emergere come l’osservazione del fenomeno spontaneo sia utile strumento di analisi ma rischioso strumento operativo; il rischio di populismo e di una rilettura delle forme anonime considerate unico fenomeno di trasformazione d’assieme dell’habitat, tendono ancora oggi ad influenzare le posizioni dell’architetto che si dedica allo studio di questi temi. Si noterà come spesso le osservazioni tendano ad estetizzare i fenomeni; un atteggiamento che rischia di sorvolare il fenomeno in maniera estetica per evitare inquietudini della pratica professionale. Risulta interessante la riproposizione del testo di Rudofsky in occasioni diverse che ne rileggono il valore dell’indagine, sia in campo artistico che strettamente attinenti all’architettura. Si giunge così ad una serie di indicazioni che riguardano i rischi derivanti dalle indagini sulle architetture anonime; il provincialesimo e il populismo come derive possibili portano a considerare il tema dell’architettura non ufficiale non come strumento per l’operabilità della materia architettonica, ma piuttosto come diversa lettura della contemporaneità attraverso le stratificazioni storiche; ne risulta occasione per una lettura della tradizione disciplinare del moderno più aderente alla sua genealogia plurale.
XX Ciclo
1972
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5

Bradaschia, Cristina. « Potenzialità dell'infrastruttura ferroviaria nella trasformazione del territorio e della città:il caso Trieste ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2679.

Texte intégral
Résumé :
2006/2007
Il presente studio, svolto nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana, è finalizzato ad indagare gli spazi della sperimentazione nella città e nel territorio contemporanei attraverso un approccio multidisciplinare, a diversi livelli e scale di approfondimento, al fine di suggerire risposte e sollecitazioni in termini progettuali. Sperimentare significa provare, tentare, sottoporre qualcosa a esperimento allo scopo di conoscerne e verificarne le caratteristiche, la funzionalità, le qualità. Nella scelta degli spazi da sottoporre a sperimentazione si è deciso di privilegiare esempi esistenti riconducibili ad una categoria generale, in modo da poter confrontare tra loro le soluzioni e le proposte progettuali adottate. Tali esempi sono stati distinti in due gruppi: - spazi che continuano ad assolvere alle funzioni per cui sono stati realizzati, in cui però entra in gioco una variabile, che ne comporta una trasformazione in termini relazionali, funzionali ed architettonici; - spazi che sono stati privati della funzione originaria, per cui sono stati costruiti, ed in cui la variazione di alcuni fattori del contesto rivela, nella forma architettonica e nella speciale localizzazione, nuove potenzialità e risorse. Oggetto della ricerca è il sistema ferroviario; ambito di studio è l’area di Trieste, considerata punto di arrivo e di partenza, ma anche come territorio attraversato da linee ferroviarie. Dopo aver approfondito e confrontato alcune esperienze nazionali ed europee di «sperimentazione» sul sistema ferroviario, è stato preso in considerazione il caso di Trieste, che rappresenta un campo di studio particolarmente interessante per la compresenza di varie situazioni. Sono infatti attuali e accese le discussioni in merito alla definizione, sul territorio della Regione Friuli Venezia Giulia, del tracciato dell’alta velocità/alta capacità, il cosiddetto corridoio paneuropeo V, che collegherà Lisbona e Kiev. Nella Stazione Centrale di Trieste, sono in corso gli interventi di rifunzionalizzazione, programmati anche per altre centotre stazioni nel territorio nazionale, dal gruppo Centostazioni S.p.A.. Sta per essere ultimato il recupero del sedime ferroviario dismesso nella Val Rosandra per la sua riconversione a itinerario ciclabile di interesse regionale; alcune tratte dismesse sono saltuariamente percorse da treni turistici, per iniziativa di associazioni di volontari; e ciclicamente si legge, sul quotidiano locale, l’ipotesi, promossa da enti ogni volta diversi, di recuperare alcuni sedimi dismessi per realizzare una linea di metropolitana leggera. L’obiettivo della ricerca è quello di contribuire ad un governo del territorio che sia in grado di prescindere dai confini delle competenze amministrative per progettare strategicamente, in modo agile, dinamico, attento alle mutevoli sollecitazioni esterne, ed in grado di valorizzare a pieno e durevolmente le potenzialità del sistema ferroviario nel suo complesso, senza fare del commercio l’unico motore e regolatore dei processi di sviluppo. I binari, come le mura antiche della città, rappresentano un limite, un confine. Le recenti soluzioni progettuali, che prevedono in alcuni casi l’interramento dei binari ed in altri la dismissione del servizio di trasporto, restituiscono alla città nuovi spazi. Come le superfici rimaste libere in seguito alla demolizione delle mura, nell’Ottocento, così, oggi, gli spazi un tempo occupati dall’infrastruttura, rappresentano una risorsa preziosa per la collettività, che merita di essere progettata seriamente, e non saturata o frammentata indiscriminatamente. Nella prima parte della tesi il sistema ferroviario esistente viene scomposto negli elementi che lo costituiscono e ne vengono studiate, attraverso alcuni approfondimenti, le soluzioni progettuali. Ci si interroga, infine, se il sistema ferroviario possa essere considerato patrimonio culturale. Solamente se esso è inteso come «patrimonio dell’eredità culturale dei luoghi» può essere riconosciuto e condiviso il suo valore aggiunto e il suo ruolo nei processi di pianificazione e governo del territorio. Per la seconda parte dello studio sono stati necessari sopralluoghi e ricerche di archivio al fine di ricostruire la storia e la configurazione del patrimonio ferroviario di Trieste. Attraverso la forma dell’osservatorio territoriale del sistema ferroviario sono stati presentati gli interventi in corso a livello europeo, nazionale e regionale che interessano l’area di studio. Sono state quindi prese come riferimento tre linee, considerate rappresentative, ed è stata indagata la loro potenzialità nella trasformazione della città e del territorio. A conclusione del percorso di ricerca, viene presentata un’applicazione informatica, semplificata a livello dimostrativo, come possibile strumento di sperimentazione delle caratteristiche e delle potenzialità del patrimonio ferroviario triestino. Essa tiene conto dei vari livelli di intervento, dalla scala europea a quella locale e presenta le tre linee oggetto di studio. L’applicazione propone una struttura che è possibile in futuro ampliare ed arricchire con maggiori dettagli oltre a quelli presenti, oggi limitati alla denominazione, localizzazione, uso e proprietà delle linee e delle stazioni. Lo scopo è promuovere l’uso creativo delle risorse. L’infrastruttura ferroviaria viene considerata come patrimonio da immettere nel campo delle opportunità. A tal fine vengono individuati principalmente due tipi di interventi: la riconversione dei manufatti ferroviari e il recupero del rapporto tra il manufatto ferroviario e il contesto. Lo studio intende sensibilizzare gli enti sulle vaste potenzialità dell’infrastruttura ferroviaria e promuoverne la conservazione, come bene pubblico da valorizzare. L’aspetto della comunicazione e della trasparenza delle informazioni, è ritenuto fondamentale per il coinvolgimento di possibili attori nel processo di conoscenza, partecipazione e gestione del patrimonio.
XIX Ciclo
1977
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6

Angi, Barbara. « Strategie di sopravvivenza urbana, istruzioni per l'uso ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3144.

