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Trotto, Chiara. "Le politiche urbane del governo senegalese e lo sviluppo cittŕ di Dakar". STORIA URBANA, n.º 126 (septiembre de 2010): 95–115. http://dx.doi.org/10.3280/su2010-126005.

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Resumen
La cittŕ di Dakar rappresenta l'emblema dell'accentramento politico-amministrativo "alla francese". Il suo sviluppo urbano ha visto una crescita esponenziale che ha portato al sovraffollamento di molte aree urbane e peri-urbane soprattutto negli ultimi vent'anni. Le autoritŕ politiche hanno cercato di arginare il problema della crescita disomogenea e sregolata della cittŕ: dapprima attuando politiche stataliste di regolarizzazione forzata, successivamente attraverso progetti di costruzione partecipata dell'habitat urbano. L'unicitŕ della gestione urbana della cittŕ risiede nel codice urbanistico senegalese che lascia al presidente della Repubblica l'ultima parola riguardo alle decisioni di politica urbana; questo a dimostrazione dell'importanza e del peso politico che ricoprono le problematiche urbane in questo paese e del difficile processo di decentralizzazione tuttora da metabolizzare. Negli ultimi anni, il presidente Abdoulaye Wade ha cercato di dare nuovo slancio alla capitale inaugurando costosi progetti infrastrutturali e avviando la costruzione di monumenti grandiosi, che danno lustro alla cittŕ; il suo obiettivo č riconsegnare alla cittŕ il ruolo di capitale dell'Africa francofona e, possibilmente, dell'Africa tutta, come polo trainante degli affari economici e commerciali della costa ovest.
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Borek, Dariusz. "Wykonywanie władzy karania w instytutach zakonnych w świetle aktualnego Kodeksu Prawa Kanonicznego". Prawo Kanoniczne 48, n.º 3-4 (10 de diciembre de 2005): 175–200. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2005.48.3-4.09.

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Resumen
Nell’articolo è stata presentata la normativa riguardante l’esistenza e l’applicazione del potere coercitivo nella Chiesa con particolare riferimento agli Istituti Religiosi. Il primo punto del lavoro è stato dedicato alla presentazione degli argomenti che spiegano l’esistenza del potere coercitivo nella Chiesa. Nel secondo punto dello studio è stato analizzato il potere che esiste negli Istituti Religiosi. Nel terzo punto si analizza il potere coercitivo che viene esercitato negli Istituti Religiosi secondo attuale Codice di Diritto Canonico nella triplice funzione della potestà di governo. Lesercizio del potere coercitivo nella funzione legislativa consiste nella possibilità di emanare le leggi penali. La potestà coercitiva nella funzione amministrativa comprende sia la possibilità di emanare i precetti penali sia la possibilità di fare la dichiarazione oppure la inflizione delle pene tramite la procedura penale stragiudiziale. La scelta tra la via amministrativa e giudiziale spetta all’Ordinario. Il potere coercitivo esercitato nella funzione giudiziale significa la possibilità di fare la dichiarazione o l’inflizione delle pene tramite il processo penale giudiziale. L’ultima parte dello studio è stata dedicata alla problematica della dimissione dall’Istituto Religioso. Avendo in considerazione il carattere forzoso della dimissione si potrebbe pensare che la dimissione è una delle sanzioni penali, non mancano pero gli argomenti che fanno pensare che la dimissione non puo essere inserita tra le sanzioni penali in senso stretto. Nel caso della dimissione dal Istituto si tratta piuttosto della procedura sui generis amministrativa, avente come scopo la protezione sia L’Istituto intero che i singoli religiosi incluso anche quello che viene dimesso.
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Suchecki, Zbigniew. "Wydalanie duchownych na podstawie kanonicznego procesu karnego". Prawo Kanoniczne 54, n.º 3-4 (10 de diciembre de 2011): 77–115. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2011.54.3-4.03.

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Resumen
Il processo penale canonico ha sempre costituito l’extrema ratio cui ricorrere solo quando fossero esaurite tutte le altre vie per ottenere la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia, l’emendamento del reo (cfr. c. 1341). Le cause penali necessitano della presenza del promotore di giustizia in quanto con esse si vuole perseguire le finalità della giustizia e della tutela del bene pubblico. Per irrogare o dichiarare la pena il Codice di Diritto Canonico del 1983 prevede una doppia procedura penale: giudiziaria (che si concluderà con una sentenza) o amministrativa (stragiudiziale – che si concluderà con un decreto). Nel processo penale giudiziario il Promotore di giustizia svolge il compito di parte attrice o titolare dell’azione criminale contro l’imputato. Giovanni Paolo II nel discorso alla Rota Romana ha sottolineato che «l’istituzionalizzazione di quello strumento di giustizia che è il processo rappresenta una progressiva conquista di civiltà e di rispetto della dignità dell’uomo» (Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, (18 gennaio 1990), in L’Osservatore Romano, 19 gennaio 1990, p. 5). Si evince molto chiaramente dal can. 1342, § 1 la preferenza del legislatore per la via giudiziale. Infatti, il processo penale giudiziario offre maggiori garanzie di giustizia, in quanto assicura e garantisce in modo conforme il diritto alla difesa, permette al giudice di consolidare una maggiore certezza morale sull’esistenza dei fatti mediante l’acquisizione giudiziale delle prove, delle circostanze e dell’imputabilità, valutando tutte le circostanze del delitto, determina la condizione dell’imputato, precisa il grado del danno causato dal delitto, applica con equità la pena giusta alla luce degli elementi emersi durante il giudizio. Rimangono tuttavia casi in cui il legislatore indica la via giudiziale come la più adatta, che certamente offre maggiori certezze e garanzie ai fini dell’accertamento della verità, della giustizia e soprattutto della salvaguardia dei diritti dei fedeli. Innanzitutto essa è obbligatoria per irrogare o dichiarare le pene più gravi, come quelle espiatorie perpetue (can. 1336). «Per decreto non si possono infliggere o dichiarare pene perpetue; né quelle pene che la legge o il precetto che le costituisce vieta di applicare per decreto» (can. 1342, § 2). Il promotore di giustizia assume le vesti di parte attrice o titolare dell’azione criminale (actio criminalis) contro l’imputato. Egli è la persona pubblica costituita per tutelare il bene pubblico, che deriva dall’osservanza della legge, al di là delle considerazioni soggettive can. 1362, § 1; 1720, 3°; 1726. Nel processo penale, a protezione dei diritti del fedele il legislatore vieta espressamente di imporre all’imputato il giuramento e l’accusato non è tenuto a confessare il delitto (can. 1728, § 2). In questo modo si garantisce al reo la scelta della linea difensiva più opportuna senza costrizione a riconoscere i fatti che siano a sé sfavorevoli. Il processo penale giudiziario prevede e garantisce al reo un diritto fondamentale di appello dopo l’emanazione della sentenza di condanna (can. 1727, § 1). Inoltre garantisce il diritto di appello al promotore di giustizia nelle cause in cui la loro presenza è richiesta (cfr. cann. 1727, § 2, 1628). Il termine per proporre l’appello è di 15 giorni e va proposto avanti al giudice a quo, che ha emesso la sentenza. Può essere fatto a voce, ed in tal caso il notaio lo deve mettere per scritto avanti allo stesso appellante (can. 1630, § 2). Il can. 1353 disciplina che «l’appello o il ricorso contro le sentenze giudiziali o i decreti che infliggono o dichiarano una pena qualsiasi hanno effetto sospensivo». Il legislatore prevede nel Capitolo III: «de actione ad damna reparanda» un’azione contenziosa per la riparazione dei danni ingiustamente inferti dal delitto (cann. 1729–1731). Pur consentendo nell’ambito del processo penale giudiziario l’esercizio dell’azione per il risarcimento dei danni, il legislatore tiene sempre distinte le due azioni, quella criminale, tendente all’irrogazione o alla dichiarazione della pena, e quella contenziosa per la riparazione dei danni inferti dal delitto. La sentenza può essere eseguita dopo che sia passata in giudicato, ossia dopo una duplice sentenza conforme che non sempre si ha con la decisione di secondo grado.
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Kiwior, Wiesław. "Problematyka administracyjna, procesowa i kanonizacyjna w publikacjach zawartych w czasopiśmie "Prawo Kanoniczne"". Prawo Kanoniczne 51, n.º 1-2 (5 de junio de 2008): 57–74. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2008.51.1-2.04.

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L’elaborato presenta la problematica affrontata dai canonisti, negli anni 1958-2008 sulla rivista Prawo Kanoniczne (Diritto Canonico), pubblicata dalla Facolta di Diritto Canonico dell’Univesita del Cardinal Stefan Wyszyński a Varsavia, riguardante il diritto amministrativo (questioni storiche, istituzioni, procedimenti, diritto amministrativo degli istituti religiosi, processo contenzioso-amministrativo), il diritto processuale (storia del diritto canonico, fondamenti del processo canonico, processo contenzioso, processi matrimoniali, la giurisprudenza rotale) e le cause di canonizzazione (questioni storiche, diritto sostantivo, procedure, le cause polacche).
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Rozkrut, Tomasz. "Kanoniczny proces o nieważność małżeństwa: proces sporny czy proces specjalny?" Prawo Kanoniczne 53, n.º 3-4 (15 de octubre de 2010): 171–83. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2010.53.3-4.08.

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Riflessione sul processo matrimoniale nella Chiesa fa una domanda sulla sua particolare natura. Il nuovo Codice, promulgato il 25 gennaio 1983 da Giovanni Paolo II, in materia del processo matrimoniale per la dichiarazione di nullità ha seguito lo stesso metodo del Codice del 1917. Nella parte speciale „I processi matrimoniali” riunisce in un solo capitolo le norme proprie di questo processo (cann. 1671-1691), mentre le altre prescrizioni, che disciplinano il processo nel suo insieme, si trovano nella parte generale „I giudizi in genere” (cann. 1400-1500) e „Il giudizio contenzioso” (cann. 1501-1655). Il testo oltre analisi della classificazione del processo matrimoniale nel Codice del 1983, fa riferimento alla „Dignitas connubii” a anche per dimostrare la sua particolare natura cita alcuni discorsi di Giovanni Paolo II alla Rota Romana e anche le risposte e le dichiarazioni giudiziali delle parti in processo matrimoniale.
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Margara, Alessandro. "Il lungo processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari". RIVISTA SPERIMENTALE DI FRENIATRIA, n.º 1 (abril de 2011): 53–74. http://dx.doi.org/10.3280/rsf2011-001005.

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Il sistema degli OPG per accogliere gli autori di reato, prosciolti per vizio totale di mente, č contenuto nel Codice penale, ma č stato fortemente modificato da sentenze costituzionali e da interventi legislativi, che lo hanno adattato alla nuova concezione dell'assistenza psichiatrica: gli OPG esistenti sono perň rimasti eguali al modello carcerario del passato sia per i luoghi, sia per il personale prevalente, rappresentato dalla Polizia penitenziaria. La pericolositŕ sociale č la condizione per la applicazione della misura di sicurezza dell'OPG, che si esegue negli stessi OPG. Il concetto di pericolositŕ sociale, assoluto nel Codice penale, si č relativizzato e va accertato nel concreto del singolo caso e delle sue risorse socio-familiari. Il DPCM 1/4/2008 che ha stabilito il passaggio della sanitŕ penitenziaria al Servizio sanitario nazionale ha un progetto di distribuzione degli internati nelle regioni di appartenenza, cosě che le stesse seguano i malati residenti nei loro territori e tendano a riportarli all'assistenza psichiatrica generale degli stessi. L'allegato C al DPCM descrive le fasi di questo passaggio e della presa in carico del Servizio sanitario di ogni regione, cosě che sia superato e abbandonato il vecchio modello degli OPG.
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Scapin, Andreia. "Alcune riflessioni sulla responsabilità civile dell’Amministrazione Finanziaria brasiliana nell’era dell’accordo commerciale tra l’Unione Europea e il Mercosur". Revista de la Facultad de Derecho de México 69, n.º 275-2 (11 de noviembre de 2019): 919. http://dx.doi.org/10.22201/fder.24488933e.2019.275-2.71126.

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<p>Il presente lavoro ha come scopo quello di identificare se l’ordinamento giuridico<br />brasiliano permetta o meno all’interprete di questo sistema normativo, attraverso l’analisi<br />e lo studio delle norme giuridiche previste nella Costituzione Federale del 1988, nel<br />Codice Tributario Nazionale e nel Codice Civile, di imputare all’Amministrazione<br />Finanziaria brasiliana il dovere giuridico di risarcimento del danno sopportato dal<br />contribuente; nonché la rilevanza di questo dovere nell’era del accordo commerciale tra<br />l’Unione Europea e il Mercosur. La ricerca permette la comprensione di alcune delle<br />peculiarità del Diritto Tributario brasiliano che sin dalle origini e nel corso di tutto il suo<br />processo di consolidazione è stato fortemente influenzato dalla dottrina italiana.<br />Parole chiave: norme giuridiche, responsabilità civile, danno, tassazione, processo di<br />integrazione.</p>
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Caputo, Angelo. "Ritardi e responsabilitŕ disciplinare dei magistrati. Il punto sugli orientamenti della giurisprudenza". QUESTIONE GIUSTIZIA, n.º 1 (marzo de 2012): 44–61. http://dx.doi.org/10.3280/qg2012-001004.

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Resumen
1. Durata del processo e responsabilitŕ disciplinare del magistrato2. Il ritardo nel compimento di atti d'ufficio nell'evoluzione della giurisprudenza relativa all'art. 18 legge guarentigie3. Il ritardo nel compimento di atti d'ufficio nel codice disciplinare del 20064. I connotati del ritardo: a) il ritardo "reiterato"; b) il ritardo "grave"5. c) il ritardo "ingiustificato"6. Esimente della "scarsa rilevanza del fatto" e ritardo nel compimento di atti d'ufficio.
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Panzarola, Andrea. "IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE TRA PRINCIPI E REGOLE. IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA GARANZIE ED EFFICIENZA DEL PROCESSO". Revista Direito das Relações Sociais e Trabalhistas 2, n.º 2 (8 de octubre de 2019): 182–200. http://dx.doi.org/10.26843/mestradodireito.v2i2.97.

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Lo scopo del presente articolo è studiare la funzione dei prinicipi nel diritto processuale civile anche nell’ambito del Nuovo Codice di Procedura Civile (NCPC) brasiliano del 2015, con enfasi nella ricerca dell’equilibrio tra garanzie ed efficienza nel processo. Innanzitutto vengono studiati i principi e le regole nel NCPC brasiliano e nel processo civile in generale. Sono anche studiati i principi nei nuovi codici di procedura civile dei diversi paesi. In seguito si discute la funzione dei principi lungo la storia per arrivare al momento del recupero dela funzione assiologica dei principi processuali e alla questione della collisione tra questi ultimi con prevalenza delle garanzie delle parti nel processo.
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Marchitiello, Marco, Carlo Pisano y Giuseppe De Luca. "Il codice genetico dei Piani Strategici Metropolitani". TERRITORIO, n.º 99 (agosto de 2022): 149–63. http://dx.doi.org/10.3280/tr2021-099020.

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Il passaggio dalla dimensione provinciale a quella metropolitana ha segnato una trasformazione potenzialmente decisiva nella modalità di gestione del territorio italiano. Nonostante l'ampia risonanza data alla legge 56/2014, ad oggi solo otto Piani Strategici Metropolitani (psm) risultano approvati e la letteratura presenta un numero molto limitato di studi comparativi sull'argomento. Questo contributo analizza la forma e la struttura dei primi sette psm approvati, attraverso l'utilizzo di un metodo analitico-comparativo che ha consentito la loro restituzione in forma grafica. I risultati dello studio illustrano i psm analizzati attraverso sette figure generate da un processo di destrutturazione e ricomposizione degli argomenti, dei metodi e dei processi applicati nel loro confezionamento, delineandone differenze e facilitando una più efficace comparazione.
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Maffuccini, Marco. "Come contrastare l'abuso del processo? Brevi spunti sugli articoli 96 e 385 del codice di procedura civile". QUESTIONE GIUSTIZIA, n.º 3 (julio de 2009): 53–70. http://dx.doi.org/10.3280/qg2009-003005.

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- 1. La ripresa del dibattito sul cd. "abuso del processo"2. L'art. 385, ultimo comma, cpc: prime letture3. Una proposta interpretativa4. Tassativitŕ delle ipotesi di condanna5. L'art. 96 cpc in alcune pronunce di merito6. Considerazioni conclusive.
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Borek, Dariusz. "Uprawnienia i obowiązki ordynariusza w początkowej fazie wymiaru kar (kann. 1341-1342)". Prawo Kanoniczne 50, n.º 3-4 (20 de diciembre de 2007): 255–90. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2007.50.3-4.08.

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In questo articolo vengono analizzati i canoni 1341 e 1342 del CIC/1983. Lanalisi viene fatta alla luce dell’attuale interpretazione dottrinale in materia della giusta applicazione delle pene. Canoni sottoposti all’analisi riguardano le competenze e gli obblighi del Ordinario nella fase iniziale dell'applicazine delle pene ecclesiastiche. Si tratta del momento molto importante nel iter dell’applicazione delle pene, e cioè della possibilità e necessità di iniziare il processo penale canonico e scelta del modo di procedere: giudiziale o amministrativo. La prima parte dell’articolo l’autore ha dedicato alla problematica del delitto canonico, della possibilità e della necessità del processo penale canonico. Ordinario prima di avviare vero processo penale (o quello in via giudiziale oppure quello in via amministrativa) deve avere la notizia almeno probabile del delitto. Non basta la notizia di qualsiasi violazione, ma è necessario che il comportamento denunciato sia incluso tra i delitti previsti nel diritto canonico. Soltanto così si può passare all’avvio del primo passo del processo e cioè all’indagine previa. Terminata questa si deve rispondere alle domande se il processo canonico è possibile e se questo processo è anche necessario. Può darsi, che, a causa della prescrizione dell’azione criminale, il processo non sarà possibile anche se ci fossero certe prove del delitto. A quanto pare una eccezione troviamo al riguardo dei delitti riservati alia Congregazine per la Dottrina della Fede. Secondo la concessione data dal Sommo Pontefice nel 2002 i delicta graviores, anche se sono passati in prescrizione, possono essere ripresi sulla fonadata petizione dei vescovi interessati. Alla luce della disposizione del can. 1341 si può dire che applicazione delle pene in Ecclesia diventa extrema ratio, e cioè la via che si puo intraprendere soltanto, quando l’autorità ha fatto inutilmente rifferimento ad altri mezzi di carattere pastorale. Un’altro punto dell’articolo viene dedicato all’analisi delle disposizioni che bisogna tenere conto nel momento della scelta della via giudiziale o amministrativa per applicare le pene. Seguendo le disposizioni del can. 1342 si deve notare che la via giudiziale dell’applicazione delle pene ecclesiastiche è la via normale ed obbligatoria. Ordinario per principio è obbligato di scegliere questo modo di procedere, inoltre la via giudiziale è obbligatoria per l’applicazione delle pene espiatorie perpetue. Obbligo di scegliere la via giudiziale potrebbe risultare anche dalla legge o precetto che vietano l’applicazione delle pene tramite la via amministrativa. Invece la via amministrativa è possibile da scegliere soltanto sotto la condizione, e cioè soltanto nel caso se ci fossero le giuste cause che si opponessro alla via giudiziale. Fermo restando però divieto di scegliere la via amministrativa nel caso diapplicazione delle pene espiatorie perpetue, come pure del divieto previsto nella legge o nel precetto. Come si può vedere dall’analisi dei elementi specifici del processo giudiziale e quello amministrativo, sia l’uno che l’altro possiede i strumnenti neccessari per garantire, che la pena diventi veramente l’applicazione di quello che e veramente „iustum et bonum” in caso concreto. Bisogna notare però che il processo in via giudiziale (grazie alla sua struttura) offre più garanzie per salvaguardare i diritti delle persone e per arrivare alla verità oggetiva. Invece il processo in via amministrativa (grazie alla procedura meno complessa) diventa più breve, più spedito e quindi non sottoposto troppo facilmente alla diffusione, e quindi sembra meglio garantire la salvaguardia di buona fama della persona giudicata.
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Magro, Giuseppe, Giovanni Urbani y Stefania Pellegrini. "Esperienza innovativa di Valutazione Ambientale Strategica. Il caso di un piano forestale provinciale". RIV Rassegna Italiana di Valutazione, n.º 49 (mayo de 2012): 77–91. http://dx.doi.org/10.3280/riv2011-049006.

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Il tema della valutazione ambientale strategica (VAS) č di grande attualitŕ nell'ambito del dibattito politico e tra gli specialisti del settore, sia a livello nazionale sia a livello europeo e internazionale: siamo di fronte a un concetto multidimensionale, che spesso viene considerato erroneamente un adempimento amministrativo. L'articolo presenta gli esiti ottenuti dall'applicazione di un sistema innovativo nell'ambito della procedura di VAS per la stima dei potenziali impatti di un Piano di Indirizzo Forestale di una provincia del nord. Il sistema proposto prevede la caratterizzazione delle componenti emissive associate agli elementi di stressor e l'analisi previsionale degli impatti specifici e cumulativi derivanti dall'azione simultanea degli elementi di pressione antropica, associati alla specificitŕ degli interventi costitutivi del Piano, sul territorio e sulle componenti di vulnerabilitŕ ambientale. In tale modo la procedura di VAS diventa processo, per l'attuazione di politiche razionali del territorio.
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Nowicka, Urszula. "Przyczyny nieusuwalnej i usuwalnej nieważności wyroku w kanonicznym procesie małżeńskim". Prawo Kanoniczne 51, n.º 3-4 (10 de diciembre de 2008): 275–97. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2008.51.3-4.14.

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La querela di nullità contro la sentenza è il mezzo particolare del diritto a servizio delle parti nel processo giudiziario. Con essa s’impugna la validità della sentenza, ma non s’impugna la sua giustizia (per questo abbiamo l’appello). Le cause di nullità sono sempre di natura obiettiva e sono giudicate in base a non conservare le condizioni determinate dal diritto. L’attuale Codice di Diritto Canonico e l’istruzione Dignitas connubii distinguono una nullità insanabile ed una sanabile della sentenza. Le cause di primo tipo di nullità, causate da difetti più radicali, sono impossibili di sanatoria e sono definite dal can. 1620 CIC (art. 270 della Istruzione). Le cause di nullità sanabili, spesso di carattere puramente formale, sono determinate dal can. 1622 (art. 272 della Iatruzione). L’analisi consiste nell’applicazione delle norme comprese nelle altre norme del diritto, in considerazione del carattere particolare del processo matrimoniale.
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Spina, Luciano. "Il "codice rosso" e la tutela della vittima minorenne". MINORIGIUSTIZIA, n.º 1 (septiembre de 2020): 144–58. http://dx.doi.org/10.3280/mg2020-001015.