Texte intégral
Résumé :
2007/2008
Nel mondo contemporaneo, i territori metropolitani presentano in larga misura fenomeni di instabilità urbana causati soprattutto da flussi migratori sempre crescenti, dovuti principalmente all’apertura delle frontiere e alla recessione economica. Questo fenomeno globale dovrebbe sollecitare la nostra disciplina a ricercare soluzioni abitative a costi ragionevoli e a tempo determinato. Nella realtà europea emerge un sistema-città che, nel suo insieme, non è definibile come entità data, certa, immutabile, sulla quale sovrapporre un nuovo disegno, è invece un sistema aperto in continua trasformazione, in perenne mutazione. Questo scritto parte dal presupposto che i modelli di intervento finora applicati per gestire il fabbisogno abitativo, o anche l’habitat minimo progettato per eventi calamitosi, possano ampliare i loro orizzonti verso nuove emergenze legate alle attuali esigenze sociali ed economiche di una sempre più considerevole porzione della popolazione. Lo spazio urbano è attraversato oggi da perenni flussi – di automobili, di persone, di informazioni – difficilmente gestibili con una pianificazione a lungo termine, ma solo limitatamente alla predisposizione di infrastrutture di collegamento dei sistemi urbani, la disciplina architettonica dovrebbe (potrebbe) assimilare la nozione di mutazione con la messa a punto di manufatti ad assetti variabili in grado di rispondere ad esigenze funzionali transitorie. La trattazione si sviluppa con l’intento di indagare quei fenomeni di modificazioni urbane temporanee che si collegano, non solo all’autogestione del territorio da parte del fruitore che costruisce, per necessità o spontaneamente, la propria casa, nonché di esaminare alcuni progetti teorici, in parte utopici e in parte futuribili degli ultimi cinquant’anni elaborati soprattutto da gruppi di avanguardia. Sono state indagate, pertanto, alcune micro realtà abitative connesse alla necessità di insediamento in contesti metropolitani in cui è difficile ritrovare il concetto di casa inteso come elemento di riconoscibilità geopolitica: fenomeni d’emergenza abitativa incontrollati, inseriti all’interno del tessuto urbano indifferentemente, innesti temporanei che compaiono e scompaiono velocemente, aggredendo qualsiasi porzione di spazio libero, dalle aree industriali dismesse, agli snodi infrastrutturali, ai centri storici fatiscenti. Ai limiti tra l’autocostruzione e la pratica dell’abusivismo, frequentemente, il tipo di rapporto che queste micro realtà instaurano con il tessuto urbano segue le regole parassitarie di vicendevole alleanza tra due insiemi biologici e garantisce la sopravvivenza di entrambi, ma su livelli diversi: quello legale, costituito da piani di sviluppo speculativi o in cui non esistono strumenti urbanistici efficaci e quello illegale, governato dall’esigenza di sopravvivere in condizioni metropolitane avverse. La richiesta di alloggi temporanei permette inoltre di considerare il costruito in maniera differente: scenario dove poter agganciare la casa, dove poter innestare l’habitat minimo in posizioni strategiche, innescando rapporti simbiotici tra l’esistente e l’innesto. Si tratta di fenomeni che, se analizzati criticamente, possono portare a conclusioni inedite. Proprio in Italia, paese nel quale poco si demolisce e molto si conserva, manipolazioni di questo tipo potrebbero rinnovare aree depresse o vaste zone industriali dismesse. Se si considera la residenza come efficace strumento di controllo sociale, i diversi gradi di simbiosi che si possono stabilire tra il costruito e gli innesti potrebbero generare risultati proficui sia sul piano economico ma soprattutto psicosociale degli utenti. L’architettura potrebbe scoprire una nuova espressività, una nuova scrittura, potrebbe nascere un’architettura virale che, come ci suggerisce Franco Purini, sia il risultato di una molteplicità di processi formali di tipo infettivo.
Nella prima parte si analizza una sezione della cultura architettonica europea che, nella seconda metà XX secolo, ha caratterizzato la ricerca disciplinare innescando un forte ripensamento sui mezzi e sulle finalità dell’architettura stessa, promuovendo modelli insediativi rivolti ad una società dotata di un alto grado di mobilità sociale. Fughe in avanti che sembrano sopite, ma dalle quali si possono ancora trarre utili insegnamenti – come dimostrano alcuni dei protagonisti dell’attuale dibattito architettonico globale – e ritrovare spunti di riflessione per gestire la complessità della metropoli contemporanea, concepita come modello dinamicamente e costantemente in evoluzione, in perenne accelerazione. Il pre-testo della ricerca affonda le radici nel saggio di Andrea Branzi Le profezie dell’architettura radicale, apparso nel volume Radicals a cura di Gianni Pettena del 1996. In esso Branzi definisce l’architettura radicale non tanto come «un movimento culturale preciso, piuttosto come un fenomeno energetico, un ‘territorio sperimentale’ che ha investito la cultura del progetto europeo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta». La ricerca tende ad individuare un filo rosso nel vasto dibattito sul tema dell’abitare radical attraverso la rilettura di alcuni frammenti che compongono le testimonianze del periodo, peraltro non ancora debitamente sistematizzate. Sono stati indagati avvenimenti e dibattiti del tempo, soprattutto in quei paesi in cui le lotte sociali hanno, senza alcun dubbio, condizionato le ricerche disciplinari. L’Italia, la Gran Bretagna, l’Austria e la Francia, tra il 1960 e il 1970, sono state considerate realtà rappresentative di condizioni in cui gli scontri ideologici legati all’esplosione della cultura di massa hanno prodotto sperimentazioni originali atte a rispondere alle trasformazioni sociali in atto, mettendo in discussione gli strumenti e le metodologie del progetto urbano e architettonico. I radicals, in ambito accademico prima e in quello professionale poi, hanno prodotto visioni di città future in cui l’uomo può liberamente muoversi in costruzioni dagli assetti variabili in grado di rispondere rapidamente alle richieste funzionali di un’utenza non più certa del proprio futuro ed in costante e continua evoluzione . Tra schizzi frettolosi, disegni ironici, fotomontaggi arditi prodotti nel periodo oggetto di indagine, sono stati selezionati alcuni studi sull’habitat minimo, fughe in avanti che tendevano a produrre oggetti, all’epoca, materialmente irrealizzabili ma divenuti oggi plausibili, in relazione alle opportunità fornite dallo sviluppo tecnologico, sia dal punto di vista costruttivo che funzionale.
Nella seconda parte, sono stati analizzati piccoli manufatti realizzati per aggiunta, per scavo, per manomissione del tessuto urbano contemporaneo, ponendo particolare attenzione a quelli di dimensioni abitative ridotte che, con la loro capacità di collaborare e/o di scontrarsi con pezzi di realtà costruita, si impastano con essa producendo inedite derive urbane. Operazioni di manipolazioni dell’esistente che coinvolgono principalmente due questioni: il limite da porre alla delirante espansione urbana e la riconversione ecologica dello stock edilizio contemporaneo prodotto, in particolar modo in Italia, durante il boom economico degli anni Cinquanta. Presa coscienza dell’impossibilità di operare con strategie edilizie che partano da un grado zero o che necessitino di modificare l’esistente in un ottica anti tabula rasa, sono stati privilegiati alcuni esempi campione che rielaborano e riarticolano il tessuto della città e dell’architettura, con scale d’intervento inattese, verosimilmente microscopiche. Nella contemporaneità si sono individuate due linee di ricerca che poggiano su presupposti simili e si sviluppano declinando scelte tecnologiche high o low tech. Da un lato, l’architettura rubata, fatta di micro inserimenti staminali innestabili sull’esistente, che producono soluzioni abitative legali, e dall’altro l’architettura dei rifiuti, fatta di oggetti di scarto, frutto della sovrabbondanza contemporanea di beni materiali, che vengono utilizzati per la costruzione di soluzioni abitative in territori illegalmente occupati. Entrambi gli approcci si legano a nuove o ritrovate esigenze d’uso dell’ambiente domestico e derivano sovente, dal parassitismo biologico, il concetto di mutazione. L’architettura della manipolazione o dell’innesto, può indicare alcune linee guida grazie alle quali operare in lembi urbani residuali tenendo conto della possibilità di variazione spontanea del costruito. Al di là degli evidenti aspetti di parassitismo connessi alle forme di sopravvivenza tipiche degli homeless, dei campi nomadi, delle conurbazioni improvvisate, delle favelas presenti in larga misura, ormai anche in Europa, ancor più interessante è rintracciare oggi metodologie costruttive parassitarie in tessuti urbani consolidati, legate a situazioni sociali connotate da preoccupanti fenomeni di precarietà economica. A conclusione della seconda parte sono state inserite, quasi a margine della trattazione generale, quindici schede sinottiche descrittive di progetti manifesto, di studi per piccole cellule, di esempi di habitat parassita, costruzioni inedite che, come sopra accennato, risultavano solo pochi lustri addietro carichi di componente utopica, sogni nei cassetti di giovani intellettuali vagheggianti mondi non sempre possibili. Queste microarchitetture risultano tuttavia oggi di grande attualità e addirittura fattibili con le tecnologie presenti sul campo. Ci sono apparsi pertanto come veri e propri riferimenti per altrettanti oggetti architettonici realizzati nella contemporaneità che, quasi provocatoriamente, sono stati accostati ai loro progenitori in questa piccola rassegna al fine di far meglio comprendere e cogliere criticamente il messaggio di un non lontano passato.
Nella terza parte sono documentati alcuni progetti, da me elaborati nel triennio, come strumenti di verifica degli assunti della ricerca: due concorsi internazionali sul tema dell’habitat minimo e gli esiti di un workshop didattico progettuale al quale ho partecipato in veste di tutor presso la Facoltà di Architettura di Trieste.
XXI Ciclo
1976
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7

White, John Philip Jr. « Architect / Builder : Builder / Architect ». Thesis, Virginia Tech, 2002. http://hdl.handle.net/10919/41299.

Texte intégral
Résumé :
Throughout architectural history, the relationship between builder and architect has been ever-changing. Architects traditionally evolved from the building trades with a fundamental understanding of the principals behind construction. Architects have since evolved into a profession based in academics, not in actual tacit knowledge. The current relationship between architects and builders is complex. The Architect questions the ability of the builder. The builder questions the knowledge of the architect. Collaboration has become very difficult. These buildings are an attempt to use the built environment as a tool for both the architect and builder to gain a better understanding of what the other does.
Master of Architecture
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Decommer, Maxime. « Les architectes au travail : les conditions d'apparition, d'évolution et d'uniformisation des lieux et des structures d'activités des architectes, 1795-1940 ». Thesis, Paris Est, 2014. http://www.theses.fr/2014PEST1014.