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La violenza domestica e quella di genere costituiscono un grave fenomeno che non si esaurisce all'emergenza di un periodo limitato di tempo, ma rappresenta piuttosto un dato di carattere cronico a livello mondiale. Con il c.d. "codice rosso" sono stati approntati ulteriori strumenti normativi, oltre a quelli già esistenti, che mirano alla realizzazione tempestiva di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela delle vittime dei reati di violenza, che presuppongono l'obbligo di audizione della vittima da parte del pubblico ministero nei tre giorni dalla denuncia. Quella della vittima minorenne rappresenta però una peculiare posizione, posto che vengono in rilevo esigenze di tutela in materia civile e segretezza degli atti dell'indagine penale, che richiedono un coordinamento tra diverse autorità giudiziarie e i diversi operatori psico-sociali coinvolti, talvolta difficile da realizzare anche per la poca chiarezza dei riferimenti normativi. È richiesto quindi un approccio interdisciplinare e una particolare specializzazione degli operatori nel sapersi relazionare al minore, in modo da evitare che la gestione del processo possa costituire un danno ulteriore, con conseguente vittimizzazione secondaria. In particolare, occorre ridurre le audizioni al minimo necessario, privilegiando lo strumento dell'incidente probatorio, unica prova in senso tecnico utilizzabile anche nelle successive fasi del giudizio, che deve essere effettuato in modo scrupoloso, con la collaborazione di professionisti che siano effettivamente formati ed esperti in materia.
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Mariani, Paolo, Mauro Mussini y Biancamaria Zavanella. "Servizi pubblici per l'impiego e imprese: un'analisi della relazione tra preselezione e job matching". RIVISTA DI ECONOMIA E STATISTICA DEL TERRITORIO, n.º 1 (marzo de 2011): 106–32. http://dx.doi.org/10.3280/rest2011-001004.

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In Italia la regolamentazione del mercato del lavoro ammette che nel settore dei servizi per l'impiego operino intermediari sia pubblici sia privati. I servizi pubblici per l'impiego (SPI) esercitano la funzione di incontro domanda-offerta di lavoro secondo logiche differenti dagli operatori privati, specialmente nei confronti delle imprese. Il presente lavoro indaga gli effetti della promozione dei servizi pubblici per l'impiego, rivolta alle imprese, rispetto alle aspettative dei datori di lavoro nei confronti di un efficace servizio di mediazione domanda-offerta di lavoro. Si impiega un modello di regressione logistica binaria per esaminare la relazione tra la tempestivitŕ del servizio di preselezione, erogato nell'ambito delle attivitŕ promozionali, e l'esito del processo di. L'evidenza empirica suggerisce che, al crescere del lasso temporale necessario per l'erogazione del servizio, diminuiscono leche il processo disi concluda con successo. In secondo luogo, si stimano gli effetti che le modalitŕ di risposta degli SPI alle esigenze occupazionali delle imprese presentano sulla probabilitŕ che il processo ditermini favorevolmente. In proposito emerge che la numerositŕ di profili disponibili, in linea con quelli richiesti dal datore di lavoro, non sembra incidere sull'esito del processo di. La tematica dell'analisi degli effetti di servizi pubblici per l'impiego, erogati a livello locale, riscuote interesse crescente per via del progressivo decentramento amministrativo che attribuisce ai governi locali competenze in materia di politiche attive per il lavoro. Questo contributo discute le opportunitŕ legate all'erogazione di servizi per l'impiego avanzati alle imprese da parte degli operatori pubblici e degli effetti sul processo diche possono derivare da un'attivitŕ dei servizi pubblici per l'impiego condotta secondo criteri improntati al soddisfacimento dei requisiti generalmente attesi da parte di un'impresa nei confronti dell'operato di un generico intermediario privato.
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De Nardis, Paolo. "Dall'etica dell'impresa alla responsabilitŕ sociale: il percorso di una ideologia". RIVISTA TRIMESTRALE DI SCIENZA DELL'AMMINISTRAZIONE, n.º 1 (abril de 2011): 85–104. http://dx.doi.org/10.3280/sa2011-001007.

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Questo saggio analizza sotto molteplici prospettive la fenomenologia e la concettualizzazione della responsabilitŕ sociale delle imprese. L'esame mette in evidenza come la nozione in oggetto abbia avuto il merito di trascendere la riduzione economicistica dell'impresa alla mera categoria del profitto, attraverso il richiamo alla partecipazione piů allargata degli stakeholder. Gli strumenti del codice etico e del bilancio sociale hanno contribuito a chiarire questa prospettiva, in un processo che parte dalle istanze dell'etica degli affari ed etica dell'impresa. Alla fine della disamina anche l'istanza eticistica che pulsa sotto la responsabilitŕ sociale mostra il proprio lato ideologico e in gran parte le ambiguitŕ del suo volto. Alcuni strumenti, nella loro freddezza, possono aiutare a riportare il discorso nei binari classici e senza infingimenti di un'impresa in ogni caso tesa, prevalentemente, quando non esclusivamente, alla produzione di profitto.
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Villarejo Galende, Helena. "Balance de una década de regulación de los grandes establecimientos comerciales en España". Ciudades, n.º 10 (1 de febrero de 2018): 39. http://dx.doi.org/10.24197/ciudades.10.2007.39-65.

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Nuove norme legislative sono state prodotte per risolvere i problemi sollevati dallo sviluppo dei nuovi formati commerciali. All’inizio, sono stati ispirati dal modello francese della legge Royer, con l’obiettivo di regolamentare le grandi strutture distributive. Dalla regolamentazione della localizzazione delle strutture si è quindi passati alla pianificazione del commercio, con i Piani per le attività commerciali, definendo le destinazione d’uso dei suoli e con i Piani per la modernizzazione del commercio, che sostengono attraverso aiuti finanziari gli imprenditori l’innovazione del settore. Gli obiettivi di questi strumenti sono strettamente settoriali e non tengono in alcun conto le relazioni con gli obiettivi della pianificazione e della progettazione urbanistica. La Direttiva Bolkenstein del 2006 ha avuto l’effetto di ridurre gli ostacoli nella localizzazione delle imprese economiche. L’autorizzazione per l’apertura di nuove strutture commerciali deve rispondere all’interesse generale (pianificazione, urbanistica, tutela dell’ambiente), favorendo il successo imprenditoriale.La regolazione di carattere amministrativo delle attività commerciali ha anche prodotto effetti non previsti, come il contenimento degli ipermercati a fronte dello sviluppo di supermercati e centri commerciali ed un processo di concentrazione delle imprese.
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Kałowski, Julian. "Ewolucja prawodawstwa kościelnego dotyczącego instytutów zakonnych o ślubach prostych". Prawo Kanoniczne 34, n.º 3-4 (10 de diciembre de 1991): 75–103. http://dx.doi.org/10.21697/pk.1991.34.3-4.04.

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L ’autore ha provato la tesi che gli istituti religiosi con i voti semplici, cioè tali che i loro membri facevano la professione semplice e non furono obbligati della legge di osservare la clausura papale, hanno avuto una ricca evoluzione giuridica. Tali istituti, partendo dal primo momento di esistere, fino alla piena approvazione formale, cioè al conferimento della personalità giuridica fatta dalla Santa Sede, hanno subito numerose limitazioni da parte della legislazione ecclesiastica. L’autore ha analizzato la costituzione Circa pastorialis di Pio V e Lubricum vitae genus che contenevano una normativa di grande importanza e l’influsso per la legislazione riguardante degli istituti religiosi con i voti semplici. L’autore ha sottolineato il fatto che documenti promulgati dal Pio V hanno ridotto la vita religiosa alla forma con i voti solenni ed obbligo della clausura papale. Dopo questi considerazioni l’autore ha messo in evidenza inefficacia delle norme emesse dal Pio V. E’ stato provato che la vita e la pratica usata delle autorità ecclesiali si furono mostrate più forti dei rigidi divieti di fondazione degli istituti religiosi con i voti semplici. E proprio tale tendenza si è manifestata, sotto la pressione delle circostanze e delle necessità (per esempio bisogno d’assistenza delle persane con le malattie mentali) e perciò l’autorità ecclesiali permettevano non solamente alla fondazione di numerosi istituti religiosi con i voti semplici, ma anche alla fondazione degli associazioni che imitavano lo stile di vita religiosa. L’autore ha considerato anche il problema della piena approvazione degli istituti religiosi con i voti semplici e il processo di ottenere della piena personalità giuridica. E’ stato provato che quel processo fu lungo e che si svilupava evolutivamente col passare del tempo. L’autore rivelato anche il fatto che il periodo del tempo più significativo per la stabilizzazione giuridica degli istituti religiosi di voti semplici ricadava a cavallo del XIX e XX secolo. Alla fine l’autore si occupava del diritto canonico riguardante l’argomento dal codice di diritto canonico del 1917 fine alla promulgazione del codice 1983.
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Artuso, Mario. "Amministrazione del territorio e vicende politiche in Niger dal periodo coloniale ad oggi". STORIA URBANA, n.º 126 (septiembre de 2010): 117–38. http://dx.doi.org/10.3280/su2010-126006.

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Questo saggio ripercorre le vicende politiche e amministrative del Niger, il paese dell'Africa subsahariana piů povero del mondo. La prima parte esamina il periodo coloniale (1895-1960) e le difficoltŕ che i francesi incontrarono nell'occupare ed amministrare un territorio cosi vasto, impervio e abitato da popolazioni ostili. Il risultato č un paese che all'alba dell'indipendenza (1960) era diviso in due, il sud ovest, governato dall'amministrazione coloniale francese; il nord est, ancora sotto controllo militare. Tra il 1960 ed il 1991 (seconda parte) gli avvenimenti politici che si susseguirono: Prima repubblica, colpo di stato militare del 1974 e le riforme successive al 1983 con la Société pour le développement furono associati ad altrettante trasformazioni amministrative senza perň mai discostarsi eccessivamente dalla tipologia francese. Il 1991 č un anno importante. In Niger - come in gran parte dell'Africa - la Conférence national costituisce un punto di svolta verso il processo di democratizzazione e il decentramento amministrativo che diviene l'argomento prioritario attorno a cui ruotano le vicende amministrative dal 1991 ad oggi. Tale č l'oggetto della terza parte che approfondisce le vicende legate alla nascita dei comuni e il cui esito furono le prime elezioni comunali del 2004. Le conclusioni riguardano i punti critici con cui si confronta il processo di decentramento nella sua fase attuale e le conseguenti implicazioni soci-economiche.
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Leszczyński, Grzegorz. "Oświadczenia stron jako środek dowodowy w procesie o stwierdzenie nieważności małżeństwa". Prawo Kanoniczne 43, n.º 1-2 (5 de junio de 2000): 107–21. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2000.43.1-2.05.

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II nostro lavoro tratta di uno dei mezzi di prova nelle cause matrimoniali che tradizionalmente viene considerato meno importante dalla perizia, che, però, secondo la normativa vigente, e secondo la giurisprudenza, raggiunge un valore sempre più grande. Si tratta delle diverse dichiarazioni delle parti senza distinguere tra confessioni e allre dichiarazioni che non siano confessioni considerate in questo lavoro come il mezzo probatorio fondamentale soprattutto nelle cause matrimoniali per incapacità psichica dei nubenti. Sono le parti stesse che, avendo nella loro memoria l’esperienza della loro vita comune, possono offrire al giudice, con le loro dichiarazioni, la verità sui fatti, che, per tutti gli altri, come per i diversi testimoni nella causa, rimangono solamente conoscenza indiretta. Invece, al giudice appartiene il dovere di valutare ogni esposizione rilasciata dalle parti nel processo. II principio del libero apprezzamento, così caratteristico per il Codice attuale, viene considerato fondamentale anche per quanto riguarda la valutazione di questa prova. II giudice stesso, реrò, non avendo la possibilità di attribuire alle dichiarazioni delle parti il valore di prova piena deve cercare di confrontare questa con le altre prove, come quella testimoniale o periziale. Secondo il Codice attuale, è possibile, che le dichiarazioni delle parti possano convincere il giudice in senso pieno nel caso in cui vengano rafforzate dai cd. altri elementi le diverse discussioni, l’unica spiegazione sicura, e quella, presentata dal Codice stesso, il quale per gli altri elementi intende i ed. testi di credibilità.
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Cuffaro, Nadia y David Hallam. ""Land grabbing" nei Paesi in via di sviluppo: investitori esteri, regolamentazione e codici di condotta". QA Rivista dell'Associazione Rossi-Doria, n.º 2 (junio de 2011): 131–49. http://dx.doi.org/10.3280/qu2011-002006.