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Résumé :
De la libéralisation des métiers lors de la Révolution à la fondation de l'ordre des architectes en 1940, le milieu de l'architecture est traversé d'actions, de débats et de combats tendant à l'institutionnalisation de la profession d'architecte. Ce long processus, visant la réglementation de l'accès à la profession et l'obtention du monopole sur l'architecture à partir de la définition et de l'affirmation d'une identité sociale et professionnelle unique de l'architecte, est marqué par plusieurs étapes inhérentes au processus de professionnalisation, parmi lesquelles la revendication de l'exercice d'un travail, l'établissement d'écoles de formation, la constitution d'associations professionnelles ou encore la promulgation d'un code de déontologie. La détermination des règles d'activités constitue également un jalon du mécanisme, influant au jour le jour sur l'évolution des modalités de la pratique des architectes. Si plusieurs travaux de recherche ont déjà été consacrés à l'histoire de la profession d'architecte, peu ont traité l'histoire de la détermination de ces règles d'activité et, conséquemment, celle de l'organisation du travail des architectes. À partir de l'étude des lieux et des structures d'activités communément nommées « agences » par les architectes, ce travail ambitionne d'interroger sur le temps long la réciprocité des apports du processus d'institutionnalisation de la profession et de la définition des règles d'activités des architectes. Notre hypothèse générale pose que les grandes forces actives dans le processus d'institutionnalisation de la profession – telles l'État agissant comme maître d'ouvrage public, les grands maîtres d'ouvrages privés nés de la révolution industrielle, les associations corporatistes ou encore l'École des Beaux-Arts – ont, tout en reconnaissant à certains individus le statut, le rôle et parfois anachroniquement le « titre » d'architecte, également influencé, voire codifié, les modes, les conditions et les méthodes de travail des acteurs du milieu qu'elles légitimaient. En reconstituant l'histoire du terme « agence », c'est donc également celle d'un groupe professionnel que nous retraçons. Dans une première partie, les origines du mot « agence », employé dès la fin du XVIIIe siècle et tout au long du XIXe par l'État pour définir les structures d'activité des maîtres d'œuvre répondant à la commande publique, révèlent la force du pouvoir étatique sur la pratique des architectes, à partir notamment de la normalisation de l'acte de la construction ; l'agence des travaux publics apparaît comme un instrument d'homogénéisation. Dans une deuxième partie, la diffusion du modèle d'organisation du travail des architectes conçu par l'État au cours du XIXe siècle aux services publics décentralisés et spécialisés d'architecture, ainsi que sa reprise par certaines compagnies privées d'investisseurs de la révolution industrielle, illustre la transmission de méthodes à divers sous-groupes de la profession. Dans une troisième partie, après l'adoption du code Guadet en 1895 par les associations professionnelles, texte fondateur de l'affirmation de l'exercice libéral, les influences du marché et de la commande sur l'évolution des agences sont observées et expliquent l'introduction et le développement de l'exercice salarié et en association dans la profession d'architecte
From the liberalization of professions during the French Revolution to the foundation of the Order of Architects in 1940, the architectural world has been confronted to actions, debates and fights, which led to institutionalizing the profession of architect. This long process aimed at the regulation of access to the job and at the monopolization on architecture, through the definition and affirmation of a unique social and professional identity of the architect. It is made of several steps, all inherent in the professionalization process: the claim to a working activity, the establishment of training schools, the creation of professional associations, or the promulgation of a deontology code. The establishing of working rules is also a milestone to this process, influencing day by day the evolution of architects' practices. Already some research have been done in the general history of the profession of architect, but only a few have considered the history of these working rules, and, thus, of the working organization of architects. This research starts from the study of the places and structures, commonly called “offices” (agence) by the architects. It aims at questioning in the long run the reciprocal relation between the institutionalization of the profession and the definition of the working rules of the architects. The general hypothesis is the following: the active forces in the process of institutionalization of the profession – such as the State acting as a public sector contractor, the private sector big contractors born out of the industrial revolution, the corporate associations, the School of Fine Arts – have on the one hand given the status, role and, sometimes in an anachronistic way, the title of “architect”, and on the other hand influenced, even codified, the working conditions and methods of the actors they were legitimating. By reconstituting the history of the term “office”, this research also reconstructs the history of a profession. In a first part, we show that the word “office” has been used from the end of the 18th century and all along the 19th century by the State, in order to define the structures of activity of the project managers dealing with public procurement. This shows the strength of the state power on the architects' practices, through the normalization of the building process. The public works administration appears to be a tool of standardization. In a second part, the pattern for organizing the work of architects, designed by the State during the 19th century, is generalized to the decentralized and specialized architectural public services. It is also used by some private investment companies during the industrial revolution. This illustrates the transmission of methods to different sub-branches of the profession. In a third part, we start from the adoption of the Guadet code in 1895, a seminal text about liberal professions. We show how the growing influences of market and command on offices explain the introduction and development of the salaried and associational employment
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Ragonese, Marco. « Pauropolis. Pianificare il controllo attraverso il progetto della sicurezza ». Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2678.

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Résumé :
2006/2007
“Il grado di sicurezza misura la democrazia di un paese”, con questa frase un esponente della destra salutava l’approvazione nel parlamento italiano del nuovo pacchetto di norme in tema, appunto, di sicurezza. L’affermazione indica sintomaticamente come la questione, seppur non nuova, abbia acquisito un ruolo centrale nel dibattito contemporaneo, facilitata da una perfusione mediatica che ha trasformato l’evento dei primi giorni del settembre 2001 nel simbolo controverso della crescente sensazione di incertezza globale. Le conseguenze sul vivere contemporaneo e sugli ambienti urbani sono ormai evidenti, così come l’inevitabile strumentalizzazione della paura da parte dei più diversi soggetti: politici, amministratori, sociologi, pubblicitari, opinion-leader (tutti gli studi sull’argomento mostrano come, nonostante l’insicurezza “percepita” abbia una relazione indiretta con le minacce reali, le sue conseguenze siano determinanti). Questo sta generando la formazione di un nuovo tessuto sociale, apparentemente assediato da una realtà urbana di cui non comprende i mutamenti (perché non è più capace e perché non interessa farlo) e barricato dietro la barriera tutta materiale dei prezzi della proprietà immobiliare, convinto di escludere quella quota di insicurezza che la presenza degli sconosciuti contiene in sé. L’insicurezza viene trasformata in materiale di base dalla pianificazione e in dispositivi dall’architettura; dispositivi che agiscono sulle minacce come deterrenti e/o strumenti di difesa e sulla percezione di ambienti più controllati e sicuri. Inevitabilmente la nozione di spazio pubblico ha subito un cambiamento radicale, diventando sempre più legata al controllo dei fruitori che alle sue caratteristiche fisiche. Le città sono disseminate di telecamere “amiche” collegate alle forze di polizia, pubblica o privata: si è passati da una società panottica a una post-panottica, in cui il controllore si è liberato dal legame fisico che lo vincolava al sorvegliato. Il vocabolo “sicurezza” identifica immediatamente determinate porzioni di città (escludendone automaticamente altre), ponendosi quale parametro qualitativo di analisi urbana e sociale e delineando una nuova cartografia basata su una unità di misura determinata dalla paura, che palesa l’esistenza di barriere, non fisiche ma mentali, all’interno di una città dove è smascherato l’equivoco tra tolleranza e indifferenza. L’ambizione della ricerca consiste nell’individuare quale sia il grado di trasformazione indotto nell’ambito disciplinare e il cambiamento incorso al processo di progettazione architettonica sotto la pressione della questione securitaria. A partire dalle mura di cinta costruite con massi ciclopici sino agli immateriali firewall a cui sono affidate le difese della nostra dimora nel cyberspazio, risulta chiaro come, seppur cambiati i materiali, le procedure difensive seguano inalterate logiche di fortificazione. In questo contesto sono state sviluppate alcune teorie e pratiche urbanistiche, tutte di matrice statunitense, che hanno favorito la pianificazione degli insediamenti nei territori suburbani sud e nordamericani, nordeuropei e africani. Agglomerati abitati da comunità il cui interesse principale (e comune) si sostanzia nel recintare la propria incolumità per trascorrere una vita nel pieno comfort, affidando le norme del vivere civile ai regolamenti redatti dagli sviluppatori edili e contribuendo alla dissoluzione dello spazio pubblico mediante la privatizzazione dello stesso. Gated communities, Walled Cities, Common Interest Development costituiscono i nuovi termini del vocabolario urbanistico suburbano. A partire dal basilare apporto di Jane Jacobs - che per prima comprese la necessità di un controllo nella città attraverso strumenti sociali (la territorialità, l’occhio sulla strada) - il primo capitolo illustra la nascita della teoria CPTED (Crime Prevention Through Environmental Design), fondamento della pianificazione securitaria, e le sue declinazioni contemporanee. E distorsioni. L’applicazione di tali teorie ha, infatti, favorito la nascita di enti certificatori che operano una valutazione, basata esclusivamente sulla congruenza del manufatto architettonico ai dettami securitari e sul raggiungimento del maggior grado di sicurezza. Le ricadute sulla pratica professionale e sul processo di progettazione di un tale procedimento fa sì che, dovendo rispondere ai requisiti codificati, la figura dell’architetto venga affiancato da esperti e consulenti, provenienti dal mondo della polizia. La certificazione ottenuta viene utilizzata dagli strateghi del marketing immobiliare quale strumento attraverso cui creare nuovi valori di mercato. L’ultima parte del capitolo è riservata alla realtà italiana che presenta delle variazioni metodologiche dettate dalle differenti condizioni territoriali e sociali rispetto al contesto in cui ha avuto origine il CPTED. La difformità più evidente consiste nel fatto che le teorie securitarie siano diventate materia di studi e ricerche accademiche piuttosto che motivazione dei programmi edilizi degli sviluppatori privati, così come accaduto negli Stati Uniti. Il dispiegarsi di nuove pratiche è supportato dalla comparsa di strumenti normativi che cercano di regolamentarne, o quantomeno indirizzarne, l’azione. Soprattutto nei Paesi dove la materia è relativamente recente. Il secondo capitolo illustra le linee guide e di indirizzo, redatte dagli organi tecnici della Comunità Europea, affinché i progettisti possano mettere in atto un corretto processo di progettazione capace di assicurare gli standard minimi di sicurezza. Anche il mercato corre a supporto del progettista fornendo di materiali sempre più ricchi e articolati “la sicurezza diventa una merce, prodotta e venduta sul mercato”. Da asfalti anti-skaters a intonaci a prova di graffito, da sistemi di videosorveglianza ad antifurti satellitari, gli architetti dispongono di un’ampia scelta per dotare gli edifici di sistemi attivi e passivi in questa battaglia continua che la complessità dei fenomeni urbani costringe a combattere. Soldati formati e specializzati, grazie alla crescita esponenziale di corsi di laurea e master finalizzati alla definizione di nuove figure professionali pronte a decodificare le richieste e applicare le norme messe loro a disposizione. Insegnare la sicurezza diventa, così, un passaggio fondamentale nella nuova “filiera” dell’architettura, i cui prodotti a differente scala costituiscono l’argomento dell’ultimo paragrafo. Nel terzo capitolo, l’analisi spazia dalla crescente attenzione del design industriale ai ripensamenti riguardanti le periferie urbane, dalle pratiche partecipate come strumento di riappropriazione territoriale alle demolizioni di interi quartieri come unica soluzione dei problemi inerenti la politica del territorio. La parte finale focalizzerà l’attenzione sulle strategie alternative che, utilizzando proprio “l’incidente”, l’indeterminato, come materiale architettonico attraverso cui proporre nuove soluzioni e modi d’uso, rovesciano concettualmente gli approcci “difensivi” più impiegati. Si tratta di ricerche architettoniche che mutuano dalla pratica artistica l’occupazione e la trasformazione dello spazio pubblico quale risorsa ancora necessaria per la vita metropolitana. Probabilmente alla fine della lettura, dopo avere visionato i diversi approcci nell’affrontare la crescente richiesta di sicurezza della società contemporanea (da quello “esclusivo” che utilizza la delimitazione fisica come strumento deterrente, a quello “inclusivo” in cui il pericolo diventa uno degli “ingredienti” del progetto) emergerà che il ruolo dell’architettura è ancora quello di porre domande e non di costruire certezze attraverso strumenti di controllo dettati dal mercato. Per un presente in costante accelerazione.
XX Ciclo
1974
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Guillerm, Elise. « L'architecte Jean Dubuisson (1914-2011) : le dessin à l'épreuve des usages ». Thesis, Paris 1, 2015. http://www.theses.fr/2015PA010590.

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Résumé :
L'œuvre de l'architecte Jean Dubuisson prend appui sur une culture artistique familiale et un cursus honorum, couronné d'un Grand Prix de Rome en 1945. Ce parcours académique et sa connaissance de l'avant-garde internationale sont ses principaux atouts face à la multiplication des demandes de l'après-guerre. Sa production vise à concilier deux champs apparemment contradictoires, l'héritage de l'École des Beaux-arts et une modernité affirmée. Marqué par Mies van der Rohe ou Jean Prouvé, il développe une architecture graphique, épurée et innovante, grâce à l'usage de l'aluminium et de matériaux verriers. En région parisienne, dans le Nord et dans l'Est, il contribue à la définition d'un habitat raffiné. À la tête d'une importante agence à Paris, il conçoit des plans de villes, édifie le musée des Arts et Traditions populaires, restaure la villa Savoye. Il obtient des responsabilités institutionnelles et s'engage dans le débat doctrinal : architecte des Bâtiments civils et des Palais nationaux, il enseigne à l'École Saint-Luc de Tournai et préside le Cercle d'études architecturales. Son action est soutenue par les instances traditionnelles de la profession et la sphère technique. Dans ses différentes fonctions, il renouvelle les compétences et les modes opératoires de l'architecte : échanges transnationaux, collaborations artistiques, contribution au design, restauration du patrimoine moderne. Durant un siècle riche de bouleversements, il incarne une modernité hégémonique et affronte ses contradictions
The oeuvre of the architect Jean Dubuisson rests on an artistic upbringing and a cursus honorum, crowned by a Grand Prix de Rome in 1945. His academic record and knowledge of the international avant-garde were his main assets when faced with the increase of commissions in the post-war era. His production aimed to reconcile two seemingly contradictory fields: the heritage of the École des Beaux-arts and an affirmed modernity. Marked by Mies van der Rohe or Jean Prouvé, he developed a graphie, uncluttered and innovative architecture through the use of aluminium and glassware. He contributed to the design of sophisticated housing in the Paris area and in the North and East of France. White at the head of an important Parisian agency, he designed city plans, constructed the Musée des Arts et Traditions populaires (Museum of popular arts and traditions), and restored the villa Savoye. He gained institutional responsibilities and engaged in the doctrinal debate: as an architecte des Bâtiments civils and Palais nationaux (architect of Civil Buildings and National Palaces), he taught at the École Saint-Luc de Tournai and presided over the Cercle d'études architecturales (society of architectural studies). His activity was supported both by traditional authorities in the profession and by the technical sphere. In the course of his various duties, he renewed the scope of the architect's skills and work methods: transnational exchanges, artistic collaborations, contribution to design, and restoration of modern built heritage. During a century of intense upheaval he embodied hegemonic modernity and faced its contradictions
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Rush-Ossenbeck, Cody T. « The Architect ». University of Akron / OhioLINK, 2011. http://rave.ohiolink.edu/etdc/view?acc_num=akron1314715765.

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Caycedo, Juan C. « The City Architect ». Scholarly Repository, 2009. http://scholarlyrepository.miami.edu/oa_theses/216.

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It could be the most powerful tool any community might have to develop their built environment. Yet, due to political, social/cultural or economic factors, in most cities, it has been relegated to a secondary role or eliminated altogether. The ?City Architect? or ?Urban Design Director? is an underestimated area of professional expertise that can perform a missing role in the implementation of community visions, plans, and codes. The lack of proper tools and community design expertise in planning and architecture has produced a fragmented, flawed ?design? through ad hoc roles in shaping pieces of the built environment. There is a growing need for professionals with city design and urban architecture (?civic art?) expertise and education to guide community visions, plans and codes (particularly form-based codes) through their long-term implementation working with private developers, property owners, architects, elected officials, city departments, and the public on a parcel-by-parcel, building-by-building review and refinement process. This individual should be vested with the knowledge and capacity to direct the form of the city towards the future. The city architect should have the capacity to challenge and change the course of the city urban development as it evolves maintaining an environmentally sustainable and socially conscious vision. As Communities are shaped by different natural and artificial forces, the city?s evolution as an organic process has been the focus of study by many scholars and practitioners. This is a step by step method that procures the development of the city as a series of individual single steps towards a greater vision. Other professionals and urban planners have focused their efforts on developing formulas as a way to shape the city within a preconceived armature. Either way, there is a need of an individual (?Director?) that understands the political power to influence the development of communities and is empowered to enforce regulations that achieve cohesive sustainable and livable places. The city architect must understand of the aesthetic, socio/cultural and economic factors and the importance of context and contextual principles that lie intrinsically within the ?soul? of the community and are fundamental to new place making. The city architect must be capable to interpret and adjust the regulating mechanisms as required maintaining the city?s identity without necessarily imposing prescribed ideas that could alienate some groups and disconnect the community. Design professional rely less on formulas learned at school than on the improvisation learned within the professional practice. This unarticulated, largely unexamined process has been the subject of investigation of individuals interested in the study of the ?practice of the design? and is fundamental in the vital creativity of the city architect.
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Cirfi, Walton Mirella. « Antonio Federighi, architetto ». Thesis, National Library of Canada = Bibliothèque nationale du Canada, 1996. http://www.collectionscanada.ca/obj/s4/f2/dsk3/ftp04/MQ46509.pdf.

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Flores, Carol Ann Hrvol. « Owen Jones, architect ». Diss., Georgia Institute of Technology, 1996. http://hdl.handle.net/1853/20841.

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Rosenbaum, Laura. « La condition internationale des architectes : le monde en référence : représentations, pratiques et parcours ». Thesis, Bordeaux, 2017. http://www.theses.fr/2017BORD0605/document.

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Résumé :
Les architectes forment en France une profession originale et à forte identité professionnelle. Denombreux travaux de recherches ont rendu compte d’évolutions, de mutations, d’adaptations à descontextes d’action régulièrement renouvelés. Au-delà de la révolution environnementale ounumérique, de processus de conception qui associent les populations, de conditions économiques etréglementaires plus contraignantes, l’un des phénomènes majeurs de ces deux dernières décenniesest une internationalisation des cursus de formation et des pratiques professionnelles. Bienqu’historiquement en France une majorité d’architectes exerce là où ils ont été formés, un nombrecroissant d’entre eux s’affaire, depuis les années 1980, hors des frontières (expatriation, export,partenariats). Alors que la profession a été pensée dans le cadre de l’État-Nation, la conditioninternationale devient plus fréquente. La thèse montre qu’un « nationalisme méthodologique » necorrespond pas à la réalité des pratiques et des représentations qui dépassent les territoiresnationaux.La sociologie des professions, articulée à des travaux de sociologie de l’international, offre denouvelles grilles de lecture aux pratiques des architectes. Elles montrent que la conditioninternationale s’impose dès la formation et a des effets sur les carrières : plus les étudiants viventd’expériences à l’étranger, plus ils y exercent. Une segmentation professionnelle en est le support :alter-architectes, humanitaires, institutionnels, entrepreneurs et icônes organisent leurs pratiques etcultivent des valeurs d’exercice dans le monde. De même, l’analyse de profils, sous forme deportraits, montre les socialisations en œuvre : les initiés acquis à la cause internationale ; lesuniversalistes dont les valeurs s’expriment à cette échelle ; les stratégiques qui organisent leurbiographie professionnelle à l’étranger ; les bivalents qui alternent travail local et hors des frontières.L’internationalisation d’une partie des diplômés ne transforme pas en profondeur l’identité collectivedu groupe, mais exprime un véritable renouvellement, trop souvent minoré, des dispositifs d’actionset des cultures professionnelles. La recherche combine approches qualitatives et quantitatives, etplusieurs sources : un questionnaire (1698 réponses), des entretiens semi-directifs (77), desobservations in situ, des études de cas, et une analyse documentaire. Les résultats montrent lepassage d’un modèle professionnel traditionnel à un modèle professionnel international. Finalement,plus que dans une mondialisation des échanges, les pratiques des architectes se structurent entre leséchelles d’action nationales et internationales. Une ouverture au monde qui a des chances des’accentuer
In France, architects form a unique profession with a strong professional identity. Numerousresearch projects have reported changes, developments and adaptations to regularly renewedcontexts of intervention. Beyond the environmental or digital revolution, design processes involvinglocal populations, and more restrictive economic and regulatory conditions, one of the majorphenomena of the last two decades is the internationalization of training courses and professionalpractices. Although historically a majority of the French architects practice where they have beentrained, since the 1980s a growing number of them have been working outside the borders(expatriation, export, partnerships). While the profession was conceived within the framework of theNation, the international condition becomes more frequent. The thesis shows that a "methodologicalnationalism" does not correspond to the reality of practices and representations that go beyondnational territories.The sociology of professions, articulated to works of the sociology of the international, offers newinterpretative frameworks of the practices of architects. They show that the international conditionis an integral part of the training and has effects on the careers: the more students gain internationalexperience, the more they practice abroad. This development becomes the basis of a professionalsegmentation: alter-architects, humanitarian and institutional architects, entrepreneurs and iconsorganize their practices and cultivate the value of their profession in the world. Similarly, the analysisof profiles, in the form of portraits, shows the processes of socialization: the insiders favorable to theinternational cause; the universalists whose values are expressed on this scale; the strategists whoorganize their professional biography abroad; the «bivalents » who alternate local and internationalwork. The internationalization of a part of the graduates does not profoundly transform thecollective identity of the group, but expresses a real renewal, too often underestimated, of actionmechanisms and professional cultures. The research combines qualitative and quantitativeapproaches and several sources: a questionnaire (1698 responses), semi-directive interviews (77), insitu observations, case studies, and a literature review. The results show the transition from atraditional national to an international professional model. Finally, more than in a globalization ofexchanges, the practices of architects are structured between the national and international scales ofaction. An openness to the world that is likely to increase
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Svoboda, Jiří. « Architekt Jiří Voženílek ve Zlíně ». Doctoral thesis, Vysoké učení technické v Brně. Fakulta architektury, 2010. http://www.nusl.cz/ntk/nusl-233229.