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L'articolo tratta gli sviluppi recenti degli investimenti esteri diretti in agricoltura nei paesi in via di sviluppo (Pvs). Tre sono agli argomenti analizzati. Il primo č l'evidenza empirica sulla recente crescita delle acquisizioni di terra per usi agricoli nei paesi in via di sviluppo da parte d'investitori esteri (land grabbing) e la questione collegata del ruolo del controllo sulla terra nel processo d'internazionalizzazione dell'agricoltura dei Pvs. Il secondo sono i possibili rischi di tali progetti, derivanti essenzialmente dal fatto che l'attuale ondata di investimenti riguarda contesti in cui molti soggetti dipendono da diritti di proprietŕ sulla terra poco certi e sono perciň esposti al rischio di gravi perdite. Infine, si discute il possibile ruolo della responsabilitŕ sociale delle imprese e di un codice di condotta promosso su base internazionale nel mitigare tali rischi.
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Lanzara, Giovan Francesco. "PERCHÉ È DIFFICILE COSTRUIRE LE ISTITUZIONI". Italian Political Science Review/Rivista Italiana di Scienza Politica 27, n.º 1 (abril de 1997): 3–48. http://dx.doi.org/10.1017/s0048840200025521.

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IntroduzioneLa costruzione di un'istituzione, qualsiasi cosa possa significare, è comunque un processo che implica la formazione di una struttura, o codice, o pattern regolato di comportamenti che acquista legittimità e «funziona» in un contesto sociale specifico, fino a diventare un elemento costitutivo della vita sociale, stabile e persistente nel corso del tempo. Tale struttura può essere in parte il risultato di un progetto deliberato, in parte l'esito non intenzionale dell'azione umana e dell'interazione sociale. Il più delle volte è congiuntamente l'uno e l'altro, in combinazioni variabili a seconda delle contingenze. Se la struttura «funziona», essa potrà autosostenersi e riprodursi nel tempo. Ma in caso di «fallimento», provocato da un rendimento scadente o dall'erosione di legittimità morale e politica, non necessariamente verrà rimpiazzata in modo rapido e completo. Più verosimilmente le sue componenti fondamentali, anche se obsolete, continueranno a sopravvivere per lungo tempo «come frammenti di rotte catene, pendenti dalle volte di vecchi edifici» (Tocqueville 1969), senza alcuna funzione specifica, o forse subiranno un lento processo di mutamento, assumendo gradualmente nuove funzioni e significati col passare del tempo.
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Gaudio, Alessandro. "Pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni: l’inatteso riflesso dell’Albania di Hergé e Scott Adams". Forum Italicum: A Journal of Italian Studies 52, n.º 1 (5 de febrero de 2018): 193–201. http://dx.doi.org/10.1177/0014585817750371.

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Sembrerebbe che tanto il fumetto e il suo codice quanto lo stereotipo insistano sul medesimo spazio; facendo riferimento ad esso e cercando di ricostruirne dimensioni e limiti, il saggio ricostruisce il modo in cui è possibile comprendere come funziona il meccanismo dell’immaginario che muove i fumetti di due grandi autori e, dunque, la struttura della loro figurazione. I due autori in questione sono Hergé, al secolo Georges Rémi, capostipite della scuola fumettistica franco-belga – considerato il Balzac della nona arte, probabilmente anche per la tipicità dei suoi personaggi, è l’ideatore, nel 1929, del più tipico di essi: Tintin –, e Scott Adams, disegnatore americano, creatore, nel 1989, delle diffusissime strisce di Dilbert. Entrambi gli autori ricorrono a un luogo con le peculiarità dell’Albania e ne fanno il punto di innesco del processo di immaginazione: l’effetto che ne scaturisce può essere inatteso e deflagrante.
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Colao, Floriana. "La proprietà fondiaria dalla bonifica integrale di Arrigo Serpieri alla riforma agraria di Antonio Segni. Diritto e politica nelle riflessioni di Mario Bracci tra proprietà privata e socializzazione della terra". Italian Review of Legal History, n.º 7 (22 de diciembre de 2021): 323–76. http://dx.doi.org/10.54103/2464-8914/16892.

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Nel Programma di Giangastone Bolla per la Rivista di diritto agrario (1922) la proprietà fondiaria era banco di prova delle «moderne trasformazioni del diritto di proprietà» – su cui Enrico Finzi – in primo luogo con la «funzione sociale». Nell’azienda agraria Bolla osservava inoltre lo spostamento dalla proprietà all’impresa; asseriva che il legame tra l’agricoltura e lo Stato imponeva allo studioso del diritto agrario l’impegno per la «ricostruzione sociale ed economica del paese». In vista della «funzione sociale» Arrigo Serpieri – dal 1923 sottosegretario di Stato all’Agricoltura – promuoveva diversi provvedimenti legislativi per la «bonifica integrale»; la politica per l’agricoltura si legava all’organizzazione dello Stato corporativo in fieri (Brugi, Arcangeli). Il Testo unico del 1933 mirava al risanamento della terra per aumentarne la produttività e migliorare le condizioni dei contadini con trasformazioni fondiarie di pubblico interesse, con possibili espropri di latifondi ed esecuzione coatta di lavori di bonifica su terre private; dal 1946 il Testo unico del 1933 sarà considerato una indicazione per la riforma agraria (Rossi Doria, Segni). Nel primo Congresso di diritto agrario, (Firenze 1935), Maroi, Pugliatti, Serpieri, D’Amelio, Bolla, Ascarelli, Calamandrei discutevano alcune questioni, in primo luogo il diritto agrario come esperienza fattuale, legato alla vita rurale, irriducibile ad un ordine giuridico uniforme; da qui la lunga durata della ‘fortuna’ dell Relazione Jacini sulle diverse Italie agrarie. In vista della codificazione civile, i giuristi rilevavano l’insufficienza dell’impianto individualistico; ponevano l’istanza di norme incentrate sul bene e non sui soggetti, fino al superamento della distinzione tra diritto pubblico e privato. I più illustri giuristi italiani scrivevano nel volume promosso dalla Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura; La Concezione fascista della proprietà esprimeva il distacco dalla concezione liberale – con l’accento sulla proprietà della terra fondata sul lavoro (Ferrara, Panunzio) – e teneva ferma l’iniziativa privata (Filippo Vassalli). Bolla ribadiva la particolarità della proprietà fondiaria tra ordinamento corporativo e progetto del codice civile, «istituto a base privata, aiutato e disciplinato dallo Stato», con il titolare «moderator et arbiter» della propria iniziativa. Nel codice civile del 1942 la proprietà fondiaria aveva senso dell’aspetto dinamico dell’attività produttiva, senza contemplare la «funzione sociale» come «nuovo diritto di proprietà» (Pugliatti, Vassalli, D’Amelio).Dopo la caduta del regime fascista le lotte nelle campagne imponevano al ministro Gullo di progare i contratti agrari e regolare l’occupazione delle terre incolte, con concessioni pluriennali ai contadini occupanti; il lodo De Gasperi indennizzava i mezzadri. Le differenti economie delle ‘diverse Italie agrarie’ sconsigliavano una riforma uniforme (Rossi Doria, Serpieri); i riorganizzati partiti politici miravano alla ripartizione delle terre espropriate e ad indennizzi al proprietario privato, senza lesioni del diritto di proprietà. L’iniziale azione dello Stato ad erosione del latifondo, con appositi Enti di riforma, aveva per scopo la valorizzazione della piccola proprietà contadina (Segni, Bandini). Per coniugare proprietà privata ed interesse sociale nella Costituzione Mortati motivava la sua proposta di «statuizione costituzionale»; Fanfani chiedeva «un articolo che parli espressamente della terra». Il latifondo era la questione più urgente ma divisiva; Di Vittorio ne chiedeva l’«abolizione » ed Einaudi la «trasformazione», scelta che si imponeva in nome delle diverse ‘Italie rurali’; non si recepiva la proposta di una norma intesa ad ostacolare le grandi proprietà terriere. L’articolo 44 della Costituzione prevedeva una legge a imporre «obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata», al fine di «conseguire il razionale sfruttamento del suolo ed equi rapporti sociali». Bolla apprezzava la scelta di «trasformare la proprietà individuale in proprietà sociale»; Vassalli scriveva di un non originale «prontuario di risoluzione del problema agrario». Nel progetto del Ministro per l’agricoltura Segni – che riusciva a far varare una contrastata riforma agraria – l’art. 44 dettava compiti al «legislatore futuro»; la legge Sila 21 Maggio 1950, la legge stralcio del 21 Ottobre 1950 per le zone particolarmente depresse, i progetti di legge sui contratti agrari erano discussi nel Terzo congresso di diritto agrario e nel primo Convegno internazionale, promosso da Bolla, con interventi di Bassanelli, Segni, Capograssi, Pugliatti, Santoro Passarelli, Mortati, Esposito. Il lavoro era considerato l’architrave della proprietà della terra, «diritto continuamente cangiante, che deve modellarsi sui bisogni sociali» (Bolla). In questo quadro è interessante la riflessione teorico-pratica, giuridico-politica di Mario Bracci, docente di diritto amministrativo a Siena, rettore, incaricato anche dell’insegnamento di diritto agrario. Rappresentante del PdA alla Consulta nazionale nella Commissione agricoltura, Bracci si proponeva di scrivere un «libro sulla socializzazione della terra», mai pubblicato; l’Archivio personale offre una mole di appunti finora inediti sul tema. Bracci collocava nella storia la proprietà della terra, che aveva senso nel «lavoro»; la definiva architrave del diritto agrario e crocevia di diritto privato e pubblico, tra le leggi di bonifica, la codificazione civile, l’art. 44 della Costituzione, la riforma agraria, intesa come «problema di giustizia». Dal fascismo alla Repubblica Bracci coglieva continuità tecniche e discontinuità ideologiche nell’assetto dell’istituto di rilevanza costituzionale, «le condizioni della persona sono indissolubilmente legate a quelle della proprietà fondiaria». Da studioso e docente di diritto amministrativo e diritto agrario dal luglio 1944 Bracci intendeva rispondere al conflitto nelle campagne, mediando tra «fini pubblici della produzione agraria e le esigenze della giustizia sociale»; proponeva «forme giuridiche adeguate e che sono forme di diritto pubblico».
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Birocchi, Italo. "La fase attardata in cui è rimasto il Codice Civile italiano. Una felix culpa per la scienza giuridica degli anni dieci del novecento. Il giurista come intellettuale". Revista da Faculdade de Direito, Universidade de São Paulo 112 (28 de agosto de 2018): 439–84. http://dx.doi.org/10.11606/issn.2318-8235.v112i0p439-484.

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Il saggio esamina l’affermazione della scienza giuridica italiana agli inizi del Novecento. Il processo di affermazione prende avvio con la crisi del modello liberale fondato sul codice civile, verso la fine dell’Ottocento, ma è soprattutto nel decennio della Grande Guerra che giunge a maturazione. Le diverse discipline giuridiche si rendono autonome dalla civilistica e si specializzano dandosi strumenti espressivi propri (riviste di settore; manuali). Mentre si specializzano, le diverse discipline predicano di essere accomunate dal metodo, che si asserisce essere scientifico perché depurato dalla storia e dalle ideologie. Perciò se ne accredita anche la neutralità. E però l’asserita neutralità della scienza giuridica non toglie, ed anzi implica, che il giurista si rivolga alla pratica e sia impegnato civilmente e nella politica (si teorizza anzi che compito del giurista sia quello di proporsi come legislatore, per incidere nel sociale). Queste linee generali di emersione della scienza giuridica vengono in particolare confrontate attraverso le figure di sei grandi giuristi nella loro formazione giovanile, considerati appunto ciascuno nel rispettivo specialismo disciplinare e nell’unità del metodo (Asquini, Betti, Calamandrei, Jemolo, Mossa, Vassalli).
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Rochira, Valerio. "La business judgement rule e il giudizio di adeguatezza degli assetti organizzativi". Fascicolo 1 | luglio-dicembre 2022, n.º 1 (15 de julio de 2022): 1–17. http://dx.doi.org/10.35948/rdpi/2022.5.

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La riforma della crisi d’impresa, come noto, ha interessato anche il codice civile attribuendo all'imprenditore che operi in forma societaria o collettiva il dovere, in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa. Il giudizio sull’adeguatezza degli stessi comporta, inevitabilmente, il possibile sindacato sulla colpa delle condotte dell’amministratore; v’è bisogno, dunque, di analizzare l’ampiezza dei poteri di chi è chiamato a sindacare sulle scelte gestorie dell’imprenditore, atteso che deliberare in ordine all’adeguatezza di un assetto organizzativo, amministrativo o contabile – oltre ad avere immediate ricadute sulla responsabilità del titolare della gestione – potrebbe mal conciliarsi con la c.d. business judgement rule. Ciò posto, si ritiene che l’introduzione dell’obbligo giuridico di adottare adeguati assetti organizzativi, allargando il contenuto della posizione di garanzia dell’imprenditore collettivo, estenda parimenti l’oggetto del decisum del giudice penale, chiamando così in causa la necessità di ragionare sull’opportunità del sindacato di quest’ultimo sulle scelte imprenditoriali. The reform of bankruptcy law, as is known, has also affected the civil code by providing, among other things, for the entrepreneur who operates in a corporate or collective form, the duty to establish organizational, administrative and accounting structures adequate to the nature and the size of the company, especially in relation to the timely detection of the crisis and the loss of business continuity. Therefore, the judgment on the adequacy of the same will inevitably reflect on the judgement upon the liability of the directors, indeed, there is a need to analyze the extent of the powers of those called to judge the managerial choices of the entrepreneur, given that deciding on the adequacy of an organizational, administrative or accounting structure - in addition to having immediate repercussions on the responsibility of the board of directors - might not match with the so-called “business judgment rule”. Therefore it is believed that the introduction of the legal obligation to adopt adequate organizational structures, expands the content of the guarantee position of the corporate entrepreneur, extending also the object of the criminal judge's decision, thus calling into question the need to reason on the opportunity of the latter of ruling business choices.
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Rudzińska, Karolina. "Kara wydalenia ze stanu duchownego". Prawo Kanoniczne 53, n.º 1-2 (9 de enero de 2010): 203–31. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2010.53.1-2.11.

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La pena della dimissione dallo stato clericale è la pena espiatoria, massima per i chierici ai quali soltanto può essere applicata. E la pena perpetua per la sua natura. Può essere irrogata mediante processo giudiziario o per mezzo di procedimento amministrativo salvo sempre il diritto di difesa. Può essere comminata nei casi previsti dalla legge universale, cioè: 1) l’apostasia, l’eresia e lo scisma, con prolungata o grave scandalo; 2) la profanazione delle specie consacrate; 3) la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica; 4) la violenza fisica contro il Sommo Pontefice; 5) la sollecitazione; 6) il matrimonio anche solo civile con contumacia; 7) il concubinato con contumacia; 8) gli atti contro il sesto precetto del Decalogo fatti con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con minori al di sotto dei diciotto anni. E prevista alla Congregazione per il Clero come facoltà speciale di intervenire ai sensi del can. 1399 CIC. In tutti i casi la pena è facoltativa. Tale pena comporta la perdita dei diritti propri dello stato clericale, degli onori e degli uffici ecclesiastici.
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CAMELO, Danielle y José BATISTA NETO. "Concepções sobre a Relação Ensino-Pesquisa no/do Currículo da Licenciatura em História da UFPE em Contexto de Reforma Curricular". INTERRITÓRIOS 6, n.º 11 (6 de agosto de 2020): 36. http://dx.doi.org/10.33052/inter.v6i11.247747.

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O presente artigo tem como objetivo analisar concepções construídas por docentes e funcionário do corpo técnico-administrativo do curso de licenciatura em História da Universidade Federal de Pernambuco sobre a relação ensino-pesquisa proposta pelo curso a partir de sua reforma curricular, implantada em 2012.2. Para construímos a pesquisa, utilizamos a entrevista semiestruturada como instrumento metodológico. Foram entrevistados/as docentes do curso e funcionário do corpo técnico administrativo. A análise dos dados foi realizada a partir da produção teórica de Soares e Cunha (2017); Cunha (2011); Monteiro e Penna (2011); Tardif (2002); Freire (1997), e categorizada a partir da técnica da Análise de Conteúdo de Bardin. As entrevistas mostraram divergências entre as concepções dos sujeitos sobre o currículo do curso, o processo de reforma e, dentro disto, acerca da concepção teoria-prática, concebida como indissociável por um grupo de sujeitos e como dicotômica por outro grupo. Ensino-Pesquisa. Formação de Professores/as. Licenciatura.ABSTRACTThe objective of this article is to analyze conceptions built by professors and employees of the technical-administrative staff of the degree course in History of the Federal University of Pernambuco about the teaching-research relationship proposed by the course from its curricular reform, implemented in 2012.2 To build the research, we use the semi-structured interview as a methodological tool. The course teachers and administrative staff were interviewed. The data analysis was performed from the theoretical production of Soares e Cunha (2017); Cunha (2011); Monteiro and Penna (2011); Tardif (2002); Freire (1997), and categorized from the technique of Content Analysis of Bardin. The interviews showed divergences between the subjects' conceptions about the course curriculum, the reform process and, within this, about the theory-practical conception, conceived as inseparable by one group of subjects and as dichotomous by another group.Teaching-Research. Teacher Training. Bachelor's Degree.RESUMENEl propósito de este artículo es analizar las concepciones construidas por profesores y funcionarios del personal técnico-administrativo del curso de Historia en la Universidad Federal de Pernambuco sobre la relación de enseñanza-investigación propuesta por el curso a partir de su reforma curricular, implementada en 2012.2. Para construir la investigación, utilizamos la entrevista semiestructurada como herramienta metodológica. Los profesores y el personal técnico administrativo fueron entrevistados. El análisis de datos se realizó con base en la producción teórica de Soares y Cunha (2017); Cunha (2011); Monteiro y Penna (2011); Tardif (2002); Freire (1997), y categorizado según la técnica de análisis de contenido de Bardin. Las entrevistas mostraron divergencias entre las concepciones de los sujetos sobre el currículo del curso, el proceso de reforma y, dentro de esto, sobre el concepto de teoría-práctica, concebido como inseparable por un grupo de sujetos y como dicotómico por otro grupo.Enseñanza-Investigación. Formación del profesorado. Licenciatura.RIASSUNTOQuesto articolo ha lo scopo di analizzare le concezioni costruite da professori e dipendenti del personale tecnico-amministrativo del corso di Storia dell'Università Federale del Pernambuco sul rapporto insegnamento-ricerca proposto dal corso dalla sua riforma curriculare, attuato nel 2012.2. Per costruire la ricerca, abbiamo usato l'intervista semi-strutturata come strumento metodologico. Sono stati intervistati insegnanti e personale amministrativo del corso. L'analisi dei dati è stata eseguita sulla base della produzione teorica di Soares e Cunha (2017); Cunha (2011); Monteiro e Penna (2011); Tardif (2002); Freire (1997), e classificato usando la tecnica di Content Analysis di Bardin. Le interviste hanno mostrato divergenze tra le concezioni dei soggetti sul curriculum del corso, il processo di riforma e, all'interno di questo, sulla concezione teoria-pratica, concepita come inseparabile da un gruppo di soggetti e come dicotomica da un altro gruppo.Insegnamento-Ricerca. Formazione degli insegnanti. La laurea.
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Silvestri, Maura. "Il disturbo di conversione ieri e oggi: evoluzioni teoricocliniche di un "simbolo" psicoanalitico". RICERCA PSICOANALITICA, n.º 3 (octubre de 2011): 95–111. http://dx.doi.org/10.3280/rpr2011-003008.

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L'Autrice descrive le evoluzioni teorico-cliniche dei disturbi di conversione, assumendole come "simbolo" di un più ampio discorso che indirettamente permette di illuminare le profonde modificazioni intervenute negli ultimi anni nello sviluppo della nostra disciplina. Partendo dalle prime formulazioni di Freud, che si configurano come primo serio tentativo di spiegare "il misterioso salto dal mentale al fisico", l'autrice affronta poi il problema dell'inquadramento nosografico in ambito psicoanalitico e psichiatrico del processo "conversivo" con le relative aree di confusione terminologica che ancora oggi accompagnano l'uso di termini quali . L'excursus storico si conclude con uno sguardo sul modo di concettualizzare i disturbi di conversione negli attuali orizzonti psicoanalitici, con particolare attenzione per la teoria del codice multiplo e per le profonde implicazioni del modello proposto dalla Bucci. La natura "enigmatica" e "densa" della tematica affrontata offre infine l'opportunità per una riflessione più generale sui cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nel modo stesso di approcciarsi all'antica e controversa problematica mente-corpo, e in particolare sulla tendenza attuale a superare la vecchia dicotomia e a considerarla, partendo da un vertice di osservazione sistemico, in un'ottica unitaria di mutua influenza circolare.
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Sztychmiler, Ryszard. "Znaczenie osobowości kandydata do małżeństwa w świetle obowiązującego prawa kanonicznego". Prawo Kanoniczne 40, n.º 1-2 (5 de junio de 1997): 201–17. http://dx.doi.org/10.21697/pk.1997.40.1-2.09.

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Persona e personalita hanno nel diritto romano e nel diritto canonico i significati diversi. La Chiesa riconosce la personalita naturale di ogni uomo dalla sua concezione, ma personalita giuridica assegna dal battesimo. Nel diritto canonico possiamo distinguere la personalita naturale, canonica e richiesta. Mi sembra, che la Chiesa potrebbe assegnare il piu grosso significato della personalita Christiana. Gran valore della formazione della personalita matura nella Chiesa dimostrano le norme sulla educazione Christiana. La Chiesa richiede la maturità dalle persone, che prendono importanti decisioni oppure ufficii; protegge sopratutto ogni persona e la sua personalita. Nello diritto canonico matrimoniale si trovano le normae, che danno molta importanza della personalita del uomo. Esse si trovano non soltanto nel Codice di diritto canonico, ma anche nelle diverse norme dello stesso diritto canonico. E cosi il Legislatore ecclesiastico vuole l’adequata praparazione al matrimonio. Nello stesso tempo si preferisce i matrimonii di due persone cattoliche, invece altre esigenze si pone per i findanzati, dei quali soltanto uno appartiene alla Chiesa cattolica. Il significato della personalita del candidato al matrimonio si rivela tra l’altro nel stabilire gli impedimenti matrimoniali tali come: mancanza dell’età, impotenza sessuale e diversa religione. Nel capitolo sul consenso matrimoniale il Legislatore del Codice mette alcune esigenze, le quali prendono in considerezione la validita del matrimonio dai certi segni della personalita e atteggiamenti dei candidati al matrimonio. In alcuni canoni mette tali esigenze le quali possono essere compiute dalle persone mature nel senso psicologico: cioe sufficiente scienza, sufficiente uso di ragione, giudizio critico e la capadtà da adempire i obbligazioni matrimoniali essenziali. Soltanto gravi disturbi e mancanze fanno il matrimonio invalido. Se ci sono infatti tali casi, si puo nel corso del processo giudiziario andare a dichiarare il matrimonio invalido. Pero le prove dei disturbi della personalità о altri fatti negativi in questo ambito e molto defficile da dimostrare, ma possibile, sopratutto quando i disturbi e le mancanze sono gravi. Riassumendo il mio discorso sul tema dei significato della personalità nel diritto canonico matrimoniale si puo affermare che i gravi о esattamente definiti i disturbi della personalità о negativo orientamento al matrimonio, in generale fanno il matrimonio invalido. II Legislatore eclesiastico prottegge in tali situazioni la liberta della persona, la quale ha incontrato la persona toccata dai tali disturbi e negativo orientamento della volontà. Se i disturbi о mancanze non sono gravi, il Legislatore non entra con la norma di protezione, la quale darebbe per loro la liberta.
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Bombara, Daniela. "Il topos della giustizia negata o deviata negli scenari siciliani di Nino Martoglio e Ugo Fleres". Forum Italicum: A Journal of Italian Studies 53, n.º 2 (4 de marzo de 2019): 425–42. http://dx.doi.org/10.1177/0014585819831609.