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Résumé :
Jiří Voženílek was born on August 14th, 1909 in Holešov. He attended high school in Prague, where he also studied architecture at the ČVUT and he became a university professor at this institution in the 1960’s. Later, he became the main architect of The Capital of Prague. He started to work for the Baťa Company on April 20th, 1937. His first task was to assist the architect Vladimír Karfík on the Roman Catholic Church project in Otrokovice-Baťov. Then he became the leader of the collective 276, Construction Department no. 8 and the head architect as well. He cooperated with architect Jaroslav Fragner for the Baťa Company on the creation of the urban concept called The Industrial City of Kolín in 1940-41. He created an interesting industrial project, The Rendering Plant in Otrokovice–Baťov on his own. Several of his other architectural works can be found in the former Baťa factory in Zlín, particularly the factory buildings no. 15 (built in 1946-47) and no. 14 (built in 1947-48). However, the most famous work of Jiří Voženílek is the Collective House in Zlín. He is the author of many famous urban projects in his homeland and around the world as well. He became the head of the group of architects who created the Regulation Plan of Zlín in 1946-47, which is valid even today.
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Eilering, Brad. « From Architect to Sculptor ». Thesis, Southern Illinois University at Edwardsville, 2018. http://pqdtopen.proquest.com/#viewpdf?dispub=10793975.

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Résumé :

My thinking once privileged the logical path as my architecture training had taught me to do, has grown to include equally the emotional influences of my lived experience. The unique contributions of each of my parents have come to bear on this change in thinking and in my development as a sculptor. My mother was a maker of textiles. Within her works, she clearly communicated a message of appreciation to the wearer, as represented in the multitude of carefully crafted stitches. My father is an architect. In his drawings of buildings, I see order, form, and the expression of space clearly articulated. Together, my parents imparted their lessons to me during my formative years. These influences carried me forward, yet I always viewed them distinct from one another. The self-reflective experience of graduate school revealed a relationship between these different ways of making that I had not initially realized. This has had a direct impact on the type of work I produced in which I tried to expand these boundaries.

This thesis speaks to my journey from being an architect to becoming a sculptor.

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Brun-Ozuna, Barbara Suzanna. « Marshall Robert Sanguinet, Architect ». Thesis, University of North Texas, 1995. https://digital.library.unt.edu/ark:/67531/metadc332820/.

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Résumé :
Sanguinet was one of the most important early architects in Texas. His partnership with Arthur and Howard Messer was responsible for the development of Arlington Heights, a prominent resort community. With partner Carl Staats and later partner Wyatt Hedrick, Marshall Robert Sanguinet designed most of the early towers of the Fort Worth central business district. In addition, the firm also designed residences, churches, educational facilities, courthouses, and club buildings in Fort Worth as well as in Dallas, Houston, San Antonio, and Wichita Falls, where branch offices are located.
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Chelini, Emanuele <1993&gt. « Matteo Lucchesi architetto veneziano ». Master's Degree Thesis, Università Ca' Foscari Venezia, 2019. http://hdl.handle.net/10579/15294.

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Guidoboni, Francesco. « Giovanni Niccolo' Servandoni (1695-1766) : architetto ». Thesis, Paris 1, 2014. http://www.theses.fr/2014PA010621.

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Résumé :
Il s’agit d’un projet de thèse doctorale en cotutelle – entre la «Sapienza» Università de Roma et l’Université de Paris I «Panthéon- Sorbonne » – visant à étudier la vie et l’oeuvre architecturale de Jean-Nicolas Servandoni, une figure d’artiste parmi les plus emblématiques et moins connues du XVIIIe siècle. Peintre, architecte et décorateur, Servandoni est connu pour avoir remporté le concours pour le projet de la façade principale de l’église Saint-Sulpice de Paris, et pour le grand nombre des décors réalisés d’abord pour l’Opéra, puis pour la Salle des Machines des Tuileries. Au cours de sa vie il eut la chance de travailler auprès des souverains les plus importants d’Europe, de Paris à Londres, de Madrid à Lisbonne, de Bruxelles à Vienne et encore à Dresde et Stuttgart. Ce travail de recherche s’est fixé pour objectif d’étudier les périodes les moins connues de sa vie, comme sa formation d’abord à Florence puis à Rome, ses premières missions en Angleterre avant son arrivée à Paris en 1724, ses voyages à travers l’Europe, son travail pour les plus importantes familles royales européennes, et les autres commissions d’architecture en France, au-delà du chantier de Saint-Sulpice. La difficulté majeure a été d’identifier les principales sources bibliographiques et documentaires à partir desquelles on a établi des renseignements biographiques qui ont été transmis à travers le temps jusqu’à aujourd’hui. Il était donc nécessaire de réaliser une opération de «nettoyage» de tous les renseignements faux ou inexacts «incrustés» dans les siècles sur la vie de Servandoni. Grâce à ce «nettoyage», il a été possible d’identifier les sources «premières», sur lesquelles reconstruire la biographie de notre architecte. La recherche dans les archives de plusieurs pays a mené à d’importantes découvertes, tel que la présence de Servandoni à Rome entre 1719 et 1720. Ici il résidait dans le palais du Prince Guido Vaini, un homme «entièrement attaché à la France» et lié au milieu du théâtre d’Alibert et Capranica, où Servandoni aurait évidemment pu se former comme scénographe. Tout cela a permis de formuler des hypothèses sur ses contacts dans la capitale de la papauté, comme son lien avec l’atelier de Benedeto Luti dans le Palais de Florence, où travaillaient, parmi d’autres, Jean Paul Pannini et William Kent. Cette étude a donc mis en évidence sa relation étroite et continue avec les britanniques tout au long de sa vie – à commencer par son séjour romain – de sorte qu’on peut relire son oeuvre architecturale avec une nouvelle clé, davantage liée au milieu palladien anglais. En outre, la lecture des documents a permis d’identifier deux enjeux fondamentaux, qui expliquent en même temps la réussite et l’échec de sa carrière : la question de la nationalité de Servandoni et la légitimation de son rôle d’architecte. Servandoni, en effet, par sa naissance italienne – pourtant d’un père d’origine lyonnaise – dès son arrivée en France fut toujours apprécié comme peintre et décorateur «de Florence». Pour sa qualité d’«ultramontain», il fut choisi par le curé Languet de Gergy, comme architecte de la fabrique de Saint-Sulpice, véritable symbole et point de référence de l’Église de Rome à Paris, contre les «novateurs» jansénistes. [...]
This research work - a phd thesis in co-supervision between the "Sapienza" University of Rome and the University of Paris 1 "Panthéon-Sorbonne" - was born with the aim of shedding light on the life and work of the architect Giovanni Niccolo Servandoni, one of the most emblematic figures and less-known artist of the eighteenth century.At the same time he was painter, architect and decorator and his name was famous thanks to a large number of sets made for the Opéra and to the design of the façade of the church of Saint-Sulpice in Paris. During his life, Servandoni had the opportunity to travel throughout Europe, where he worked for the major courts of that time, from Paris to London, from Lisbon to Brussels, Vienna, Dresden and Stuttgart.The research work has the objective to investigating especially the lesser-known aspects of the architect's life, like as the period of his training in Florence and Rome, the years where he lived in England before his arrival in Paris in 1724, his travels in Europe and his architectural work as well as the site of Saint-Sulpice, both in France and abroad.Thanks to this research, Servandoni's complete work- so vaguely interpreted as an anticipation of the "goût à la grecque" and the revival of the classicism of the late of eighteenth century - is reinterpreted as the result of his training in Italy and England. It is indebted, in fact, that as well the classicism that characterized the Florentine architecture of that period as his close contact with the English Palladian circle and with the Wren, Vanbrugh and Hawksmoor's works, exercised a great influence on him
Questo lavoro di ricerca - una tesi di dottorato in co-tutela tra la « Sapienza » Università di Roma e l’Université de Paris I «Panthéon- Sorbonne» - è nato con l’obiettivo di far luce sulla vita e l’opera dell’architetto Giovanni Niccolò Servandoni, una tra le figure d’artista più emblamatiche e meno conosciute del XVIII secolo. Allo stesso tempo pittore, architetto e decoratore, il suo nome è rimasto famoso per il gran numero di scenografie realizzate per l’Opéra e per il progetto della facciata della chiesa parigina di Saint-Sulpice. Durante il corso della sua vita, Servandoni ebbe l’opportunità di viaggiare in tutta Europa, dove lavorò presso le più importani Corti dell’epoca, da Parigi a Londra, da Lisbona a Bruxelles, Vienna, Dresda e Stoccarda. Una delle problematiche maggiori che il lavoro di ricerca ha manifestato, è stata la verifica della correttezza delle notizie riportate dalle fonti a stampa, sia antiche che moderne. Le biografie esistenti dell’architetto riportavano infatti una serie di notizie inesatte o completamente infondate, che si erano «incrostate» nei secoli sulla sua figura. Si è resa quindi necessaria un’operazione di «pulizia» delle fonti che ha permesso di risalire ad alcune notizie certe e verificabili nei documeni d’archivio, che sono state la base su cui ricostruire la biografia dell’architeto. Il lavoro di ricerca si è posto l’obieivo di indagare in paricolar modo gli aspei meno noi della vita dell’architeto, come il periodo della sua formazione a Firenze e a Roma, i suoi anni di soggiorno in Inghilterra prima del suo arrivo a Parigi nel 1724, i viaggi in Europa e le commissioni di architettura oltre al cantiere di Saint-Sulpice, sia in Francia che all’estero. La ricerca d’archivio ha condotto a scoperte innovative, come la presenza di Servandoni a Roma tra il 1719 e il 1720, all’interno del palazzo del principe Vaini - uomo «entièrement attaché à la France» e legato all’ambiente dei teatri Capranica e d’Alibert - che ha permesso di formulare alcune ipotesi sulla sua vita e i suoi contatti nella cità pontificia. E ancora, lo studio ha messo in luce il forte rapporto che Servandoni ebbe con l’ambiente culturale inglese durante il corso di tutta la sua vita - già a partire dal suo soggiorno romano - tanto da poter rileggere la sua opera architettonica in una chiave nuova, più legata alla corrente palladiana che all’architettura romana o francese di quegli anni. L’interpretazione dei documenti ha portato inoltre all’individuazione di due tematiche fondamentali che, spiegano allo stesso tempo la riuscita e la crisi della carriera di Servandoni : il problema della sua nazionalità e quello della legitimazione del suo ruolo di architetto. [...]
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Schmidt, Annette. « Ludwig Eisenlohr ein architektonischer Weg vom Historismus zur Moderne ; Stuttgarter Architektur um 1900 / ». Stuttgart : Kommissionsverlag : Hohenheim, 2006. http://catalog.hathitrust.org/api/volumes/oclc/70574079.html.

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Résumé :
Slightly revised version of the author's dissertation as acccepted by the Universität Stuttgart in 2005.
Copyright 2006 Archiv der Stadt Stuttgart. Includes bibliographical references (p. 625-640).
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Bühler, Annette. « Bernhard Simon (1816-1900), Architekt / ». [Regensdorf] : www.baudenkmaeler.ch, 2007. http://opac.nebis.ch/cgi-bin/showAbstract.pl?sys=000254765.

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Green, Lyle Edward. « Essaies of a young architect ». Thesis, Georgia Institute of Technology, 1987. http://hdl.handle.net/1853/23455.

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Bulfone, Lorenzo. « Von Neumann : non solo architetto ». Bachelor's thesis, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2014. http://amslaurea.unibo.it/7909/.

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Korff, Mary Blaine 1944. « Stephen Child : Visionary landscape architect ». Thesis, The University of Arizona, 1991. http://hdl.handle.net/10150/291434.

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Résumé :
Colonia Solana neighborhood in Tucson, Arizona was designed in 1928 by landscape architect Stephen Child. The use of native plants and topography as the basis for the site plan was unusual in 1928, and also has applicability today as the basis for an ecologically sound, self-sustaining landscape. Factors influencing Tucson's early development were examined as the background of this subdivision. Thus Colonia Solana neighborhood, the last work known to have been designed by Child prior to his death in 1936, became the starting point for inqueries into the life and other works of the landscape architect. It was discovered that Stephen Child (1866-1936) was not only a landscape architect, and one of the early advocates for the use of native plants; he was also a charter member of the American City Planning Institute in 1917. His works in Boston, Santa Barbara, San Francisco, and Tucson were documented.
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SPINAZZI, ALBERTO. « Tommaso Temanza : architetto, lettore, scrittore ». Doctoral thesis, Università IUAV di Venezia, 2009. http://hdl.handle.net/11578/278585.

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Eisenmenger, Mathias. « Der Architekt : das zukünftige Berufsbild unter Berücksichtigung seiner Verantwortung als Baumeister / ». Kassel : Kassel Univ. Press, 2007. http://www.upress.uni-kassel.de/publi/abstract.php?978-3-89958-252-9.

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Kanerva, Liisa. « Defining the architect in fifteenth-century Italy : exemplary architect in L. B. Alberti's De Re aedificatoria / ». Helsinki : Academia scientiarum fennica, 1998. http://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb391068384.

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Iwatsubo, Tomoko. « Constructing the tower : Yeats as architect ». Thesis, University of York, 2015. http://etheses.whiterose.ac.uk/13443/.

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Résumé :
W.B. Yeats’s tower, the most “visible” symbol in his work, is a product of his concerted labour over more than a decade. It marks a crucial phase of Yeats’s poetic career in the wake of Responsibilities and the Easter Rising. The Rebellion and its repercussions both public and private acted as a catalyst for the inception of his “tower project” in the period of dramatic personal and national transformation. This study focuses around the genesis and gradual elaboration of Yeats’s tower, the sheer work that went into its creation as well as the repeated pattern of interaction between Yeats’s agency and contingency in his poetic construction in the period leading up to The Tower and beyond. This biography of Yeats’s tower traces the development of the architectural dimension of Yeats’s later poetry, setting it against the poet’s parallel reconstruction of the particular building, Thoor Ballylee. The thesis illuminates the ways in which Yeats’s tower poetry evolved into his major poetic project, a landmark and cornerstone of his later work, with its grand scope gradually unfolding even to the poet himself. Combining the poet’s biography with genetic analyses of all the tower-related poems from The Wild Swans at Coole (1919) to The Winding Stair and Other Poems (1933), including explorations of materials which have hitherto tended to be overlooked on this supposedly well-trodden ground, the thesis casts an unfamiliar light on the tower, one of the most familiar landmarks of modern poetry, and highlights its chronologically changing picture—moving “[m]inute by minute,” as it were, shadowed by Irish conflicts. The thesis also demonstrates how closely interwoven different kinds of “building”—literal, textual, political and symbolic—were in Yeats’s life and work during the turbulent and transformative years following the birth of “terrible beauty.”
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McGill, David Paul. « An Appalachian Architecture, an Appalachian Architect ». Thesis, This resource online, 1985. http://scholar.lib.vt.edu/theses/available/etd-11072008-063240/.

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Morin, Pauline Marie. « Leon Battista Alberti : architect as Orator ». Diss., Georgia Institute of Technology, 2002. http://hdl.handle.net/1853/22332.

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Hayes, Kenneth L. « Machiavelli's architect : Filarete and the Arché ». Thesis, McGill University, 1993. http://digitool.Library.McGill.CA:80/R/?func=dbin-jump-full&object_id=69767.

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Résumé :
Filarete's treatise presents architecture, the new archaized mode of building, to Francesco Sforza as the means to historiate and recuperate his insurgent regime, which had overturned the preceding dynastic order of power. This thesis shows how the treatise tried to persuade a powerful but retardatory new prince not yet absorbed by the legitimizing narrative of a renascence of antiquity. It focuses on the treatise's narrative, and places it in its political situation, to show that Filarete made a dramatic, polemical opposition between building and architecture, which he will be shown to have defined as those techniques of assuring the arche.
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Provoost, Michelle. « Hugh Maaskant : architect van de vooruitgang / ». Rotterdam : 010 publ, 2003. http://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb389964264.

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ZINI, SILVIA. « PKC : Paffard Keatinge-Clay architetto itinerante ». Doctoral thesis, Università IUAV di Venezia, 2015. http://hdl.handle.net/11578/278352.

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ROGNONI, FRANCESCA. « Cola dell’amatrice Architetto nei Cantieri Ascolani ». Doctoral thesis, Università IUAV di Venezia, 2019. http://hdl.handle.net/11578/282398.

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EUSEBIO, FLAVIO. « GIACOMO TAZZINI, ARCHITETTO DI TRE CORTI ». Doctoral thesis, Università degli Studi di Milano, 2012. http://hdl.handle.net/2434/172807.

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Giacomo Tazzini, architect of three courts. Life and work by a versatile architect-engineer in Milan, from Repubblica Cisalpina to Italian Unification. PhD thesis by Flavio Eusebio The name of Giacomo Tazzini often comes out in many documents of restoration of buildings in Milan, Monza and other Lombard sites. Nonetheless it hasn’t been never realized a specific research about his work. Tazzini doesn't represent only a stylistic and professional continuances with his master Luigi Canonica. In forty years he creates some extraordinary works, for the aesthetic and the technique, that have changed the face of Milan. The matrix of the aesthetic taste of the facades of his buildings is the Neoclassic one, but in the interiors it is possible to see a progressive evolution of the ornamental language. The works of Tazzini are very numerous if we consider not only court's assignments such as Royal Palace and the Scala Theatre, but even buildings and interiors for private commitment such as Spinola Palace. These assignments took place in Milan and in other Lombard cities. Sometime he used to design churches even if most of the time the architect that projected these sacred buildings was Tazzini's brother Giuseppe. The presence of Giuseppe has often determined confusion in attributions of altars or facades' projects. The quantity and quality of discovered drawings made by Tazzini show a very clever figure, great architect and engineer and interior designer, able to consider all the details from the door-handles to the chandeliers. Tazzini represents one of the final complete designer. He has not studied at the university but at Canonica's studio. Considering the hugeness of the documents discovered the research examines only the most important works in Milan, as defined in the subtitle.
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Berkant, Cenk. « L'Impero Ottomano e l'Italia, le relazioni in architettura : Il caso di Smirne ». Doctoral thesis, Università degli studi di Padova, 2011. http://hdl.handle.net/11577/3421713.