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É noto come la letteratura siciliana postunitaria esprima una relazione conflittuale con le istituzioni statali che appaiono sovraimposte e distanti dalla realtà locale; ne deriva una risentita diffidenza verso apparati giudiziari spesso inadatti a gestire la diversità dell’universo isolano, con sue proprie regole e codici comportamentali. L'applicazione di norme giuridiche continentali individua negativamente tale diversitá, in accordo ad un processo di orientalizzazione della realtá siciliana che segue alla fase unitaria. La tematica, centrale in Verga, si trasforma con le opere di Pirandello in antitesi fra la Legge e i suoi apparati, intesi come forme statiche e rigide, e la fluidità e mutevolezza dell’esistenza, che il diritto pretende di irreggimentare; la coscienza individuale non è invece mai riconducibile ad una norma uguale per tutti. Un motivo sviluppato ampiamente dalla novella pirandelliana Il dovere del medico del 1902, ma già trattato nel racconto di Ugo Fleres (1857–1939) Peccato veniale del 1891, che il presente articolo si propone di analizzare. Ancora legato ad un “discorso di classe”, ma al tempo stesso in qualche modo antesignano del relativismo pirandelliano, appare il lavoro giovanile di Nino Martoglio (1870–1921), I civitoti in pretura del 1893. Il dibattito processuale, bloccato da fraintendimenti linguistici fra parlanti in dialetto e in lingua, individua come difficoltà primaria nell’esercizio della legge l’incomunicabilità a livello di codice comunicativo fra i popolani catanesi e i magistrati che provengono da ‘nfora regnu. Si consideri inoltre che il pubblico del processo, attivo con commenti e risa, “si supponi ‘ntra la platea”; la rottura dell’illusione scenica rende i fruitori dello spettacolo parte attiva di un procedimento giudiziario comico, quindi per esigenze di copione dileggiato e sconfessato. Si intende infine prendere in analisi il romanzo fleresiano “Giustizia” (1909), ambientato nel paese siciliano di Riva: il titolo risulta antifrastico, considerando che l’opera racconta tortuose vicende di errori giudiziari intorno all’omicidio di una baronessa, per il quale magistrati inetti trovano diversi capri espiatori; il vero colpevole rivela invece il suo delitto solo in confessione, facendo collidere giustizia umana e divina. Il processo continuamente riformulato non si vede mai in scena, ma il romanzo è punteggiato da dibattiti informali di ambito giuridico, agiti in luoghi atipici, quali la farmacia o i salotti del paese; il lontano evento processuale, deviato dalle sue autentiche funzioni, diventa occasione di sfoggio e promozione sociale dei Rivesi. L’unico personaggio realmente giudicato proprio chi non può difendersi: la defunta baronessa, la cui reputazione viene distrutta nel corso dell’inchiesta. L’immagine letteraria primonovecentesca di una giustizia caotica, inefficace, inesistente, che “resta confinata in un oltre” (Borsellino, 1997), riflette la visione problematica di un’esistenza priva di valori di riferimento, ma agisce anche come efficace strumento ermeneutico per evidenziare l’interno dinamismo di una realtà prismatica, che si ricrea incessantemente dall’incrocio e dallo scontro delle opposte verità.
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Nykiel, Krzysztof. "Przyczyny i procedury wydalania duchownych według norm i praktyki Kongregacji Nauki Wiary". Prawo Kanoniczne 54, n.º 3-4 (10 de diciembre de 2011): 31–52. http://dx.doi.org/10.21697/pk.2011.54.3-4.01.

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La conferenza intende illustrare le cause e la procedura per le quali un chierico possa essere colpito con la pena di dimissione dallo stato clericale. Le cause sono la commissione da parte dello stesso di delitti gravi, descritti nel motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela di Giovanni Paolo II del 30 aprile 2001, in cui sono state, a distanza di nove anni, apportate delle modifiche sia per quanto riguarda le norme sostanziali, che procedurali. Tali modifiche vengono descritte nella prima parte della Conferenza. Queste nuove Norme sui “Delitti Riservati”, approvate da Papa Benedetto XVI il 21 maggio 2010, sono state pubblicate il 15 luglio 2010. Il testo in parola, che tratta dei delitti riservati alla competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede, contiene le Norme Sostanziali (artt. 1-7) e quelle Processuali (artt. 8-31) ed è stato il punto di riferimento per presentare le cause e la procedura che il predetto Dicastero osserva nel giudicare i casi di delicta reservata. A queste Norme si aggiunge anche una lunga prassi del Dicastero nel trattare simili casi. Per la commissione di questi gravi delitti (ad esempio: contro la fede, i Sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza, nonché contro la morale, specialmente l’abuso sessuale di minori), i chierici colpevoli, secondo la gravità del crimine da loro commesso, possono essere puniti anche con il massimo della pena, ovvero con la dimissione dallo stato clericale o la deposizione. Nella seconda parte della Conferenza viene esposta la procedura seguita dalla Congregazione nei casi di delicta reservata e le relative possibili soluzioni, esaminando i singoli casi. Il chierico accusato di aver commesso un grave delitto come, ad esempio, l’abusosessuale di minore, può, una volta accertatane la colpevolezza e ricorrendo gli estremidi cui all’art. 21 delle Normae, essere dimesso dallo stato clericale sia tramite la viagiudiziale sia anche percorrendo le vie alternative del processo amministrativo o dellapresentazione diretta delcaso al Romano Pontefice. In quest’ultima ipotesi il casoviene presentato al Santo Padre con il previo voto favorevole della Congregazione,motivando la richiesta dell’inflizione della succitata pena con la dicitura “pro bono Ecclesiae“ oppure, per i casi particolarmente gravi, “in poenam”. In via graziosa è contemplata anche la dispensa dagli obblighi che derivano dall’Ordine Sacro, inclusoil celibato, a seguito di supplice istanza dell’oratore-reo. La Conferenza si conclude con il richiamo ai due canoni 292-293 CIC che determinano la situazione canonica dei chierici che hanno perso lo stato clericale.
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Carbonari, L., F. Galli y L. Tazza. "Team dell'accesso vascolare: modelli organizzativi". Giornale di Clinica Nefrologica e Dialisi 24, n.º 1 (24 de enero de 2018): 2–8. http://dx.doi.org/10.33393/gcnd.2012.1105.

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Il nefrologo, che si confronta con tutti i problemi inerenti all'insufficienza renale, è anche da sempre principale gestore della terapia emodialitica. Per tale motivo tocca al nefrologo, in prima istanza, occuparsi dell'accesso vascolare disponendone l'allestimento, la sorveglianza e la manutenzione a garanzia della possibilità di effettuare il trattamento sostitutivo. Rispetto a quanto avviene in altri paesi, in Italia l'attività dell'accesso non è ad oggi standardizzata né strutturata; ciascun centro dialisi si organizza in funzione delle capacità dei nefrologi ivi operanti e delle collaborazioni di altri specialisti presenti nell'ospedale, spesso senza un percorso strutturato e con modalità di intervento per lo più fondate sulla disponibilità personale e sul volontarismo. Partendo dalla storia dell'accesso vascolare in Italia, abbiamo individuato tre tipologie organizzative che correlano, da un lato, con il contesto storico in cui sono sorte e, dall'altro, con il progresso, in termini di dispositivi medici e competenze specialistiche, che ha via via modificato i comportamenti. Il modello organizzativo “primordiale” vede il nefrologo confezionare e correggere personalmente gli accessi disponibili in quell'epoca. Nel modello polispecialistico, che nasce successivamente, il nefrologo inizia a delegare ad alti specialisti, più competenti sul versante tecnico, singole fasi del lavoro; resta colui che inizia il percorso e detta i tempi ma perde, talora, il controllo della gestione complessiva. Nel modello strutturale integrato, ideale ma non ancora integralmente realizzabile, il chirurgo dedicato all'accesso dialitico ed il radiologo interventista interagiscono da vicino con il nefrologo, che funge da regista, coordinatore e amministratore di tutto il processo di gestione dell'accesso vascolare. La formazione culturale specifica e necessaria e la conoscenza del programma terapeutico complessivo sono condivise dal team dell'accesso. In tale modello integrato dovrebbero essere trovate soluzioni perché anche la responsabilità professionale ed il rimborso amministrativo risultino bene “integrate” tra i vari specialisti ed operatori sanitari che partecipano all'attività. Il rimborso a D.R.G. com'è attualmente regolato presenta incongruenze e può produrre effetti contrari alla migliore cura del paziente. Le Aziende ospedaliere attualmente non riservano all'accesso vascolare, parte irrinunciabile della terapia dialitica, l'attenzione necessaria e non comprendono come una corretta gestione del problema, fondata su percorsi organizzati, migliori la qualità di vita del paziente e contenga il costo assistenziale della dialisi. La gestione complessiva dell'accesso vascolare dialitico non può più fondarsi, attualmente, solo sulla “buona volontà” del nefrologo dializzatore, ma richiede regole strutturali. Pertanto andrebbero definite le motivazioni professionali mediante l'attribuzione di precisi compiti, con lo scopo di meglio identificare e minimizzare il “rischio organizzativo”. L'individuazione di meccanismi economico-organizzativi-normativi che privilegino anzitutto l'ottenimento del risultato e, a seguire, che premino il lavoro di tutta la squadra che l'ha generato è la condizione prima per creare il modello integrato. è più che mai tempo che l'accesso vascolare entri a pieno titolo nel sistema qualità della dialisi e per farlo, a nostro avviso, il modello organizzativo integrato è l'unica soluzione possibile.
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Colao, Floriana. "La sovranità della Chiesa cattolica e lo Stato sovrano. Un campo di tensione dalla crisi dello Stato liberale ai Patti Lateranensi, con un epilogo nell'articolo 7 primo comma della Costituzione". Italian Review of Legal History, n.º 8 (21 de diciembre de 2022): 257–312. http://dx.doi.org/10.54103/2464-8914/19255.

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Il saggio ricostruisce la genesi della ‘Premessa’ al Trattato del Laterano del 1929, in cui le Due Alte Parti – governo italiano e Santa Sede, con le firme di Mussolini e del cardinale Gasparri – garantirono alla Chiesa «una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale». Da qui la «necessità di costituire, con particolari modalità, la Città del Vaticano […] con giurisdizione sovrana della Santa Sede», e l’art. 2, «l’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione». Il saggio considera che i giuristi – Vittorio Emanuele Orlando, che, da presidente del Consiglio nel maggio giugno 1919 tentò una trattativa con la Santa Sede per la risoluzione della Questione romana, e Amedeo Giannini, che tra i primi suggerì a Mussolini un «nuovo codice della legislazione ecclesiastica» – legarono la Conciliazione alla crisi dello Stato liberale ed al «regime diverso», insediatosi in Italia il 28 Ottobre 1922. Il saggio considera che già nel 1925 il guardasigilli Alfredo Rocco coglieva nelle ‘due sovranità’ una pietra d’inciampo nella costruzione dello Stato totalitario, anche se dichiarava di dover abbandonare l’«agnostico disinteresse del vecchio dottrinarismo liberale». Il saggio considera che Rocco rimase ai margini delle trattative con la Santa Sede, dal momento che metteva in guardia dal riconoscimento del «Pontefice sovrano, soggetto di diritto internazionale», e da «un altro Stato nello Stato», principio su cui convergevano giuristi quali Ruffini, Scaduto, Schiappoli, Orlando. Le trattative segrete furono affidate a Domenico Barone – consigliere di Stato, fiduciario del Duce – e Francesco Pacelli, avvocato concistoriale e fiduciario del cardinal Gasparri; la sovranità della Chiesa ed un suo ‘Stato’ appariva come la posta in gioco. Il saggio considera che la nascita dello Stato della Città del Vaticano complicava l’‘immagine’ del Regno d’Italia persona giuridica unitaria, ‘costruita’ dalla giuspubblicistica nazionale, difesa anche da Giovanni Gentile sul «Corriere della Sera». Mostra che il fascismo intese riconoscere il cattolicesimo «religione dominante dello Stato» per rafforzare la legge 13 Maggio 1871 n. 214, «sulle guarentigie pontificie e le relazioni fra Stato e Chiesa», che aveva previsto un favor religionis per la Chiesa cattolica. La Conciliazione risalta come l’approdo di un lungo processo storico, che offriva forma giuridica al ruolo che il cattolicesimo aveva e avrebbe rivestito per l’identità italiana; non a caso nel Marzo 1929 Agostino Gemelli celebrava una «nuova Italia riconciliata con la Chiesa e con sè stessa, con la propria storia e la propria bimillenaria civiltà». Il saggio mostra che la sovranità della Chiesa e lo Stato della Città del Vaticano furono molto discusse nel dibattito parlamentare sulla ratifica dei Patti firmati l’11 Febbraio 1929, con i toni duri di Mussolini, che definì la Chiesa «non sovrana e nemmeno libera». Rocco affermò che il «regime fascista» riconosceva «de iure» una sovranità «immutabile de facto»; rispondeva agli «improvvisati e non sinceri zelatori dello Stato sovrano, ma anticlericale», che «lo Stato è fascista, non abbandona parte alcuna della sua sovranità». Jemolo e Del Giudice – estimatori delle « nuove basi del diritto ecclesiastico – colsero il senso di questa «pace armata» tra governo e Santa Sede. Il saggio esamina l’ampio dibattito sulla «natura giuridica» della sovranità della Chiesa e sulla «statualità» dello Stato della Città del Vaticano, tra diritto pubblico, ecclesiastico, internazionale, teoria generale dello Stato. Coglie uno snodo nel pensiero di Santi Romano, indicato da Giuseppe Dossetti alla Costituente come assertore del «principio della pluralità degli ordinamenti giuridici». Il saggio esamina poi il confronto sullo Stato italiano come Stato confessionale, teoria sostenuta da Santi Romano, negata da Francesco Scaduto. Taluni – Calisse, Solmi, Checchini, Schiappoli – guardavano ai Patti Lateranensi come terreno del rafforzamento della sovranità dello Stato; Meacci scriveva di «Stato superconfessionale, cioè al di sopra di tutte le confessioni»; Piola e Del Giudice tematizzavano uno «Stato confessionista». Jemolo – che nel 1927 definiva la «sovranità della Chiesa questione forse insolubile» – affermava che, dopo gli Accordi, «il nostro Stato non sarà classificabile tra i Paesi separatisti, ma tra quelli confessionali». Il saggio esamina poi il dibattito sulla sovranità internazionale della Chiesa – discussa, tra gli altri, da Anzillotti, Diena, Morelli – a proposito della distinzione o unità tra la Santa Sede e lo Stato Città del Vaticano – prosecuzione dello Stato pontificio o «Stato nuovo» – e della titolarità della sovranità. Il saggio si sofferma poi sul dilemma di Ruffini, «ma cos’è precisamente questo Stato», analizzando uno degli ultimi scritti del maestro torinese, il pensiero di Orlando, Jemolo, Giannini, una monografia di Donato Donati e una di Mario Bracci, due dense «Lectures» di Mario Falco sul Vatican city, tenute ad Oxford, Ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano di Federico Cammeo, in cui assumeva particolare rilievo la «sovranità, esercitata dal Sommo Pontefice», per l’«importanza speciale» nei «rapporti con l’Italia». Quanto agli ecclesiasticisti, il saggio esamina le prospettive poi sviluppate nell’Assemblea Costituente, uno scritto del giovane Giuseppe Dossetti – docente alla Cattolica – sulla Chiesa come ordinamento giuridico primario, connotato da sovranità ed autonomia assoluta non solo in spiritualibus; le pagine di Jannaccone e D’Avack sulla «convergenza tra potestas ecclesiastica e sovranità dello Stato come coesistenza necessaria della Chiesa e dello Stato e delle relative potestà»; un ‘opuscolo’ di Jemolo «per la pace religiosa in Italia», che nel 1944 poneva la libertà come architrave di nuove relazioni tra Stato e Chiesa. Il saggio conclude il percorso della «parola sovranità» – così Aldo Moro all’Assemblea Costituente – nell’esame del sofferto approdo all’articolo 7 primo comma della Costituzione, con la questione definita da Orlando «zona infiammabile». Sull’‘antico’ statualismo liberale e sul ‘monismo giuridico’ si imponeva il romaniano pluralismo; Dossetti ricordava la «dottrina dell’ultimo trentennio contro la tesi esclusivista della statualità del diritto». Rispondeva alle obiezioni dei Cevolotto, Calamandrei, Croce, Orlando, Nenni, Basso in nome di un «dato storico», «la Chiesa cattolica […] ordinamento originario […] senza alcuna compressione della sovranità dello Stato». Quanto al discusso voto comunista a favore dell’art. 7 in nome della «pace religiosa», Togliatti ricordava anche le Dispense del 1912 di Ruffini – imparate negli anni universitari a Torino – a suo dire ispiratrici della «formulazione Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Tra continuità giuridiche e discontinuità politiche, il campo di tensione tra ‘le due sovranità’ si è rivelato uno degli elementi costitutivi dell’identità italiana, nel segnare la storia nazionale dei rapporti tra Stato e Chiesa dall’Italia liberale a quella fascista a quella repubblicana, in un prisma di temi-problemi, che ancora oggi ci interroga.
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Oliveira, Regis Fernandes de. "RETROCESSÃO NO DIREITO BRASILEIRO". Revista de Direito Administrativo e Infraestrutura - RDAI 3, n.º 11 (1 de diciembre de 2019): 413–32. http://dx.doi.org/10.48143/rdai.11.rfo.