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Résumé :
This thesis aims at analyzing and emphasizing the works of Italian architects and engineers who were active in Izmir, during a period spanning from 1850s to 1930s. The presence of Italian architects and engineers in the Ottoman Empire goes back to the Tanzimat (1839, the Ottoman Reform Movement) which provided the foundation for changes in a range of areas including urban renewal programs. It was a necessity to invite Western architects and engineers to plan new urban areas which extended existing urban settings of the time and to erect new buildings reflecting European styles. This study focuses on the works of four Italian architects and engineers who were active in Izmir: Luigi Storari (1821-1894), Luigi Rossetti (1876-1949), Stefano Molli (1858-1917), and Giulio Mongeri (1873-1953).
Questa tesi si propone di mettere in evidenza e analizzare i lavori degli architetti e ingegneri italiani attivi a Smirne dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento. La presenza degli architetti italiani nell’Impero Ottomano risale alle riforme ottocentesche denominate Tanzimat (1839), che diedero un impulso fondamentale alla trasformazione urbanistica in senso occidentale. Perché ciò avvenisse, era indispensabile invitare architetti e ingegneri occidentali per costruire nuovi edifici secondo lo stile in voga in Europa, e progettare l’apertura di strade in modo da permettere prolungamenti e futuri ampliamenti delle città. Questo lavoro si focalizza soprattutto su quattro architetti e ingegneri italiani, che furono attivi a Smirne, quali sono Luigi Storari (1821-1894), Stefano Molli (1858-1917), Luigi Rossetti (1876-1949) e Giulio Mongeri (1873-1953).
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Hambraeus, Victorson Mattias. « After the Architects ». Thesis, KTH, Arkitektur, 2015. http://urn.kb.se/resolve?urn=urn:nbn:se:kth:diva-159201.

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Résumé :
Developed from a desire to explore alternative ways of addressing aspects of architecture, the project After the Architects tells the story of the KTH School of Architecture building through the eyes of me - one of its many users. The project consists of a film, an exhibition and a hand book with mental excercises. Investigating the tools we have at hands as architects in the context of storytelling as a mean of communication, I wanted to dissect the many layers of interpretation and experiences a building consists of. It is often said that the core of a building is what it does and how it does this. Since buildings, rooms and spaces are experienced differently by everyone, I think the active use of subjectivity is the best way of approaching this theme. The KTH School of Architecture building has been my second home for five years. It has hosted architecture education since 1970, but after the summer of 2015, it is entering a new phase as the school is moving to a new building. Therefore, as a student leaving the building, I’m using my subjectivity as a tool for investigating the relationship between the course of time, the school building, and myself.  Which effects and stories has it staged over the years and how has the building affected me, on an intellectual-, as well as on a personal level? Some of the themes I’ve been working with are; the aspects of time, memories and nostalgia, the different roles of a building, spaces as references, and the interplay between perspective, interpretation and meaning.
Sprunget ur en önskan att undersöka alternativa sätt att diskutera arkitektoniska aspekter skildrar projektet After the Architects historien om KTH arkitekturskolans byggnad sett genom mina ögon i egenskap av en av dess många användare. Projektet består av en film, en utställning och en handbok med tankeövningar. Genom att använda mig av formen av historieberättande vill jag belysa den mängd av lager av tolkningar och upplevelser som en byggnad skapar förutsättningar för. Det sägs att kärnan i vad en byggnad är består av det den gör och hur den gör detta. Eftersom vi upplever byggnader, rum och platser på olika sätt anser jag att en aktiv användning av det subjektiva perspektivet är det bästa sättet att ta sig an detta ämne. KTHs Arkitekturskola har varit mitt andra hem de senaste fem åren. Sedan 1970 har det inrymt arkitekturutbildningen i Stockholm, men efter vårterminen 2015 går byggnaden in i en ny fas, då skolverksamheten flyttar till en ny byggnad. I egenskap av en student som lämnar byggnaden använder jag mig av min subjektivitet som ett analysverktyg för att undersöka relationen mellan tidens gång, byggnaden och mig själv. Vilka upplevelser och historier har den iscensatt genom åren och hur har byggnaden påverkat mig; både på ett intellektuellt- och på ett känslomässigt plan? Några av de teman jag arbetat med är: tiden & byggnaden, minnen & nostalgi, byggnadens olika roller, platser som referenser, och sambandet mellan perspektiv, tolkning och meningsskapande.
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Hays, Johanna A. « Louise Blanchard Bethune architect extraordinaire and first American woman architect, practiced in Buffalo, New York (1881-1905) / ». Auburn, Ala., 2007. http://repo.lib.auburn.edu/07M%20Dissertations/HAYS_JOHANNA_23.pdf.

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Ruso, Anita. « Les architectes au service de la République de Raguse de 1667 à 1808 et leurs impacts sur l’art de bâtir de la ville de Dubrovnik ». Thesis, Paris, EPHE, 2016. http://www.theses.fr/2016EPHE4098.

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Résumé :
Après le séisme qui frappa la région de la République de Raguse en 1667, Dubrovnik (ancienne Raguse), sa ville capitale, connut une forte immigration architecturale d’origine romaine et, dans un seul cas, vénitienne, principalement composée d’ingénieurs et d’architectes. Après avoir tenté de retracer l’histoire des relations artistiques et diplomatiques entre la République de Raguse et les Etats de la péninsule apennine, qui remontent au XIIIe siècle mais qui connurent leur apogée après le grand séisme de 1667, cette étude se penche sur le rôle des architectes étrangers dans le cadre de l'administration publique de la République de Raguse et sur l’impact qu'ils eurent sur l'architecture de la ville. Malgré le fait qu'un bureau officiel des architectes n'existait pas au sein des institutions publiques, nous pouvons retracer les comportements habituels du commanditaire, le Sénat de la République, dans le processus du recrutement des architectes étrangers. Ainsi, les mêmes modèles de coopération entre les architectes et le commanditaire, répétés au cours des siècles, témoignent d'un système stable, traditionnel, qui resta inchangé jusqu'à la fin de la République en 1808. Dans cette recherche, l’accent a été mis sur l'architecture représentative de la ville de Raguse ainsi que sur tous les chantiers qui étaient sous le contrôle de la République. Enfin, les migrations artistiques entre Rome et Raguse durant la deuxième moitié du seicento et pendant le settecento furent mises en parallèle en suivant le même phénomène qui eut lieu dans la ville de La Valette en Malte et dans la région Val di Noto en Sicile
After the earthquake that struck the region of the Republic of Ragusa in 1667, Dubrovnik (formerly Ragusa), its main city, experienced a strong architectural immigration of Roman origins (and in only one case, Venetian). After attempting to trace the history of artistic and diplomatic relations between the Republic of Ragusa and the authorities of different states of the Apennine peninsula which reached their peak after the great earthquake of 1667, this study examines the role of foreign architects in the context of public administration of the Republic of Ragusa and the influence they had on the architecture of the city. Although the architects did not have their formal office within public institutions, the usual behavior of the Senate of the Republic in the process of recruitment of foreign architects shows us that same patterns of cooperation between architects and sponsor were repeated over the centuries. Therefore, we use them as strong evidences that show a stable and traditional system, which remained unchanged until the end of the Republic in 1808. In this research, the focus was on the representative architecture of the city of Ragusa and on all building sites which were under the control of the Republic. Finally, artistic migrations between Rome and Ragusa in the second half of seicento and during settecento were compared with the same phenomenon that took place between the city of Valletta in Malta and Rome and between the region Val di Noto in Sicily and Rome
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Katipoglu, Ceren. « An Analysis Of Architect Sinan&#039 ». Master's thesis, METU, 2007. http://etd.lib.metu.edu.tr/upload/3/12608641/index.pdf.

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Résumé :
This thesis focuses on the late period mosques of architect Sinan in terms of their structural systems, the relation with their environment, and the identities of their patrons. The links amongst the role of the patron, his or her status in the state, materials used in the mosques, location choice and the spatial distribution of the mosques are researched on the bases of these six late period mosques of Sinan. In this perspective, the social background of the Ottoman Empire in the sixteenth century is the first focal point of the thesis. The relations between the decadence of the institutions, the political conditions of the Ottoman Empire and the architectural production during the last quarter of the sixteenth century are examined in the second chapter of this thesis. In the third chapter these six late period mosques as the sampling case are described in detail and evaluated in terms of their bearing systems, construction materials, the site features and the relation with their patrons. Though, being one of the favorite subjects in the Ottoman architectural history, there are many research and interpretations on Sinan&
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s architectural style, works on late period mosques are limited and not specifically focused. In the fourth chapter of the study these limited interpretations are brought together and evaluated in the light of the background information supplied in the previous chapter of the thesis. In this framework, the aim of this study is not only to assess the late period works of Sinan as a tool to trace his architectural process, but also to unveil the relations with the identities of the patrons and locational and structural features of the mosques.
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Dhami, Veerinder K. « An examination of the architect in practice / ». Thesis, McGill University, 1989. http://digitool.Library.McGill.CA:80/R/?func=dbin-jump-full&object_id=61989.

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Marsden, Graeme. « Reading the family houses of an architect ». Thesis, University of East London, 1998. http://roar.uel.ac.uk/1244/.

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Résumé :
This thesis considers relationships between occupants and their places of occupation. Of relationships between the bodies of occupation and the stones occupied in the speck instance where the places of occupation have been designed by one of the occupants. The late eighteenth/early nineteenth century architect Sir John Soane has been selected as the architect/occupant. This selection was made because of his gift to the nation of a house in Lincoln 's Inn Field designed for his family, offered complete with an extensive collection of representations of occupation. This archive material, contained in letters, journals, account books, home made books, descriptions of the places of occupation, watercolours and architectural drawings, has been used extensively in the fabric of the thesis. It is this material, contained within the house, that is under consideration: the project uses the matter collected/contained both as a means of considering the logic of the house/home and as matter to be analysed, or subjected to that logic. As the material under examination includes textual matter, interrelationships between this form of material, the bodies of writing and the stones of the places of writing are analysed. The houses/villas under examination are Pitzhanger Manor House, a villa at Ealing; No. 12 & 13 Lincoln's Inn Fields, two adjoining London town houses and the Clerk of the Works' official residence at Chelsea. They are considered exclusively in terms of representation, not as built or physical form. Views of the houses/villas from contexts beyond the framework of the archive are not engaged with; they are not located within a street, city, or world perspective. The material contained within the archive is used to consider the construction and destruction of the houses/villas designed by the architect/owner. It is also used to examine what might be deemed the construction and destruction of the family of 3 occupation and the formation of another form of family of occupation. In so doing, the thesis does not attempt to build a portrait of the occupiers, or a history of'the place off occupation. It is neither a biography nor an architectural history but something in between; akin to an analysis of the place of occupation from the logic of the material collected and contained.
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Lamont, Alan. « John Honeyman LLD FRIBA (1831-1914) architect ». Thesis, University of Greenwich, 1999. http://gala.gre.ac.uk/8741/.

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Chamoun, C. « Neorealist director-architect critically observing the obvious ». Thesis, University College London (University of London), 2010. http://discovery.ucl.ac.uk/19290/.

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Résumé :
Within post-war (1975–2000) and post-Syrian-occupied (1976–2005) Beirut, civic values are being challenged on a daily basis. In this particular post-war, post-occupied condition, when seven million cubic feet of ancient Beirut have been demolished and dumped into the water, architecture can no longer be compatible with conventional design principles, but may alternatively seek to look ‘critically at the obvious’1 through Neorealism in order to develop a new type of architect and architecture able to deal with such a circumstance. A similar condition may be experienced through considering the characteristics and techniques in Rome Open City (1945) by the Neorealist film director Roberto Rossellini; with makeshift studio space, no comprehensive cast of professional actors, no advanced lighting systems, one-page scripts, no formal camera framing, no perpetual recording of dialogue and no formal financial backing, Rossellini creatively documented post-World War II Italy and the devastating impact of the Fascist regime and Nazi occupation of Rome. As an architect living in post-war/post-Syrian-occupied Beirut, I believe the fifteenth-century drawing tools and techniques of the designer-architect2 are less useful in Beirut today. Rather, an investigation into the oeuvre of Neorealism and the formation of a ‘Neorealist Director-Architect’ (NrDA) model will attempt to offer relevant post-war architecture in Beirut. The research question raised is: to what extent can the gambits, devices and techniques of film history, with a focus on the Neorealist film-director Roberto Rossellini, serve as a model for the NrDA, providing an alternative model for the traditional designer-architect? The proposed NrDA shall utilize a set of both theoretical and practical tools derived from Neorealist film technique and adapted to architecture through the use of interviews, photography, film, animation, video and audio recordings, newspapers and current gossip and material reconstitution, as well as digital and physical modelling, to locate and record the various forms of myth and matter within Beirut. The new-found knowledge base and tool set are then applied in making the proposed ‘Municipal Structure of Negotiation’ (MSN) as an architectural testimony to the NrDA model.
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Tyack, Geoffrey. « Sir James Pennethorne : architect and urban planner ». Thesis, Royal Holloway, University of London, 1987. http://repository.royalholloway.ac.uk/items/2a30d8ed-27e5-4f3e-8039-da3e09f3e108/1/.

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Résumé :
Sir James Pennethorne (1801-1871) was the architectural heir of John Nash, in whose office he received much of his early training. From 1839 until 1870 he worked almost exclusively for the government: devising and carrying out major street improvement schemes in central London; designing and laying out the first metropolitan parks intended primarily for the use of the poor; acting as architecural surveyor to the Crown Estate in London; advising successive governments on schemes for new public buildings in the capital; and designing some of the most important of those buildings himself. He was one of the leading architects and urban planners of the mid 19th century, and a study of his career fills a major gap in the history of London, and the archtectural history of19th-century England. A first chapter traces Pennethorne's early career, examining his training, his role in the Nash office, and his first independently commissioned buildings. An assessment of his contribution to the planning of London follows, concentrating first on street improvements, then on the Crown Estate, and finally on parks. Pennethorne's main activities in these areas were concentrated in the 1840s and early 1850s. In 1844 he began his involvement in the planning and design of government buildings, and from the 1850s until his retirement the interest of his career is mainly architectural. A chapter traces hisdealings with the Office of Works, through which department government buildings were conceived and carried out. The buildings themselves are then considered by type: government offices, museums, royal residences, and a miscellaneous group which includes the Public Record Office and the first purpose-built headquarters of the University of London. A final chapter provides an assessment of Pennethorne's achievements and of his place in the history of English architecture.
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Smith, Liam Arthur. « Instruments of Memory : The Architect as Archivist ». Thesis, Virginia Tech, 2014. http://hdl.handle.net/10919/25285.

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Résumé :
The mental space in which the architect formulates, tests, and cultivates an idea is deformed by memory, so that nothing projected into this space is bereft of association. However, neither is this space constrained by physical reality, allowing the architect a certain freedom to visualize the totality of an object and the world in which it is projected, simultaneously and in suspension: a space between memory and imagination. Memories and experiences layer richness upon this inner world and form the context for its manifestation; its realization. The deliberate and conscientious curation of this inner world-- the architect as archivist of memory and experience-- is an essential practice for the development of the architect and the worlds in which they operate.
Master of Architecture
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Phillips, Mary L. « Certified rehabilitation : a tool for the architect ». Thesis, Virginia Polytechnic Institute and State University, 1985. http://hdl.handle.net/10919/51895.

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This thesis delineates how the process of "certified rehabilitation" can be applied by the architect to acquire tax savings and quality control on the rehabilitation of a historic building. Theory and principle are applied to a specific case. To strengthen the architect's and the planner's awareness of governmental guidelines, approaches are suggested to benefit the client and improve the potential for "adaptive reuse" with emphasis on lighting. This thesis shows, by example, how economics and building methods can enhance Historic Preservation.
Master of Architecture
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Boulton, Alexander O. « Frank Lloyd Wright : Architect of an Age ». W&M ScholarWorks, 1993. https://scholarworks.wm.edu/etd/1539625790.

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Volz, Kirsty. « Architect and Ceramist : Nell McCredie's Architectural Works ». Thesis, University of Queensland, 2021. https://espace.library.uq.edu.au/view/UQ:b58cd59.

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Résumé :
Nellie (Nell) McCredie (1901-1968) worked as both an architect and a ceramist. She was enrolled in the second cohort of the Bachelor of Architecture at the University of Sydney between 1919 and 1923. However, after graduating, McCredie was unable to find employment in architecture; instead, she found work in various drafting roles in Sydney. In her search for full-time employment in architecture, she moved to Cairns in July 1925 and spent four months working for a small architectural firm, Lawrence and Lordan.[1] In November 1925, McCredie moved to Brisbane and joined the Queensland Government’s State Advances Corporation in the Workers Dwelling Board (WDB). She stayed there for three years designing affordable homes, funded by government-backed loans, for working and middle class families. During this time, she designed at least one house as a private commission, outside of her employment with the WDB. While in Brisbane, McCredie started taking classes in ceramics with LJ Harvey at the Central Technical College.[2]

McCredie returned to Sydney in 1929 at the beginning of the Great Depression. Upon returning home, she undertook further training in ceramics, learning to throw pottery on a wheel.[3] What started as a hobby transformed into McCredie’s full-time career throughout the 1930s.[4] By 1932 she had started her own ceramics teaching and production business based out of a studio on George Street in Sydney’s CBD. McCredie also continued to practice architecture independently in Sydney during the 1930s and 1940s. One of her most significant architectural works in Sydney was her design for a purpose-built ceramics studio in Epping in 1936. She operated her ceramics business from Epping with her brother Robert until she died in 1968.[5]Existing histories on McCredie’s career have focused on her ceramics rather than her architecture. The lack of attention paid to McCredie’s architecture is not because her work was insubstantial but because of the complexities in attributing authorship by architects to their buildings.[6] This thesis details McCredie’s career in architecture for the first time, which has been made possible by the discovery of her architectural archive.

McCredie’s architectural archive provides a rare opportunity to discuss the built work of one of Australia’s early women architects. This research has led to the identification of 12 previously undiscovered houses by McCredie, including seven houses in Queensland and five in Sydney’s northern suburbs. Of these 12, 10 are extant. Prior to this research, only one of her houses had been identified, Uanda (1928) in the Brisbane suburb of Wilston. It was only discovered after an application to demolish the house was submitted to Brisbane City Council in 1998. The council sought an interim heritage protection order for the house, which the then owners of Uanda disputed in the Queensland Land and Environment Court in 1999. Fortunately, the decision to protect Uanda was upheld, and it was included on the Queensland Heritage Register in 2000. The court case over the heritage listing of Uanda is an important departure point for this thesis, especially in terms of how the aesthetic merits of the house were debated between heritage expert Richard Allom and historian Judith McKay.[7]

The discussion of McCredie’s architectural works presented in this thesis also provides new insights into the careers of the architects she worked alongside. McCredie was among the first identifiable cohort of Australian women in architecture, who as Julie Willis wrote, emerged in earnest in the 1920s.[8] This study builds on existing research on Australia’s early women architects completed by Willis, McKay and Bronwyn Hanna. In particular, it provides new details about the careers of Australian interwar women architects, Ursula Jones, Eunice Slaughter, Dorothy Brennan, Lorna Lukin, Marjorie Hudson, Rosina Edmunds and Heather Sutherland. Additionally, McCredie’s archive also contributes to existing histories about the institutions that she was involved with throughout her career, including new findings into the histories of the WDB and the curriculum delivered into Australia’s first Bachelor of Architecture degree at the University of Sydney.

[1] Nell McCredie Employment Statement, Department of Public Works, 1928, Queensland State Archives document: WOR/A 1194 Department of Public Works Administration series files Brisbane, Australia

[2] Judith McKay, “Designing women: pioneer architects”. Journal of the Royal Historical Society of Queensland, Vol. 20, No. 5, (Feb 2008): 174-175.

[3] Robert McCredie, “McCredie Pottery: 1922-1974” McCredie Ceramics Archive, National Gallery of Australia, Canberra, Australia, 1

[4] “Where Pottery is Made By Hand: Sydney Girl’s Fascinating Hobby” The Sydney Morning Herald 20 October, 1936: 5

[5] Robert McCredie, “McCredie Pottery: 1922-1974,” 6

[6] Julie Willis, Invisible Contributions: The PRobertlem of History and Women Architects, Architectural Theory Review, 3:2, (1998): 61

[7] Michel v. Brisbane City Council, Qpelr 374, 1999

[8] Julie Willis, Aptitude and Capacity: Published Views of the Australian Woman Architect, Architectural Theory Review, 17:2-3, (2012): 323
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