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1 Modo de enfoque do problemaTodo e qualquer estudo de direito há de partir não de análises pré-jurídicas ou sociológicas, mas é imperioso que seja ele perquirido à luz do Direito positivo. Despiciendo, daí, todo envolvimento com posições e estudos realizados em outros países, salvo para aprimoramento cultural. Evidente que a análise do Direito comparado passa a interessar se o direito alienígena possuir norma igual ou assemelhada à existente no Direito brasileiro. A menção retrospectiva do direito comparado resultaria inútil, da perspectiva de utilidade prática deste trabalho. Mesmo porque, como assinala Marcelo Caetano “há países onde o expropriado pode requerer a reversão ou retrocessão dos bens, restituindo a indenização recebida, ou o expropriante tem o dever de oferecer os bens ao expropriado mediante a devolução do valor pago" (Princípios fundamentais do Direito Administrativo, 1977, p. 468) enquanto que "noutros países entende-se que, em qualquer caso, a conversão dos bens desapropriados no montante da indenização paga é definitiva. Portanto, nunca haverá lugar a reversão ou retrocessão dos bens” (idem, ibidem). Afigura-se-nos dispensável e sem qualquer utilidade prática a apresentação de uma resenha da doutrina estrangeira a propósito do tema. Apenas será feita menção a alguns autores, na medida em que suas afirmações interessarem à análise. Observe-se, tão-somente que o direito de retrocessão em espécie é reconhecido em diversas legislações. Na Itália há previsão legal (art. 60 da Lei 2.359, de 25.6.1865) o mesmo ocorrendo na França (art. 54 do Dec. 58.997, de 23. 10. 58, que fixa o prazo de 10 anos a contar do decreto de desapropriação para que se requeira a retrocessão). Em Portugal há dispositivo semelhante (art. 8 º da Lei 2 .030, de 22.6.48); o que acontece também na Espanha (art. 54 da Lei de 15. 12. 54) e na Alemanha (Lei de 23. 2.57, em seu § 102) Demais de tal inicial observação, perigoso é o estudo de qualquer instituto jurídico atrelado à lei. Impõe-se a análise de determinado instituto a partir da Constituição. Daí inicia-se o estudo da retrocessão. 2 Desapropriação. Desvio de poderDispõe o § 22 do art. 153 da Lei Maior "que é assegurado o direito de propriedade, salvo o caso de desapropriação por necessidade ou utilidade pública ou por interesse social, mediante previa e justa indenização em dinheiro...”. Assegura-se o direito de propriedade que cede apenas, ante o interesse coletivo, representado pelo Estado. Ao mesmo tempo em que garante a propriedade, a Constituição assegura ao Estado o poder de retirá-la mediante desapropriação. Esta pode ser entendida como "o procedimento administrativo através do qual o Poder Público compulsoriamente despoja alguém de uma propriedade e a adquire para si, mediante indenização, fundada em um interesse público" (Elementos de Direito Administrativo, Celso Antônio Bandeira de Mello, 1980, p. 188). Caracteriza-se a desapropriação pela retirada compulsória do bem do domínio particular, com sua transferência ao domínio público, sob fundamento de interesse público mediante indenização. O fulcro da permissão legal para a transferência do domínio é o interesse público, ou seja, finalidade prevista no próprio ordenamento jurídico a ser perseguido pelo Estado. Sob a rubrica interesse público albergam-se todos os conteúdos possíveis de utilidade coletiva desde que alcançados pelo sistema de normas (sob o rótulo interesse público acolhe-se a necessidade ou utilidade pública e o interesse social). O poder de desapropriação deflui do domínio eminente que possui o Poder Público sobre todas as coisas materiais e imateriais sujeitas ao âmbito espacial de validade do sistema jurídico. O poder de desapropriação pode ser decomposto em três aspectos: a) transferência compulsória de alguma coisa; b) mediante indenização e c) sob o fundamento de interesse público. A desapropriação, como forma originária de aquisição de domínio, implica na compulsoriedade da transferência do bem do domínio particular para o público. Sempre haverá indenização, devidamente apurada através do processo próprio ou mediante acordo de vontades. E, o que mais nos interessa, há que vir fundamentada em interesse público, sob pena de invalidade. A competência, no Direito, não é dada a qualquer título. Sempre é outorgada a determinado agente para que persiga interesses coletivos ou mais propriamente denominados públicos, sendo estes apurados pela análise de todo o sistema de normas. A visão completa da competência apenas pode ser entrevista, pois, em contraste com a finalidade descrita na norma legal. Desviando-se o agente administrativo dos fins que lhe foram traçados pelo sistema de normas, incide no desvio de poder (ou de finalidade, como dizem alguns). 3 Conceito de retrocessãoA retrocessão implica no direito do expropriado de retomar a propriedade do imóvel que lhe fora retirada compulsoriamente pelo Poder Público. Os léxicos consignam que "retrocessão é o ato pelo qual o adquirente de um bem transfere de volta a propriedade desse bem àquele de quem o adquiriu" (Novo Dicionário Aurélio, lª ed., p. 1.231). Assinala Oliveira Cruz que "a retrocessão é um instituto de Direito Público, destinado a fazer voltar ao domínio do desapropriado os bens que saíram do seu patrimônio, por efeito de uma desapropriação por utilidade pública" (Da desapropriação, p. 119). E, acrescenta que "a retrocessão tem, indiscutivelmente, uma feição real porque significa um direito que só se desliga do imóvel quando preenchidos os fins determinantes da desapropriação" (ob. cit., p. 121). Assim entendida a retrocessão, como defluente do próprio preceito constitucional que assegura a propriedade e resguarda sua retirada apenas e exclusivamente pela desapropriação por necessidade, utilidade pública ou interesse social, não há como confundi-la com a preempção ou prelação, ou assimilá-la a qualquer tipo de direito pessoal. A fixação de tal premissa é fundamental para todo o desenvolvimento do trabalho e para alicerçar as conclusões que serão apontadas ao final. Daí porque não se pode concordar com a assertiva feita por alguns autores de que se cuida de simples obrigação imposta ao Poder Público de oferecer ao ex-proprietário o bem que lhe desapropriou, se este não tiver o destino para o qual fora expropriado (Múcio de Campos Maia, "Ensaio sobre a retrocessão", in RDA, 34/1-11). Pela própria dúvida no conteúdo do conceito, já os autores manifestaram-se surpresos e a jurisprudência claudicou sobre a análise do tema. Muitos julgados, inclusive, chegaram a admitir a inexistência da retrocessão no Direito brasileiro. Mas, pela análise que será feita e pelas conclusões a que se chegará, ver-se-á não só da existência do instituto no Direito brasileiro, sendo despicienda a indagação do Direito Civil a respeito, defluindo o instituto da só análise do texto constitucional brasileiro. A retrocessão é mero corolário do direito de propriedade, constitucionalmente consagrado e decorre do direito emergente da não utilização do bem desapropriado para o fim de interesse público. Sob tal conteúdo é que o conceito será analisado. 4 Desenvolvimento histórico, no BrasilEm estudo sobre o aspecto histórico do desenvolvimento da retrocessão no Direito brasileiro Ebert Chamoun escreveu que o inc. XXII do art. 179 da Constituição do Império, de 25. 3. 1824 dispôs sobre a possibilidade da desapropriação. E a Lei provincial 57, de 18.3.1836 pela vez primeira cuidou da retrocessão, assegurando que, na hipótese de desapropriação caberia "recurso à Assembleia Legislativa provincial para a restituição da propriedade ... " A admissibilidade da retrocessão foi aceita pelo STF que assim deixou decidido: “que abrindo a mesma Constituição à plenitude o direito de propriedade no art. 72, § 17, a exceção singular da desapropriação por utilidade pública presumida, desde a certeza de não existir tal necessidade, o ato de desapropriação se equipara a violência (V) e deve se rescindir mediante ação do espoliado" (O Direito, vol. 67, 1895, p. 47). A referência é à Constituição republicana de 24.2.1891. Em sua Nova Consolidação das Leis Civis vigentes em 11 de agosto de 1899, Carlos de Carvalho escrevia o art. 855 "se verificada a desapropriação, cessar a causa que a determinou ou a propriedade não for aplicada ao fim para o qual foi desapropriada, considera-se resolvida a desapropriação, e o proprietário desapropriado poderá reivindicá-la". Diversas leis cuidaram do assunto, culminando com a edição do art. 1.150 do CC (LGL\2002\400) que dispôs: ''A União, o Estado, ou o Município, oferecerá ao ex-proprietário o imóvel desapropriado, pelo preço por que o foi, caso não tenha o destino para que se desapropriou". Criou-se, assim, o direito de preempção ou preferência, como cláusula especial à compra e venda. As Constituições que se seguiram igualmente asseguraram o direito de propriedade (a de 1934, no art. 113, 17; a de 1937, no art. 122, 14; a de 1946, no § 16 do art. 141). A Constituição de 1967 igualmente protegeu, juridicamente, a propriedade, permanecendo a garantia com a EC 1/69. 5 Hipóteses de retrocessãoO instituto da retrocessão foi bem analisado por Landi e Potenza quando escrevem que "fatta l'espropriazione, se l'opera non siasi eseguita, e siano trascorsi i termini a tal uopo concessi o prorogati, gli espropriati potranno domandare che sia dall'autorità giudiziaria competente pronunciata la decadenza dell'ottenuta dichiarazione di pubblica utilità, e siano loro restituiti i beni espropriati. In altri termini, la mancata esecuzione dall'opera dimostra l'insussistenza dell’interesse pubblico, che aveva determinato l'affievolimento del diritto di proprietà" (Manuale di Diritto Amministrativo, 1960, p. 501). Mas não é só a falta de destinação do bem a interesse público ou a não construção da obra para que teria sido o imóvel desapropriado que implica na possibilidade de retrocessão, afirmam os autores citados. Também no caso em que ''l'opera pubblica sia stata eseguita: ma qualche fondo, a tal fine espropriato, non abbia ricevuto in tutto o in parte la prevista destinazione" (ob. cit., p. 501). A retrocessão, pois, deflui, do que se lê da lição dos autores transcritos, na faculdade de o expropriado reaver o próprio bem declarado de utilidade pública, - quando lhe tenha sido dado destinação diversa da declarada no ato expropriatório ou não lhe tenha sido dada destinação alguma. De outro lado, esclarece André de Laubadere que "si l'immeuble exproprié ne reçoit pas la destination prévue dans la déclaration d'utilité publique, il est juste que le propriétaire exproprié puisse le récupérer. C'est l'institution de la rétrocession" (Traité deDroit Administratif, 6." ed., 2. 0 vol., p. 250). No direito brasileiro, os conceitos são praticamente uniformes. Eurico Sodré entende que "retrocessão é o direito do ex-proprietário de reaver o imóvel desapropriado, quando este não tenha tido utilização a que era destinado" (A desapropriação por necessidade ou utilidade pública, 1928, pp. 85-86). Firmino Whitaker afirma que "é direito que tem o ex-proprietário de readquirir o imóvel desapropriado mediante a restituição do valor recebido, quando não tenha sido o mesmo imóvel aplicado em serviço de ordem pública" (Desapropriação, 3ª ed., p. 23, 1946). Cretella Junior leciona que "é o direito do proprietário do imóvel desapropriado de reavê-lo ou de receber perdas e danos, pelos prejuízos sofridos, sempre que ocorrer inaproveitamento, cogitação de venda ou desvio de poder do bem expropriado" (Comentários às leis de desapropriação, 2.ª ed., 2.ª tiragem, 1976, p. 409). Fazendo a distinção prevista por Landi e Potenza, escreve Marienhoff que "la retrocesión, en cambio, sólo puede tener lugar en las dos siguientes hipótesis: a) cuando, después de la cesión amistosa o avenimiento, o después de terminado el juicio de expropiación, el expropiante afecta el bien o cosa a un destino diferente del tenido en cuenta por el legislador ai disponer la expropiación y hacer la respectiva calificación de utilidad publica; b) cuando efectuada la cesión amistosa o avenimiento, o terminado el juicio de expropiación, y transcurrido cierto plazo el expropiante no le dá al bien o cosa destino alguno" (Tratado de Derecho Administrativo, T. IV, 2ª ed., p. 369). Embora os autores costumem distinguir as hipóteses de cabimento da retrocessão, parece-nos que no caso de o Poder Público alterar a finalidade para que houvera decretado a desapropriação não existe o direito à retrocessão. Isto porque a Constituição Federal como já se viu, alberga no conceito "interesse público" a mais polimorfa gama de interesses. Assim, se desapropriado imóvel para a construção de uma escola, mas constrói-se um hospital, não nos parece ter havido "desvio de poder" ou de "finalidade". Simplesmente houve desvio do fim imediato, mas perdura o fim remoto. O interesse público maior, presente no ordenamento jurídico ficou atendido. Simplesmente, por interesses imediatos do Poder Público, mas sempre dentro da competência outorgada pela legislação, o agente entendeu de dar outra destinação à coisa expropriada. Em tal hipótese, não parece ter havido desvio de poder, hábil a legitimar a retrocessão. De tal sentir é Celso Antônio Bandeira de Mello quando afirma "convém ressaltar enfaticamente, contudo, que a jurisprudência brasileira pacificou-se no entendimento de que se o bem desapropriado para uma específica finalidade for utilizado em outra finalidade pública, não há vício algum que enseje ao particular ação de retrocessão (tal como é concebida hoje), considerando que, no caso, inexistiu violação do direito de preferência" (ob. cit., p. 210). Cita o autor a jurisprudência mencionada (RDP, 2/213, 3/242 e em RDA, 88/158 e 102/188). A doutrina é remançosa em afirmar a possibilidade de ser o bem empregado em outra finalidade diversa da alegada no decreto expropriatório ou na lei, desde que também de utilidade pública (Adroaldo Mesquita da Costa, in RDA, 93 /377; Alcino Falcão, Constituição Anotada, vol. II, pp. 149/SO; Carlos Maximiliano, Comentários à Constituição Brasileira, 1954, vol. III, p. 115; Diogo Figueiredo Moreira Neto, Curso de Direito Administrativo, vol. 2, p. 116; Ebert Chamoun, Da retrocessão nas desapropriações, pp. 74 e ss.; Hely Lopes Meirelles, Direito Administrativo Brasileiro, 2.ª ed., p. 505; Pontes de Miranda, Comentários à Constituição de 1967, com a Emenda Constituição n.º 1, de 1969, T. V, pp. 445/6; Cretella Junior, Tratado de Direito Administrativo, vol. IX, pp. 165/6). A jurisprudência a respeito é farta (RTJ, 39/495, 42/195 e 57 /46). Mais recentemente decidiu-se que "não cabe retrocessão quando o imóvel expropriado tem destino diverso, vias de utilidade pública" (RDA, 127 /440). Poucos autores manifestam-se em sentido contrário, ou seja, pela inadmissibilidade de aplicação do destino do bem em outra finalidade que não a invocada no decreto ou lei que estipula a desapropriação (Hélio Moraes de Siqueira, A retrocessão nas desapropriações, p. 61 e Miguel Seabra Fagundes, Da desapropriação no Direito brasileiro, 1949, p. 400). Tais indicações foram colhidas na excelente Desapropriação – Indicações de Doutrina e Jurisprudência de Sérgio Ferraz, pp. 122/124. Já diversa é a consequência quando o imóvel não é utilizado para qualquer fim, ficando ele sem destinação específica, implicando, praticamente, no abandono do imóvel. Daí surge, realmente, o problema da retrocessão. Mas, emergem questões prévias a serem resolvidas. Como se conta o prazo, se é que há, para que se legitime o expropriado, ativamente? Em consequência da solução a ser dada à questão anterior, cuida-se a retrocessão de direito real ou pessoal, isto é, a não utilização do bem expropriado enseja reivindicação ou indenização por perdas e danos? Estas questões são cruciais e têm atormentado os juristas. Passemos a tentar equacioná-las. 6 Momento do surgimento do direito de retrocessãoEntende Cretella Júnior que há dois momentos para que se considere o nascimento do direito de ingressar com a ação de retrocessão. Mediante ato expresso ou por ato tácito. "Mediante ato expresso, que mencione a desistência do uso da coisa expropriada e notifique o ex-proprietário de que pode, por ação própria, exercer o direito de retrocessão" (Comentários às leis de desapropriação, p. 415) ou através de ato tácito, ou seja, pela conduta da Administração que permita prever a desistência de utilização do bem expropriado, possibilitando ao antigo proprietário o exercício do direito de preferência...” (ob. cit., p. 416). De igual teor a lição de Eurico Sodré, A desapropriação por necessidade ou utilidade pública, 2.ª ed., p. 289. A jurisprudência já se manifestou em tal sentido (RTJ, 57 /46). Ebert Chamoun (ob. cit., pp. 80 e ss.) entende que apenas por ato inequívoco da administração tem cabimento a ação de retrocessão. Jamais se poderia julgar pela procedência da ação que visasse a retrocessão, desde que o Poder Público alegue que ainda vá utilizar o bem. Afirma o citado autor que "é assim, necessário frisar que o emprego, pelo expropriante do bem desapropriado para fim de interesse público não precisa ser imediato. Desde que ele consiga demonstrar que o interesse público ainda é presente e que a destinação para esse escopo foi simplesmente adiada, porque não é oportuna, exequível ou aconselhável, deve ser julgado improcedente o pedido de indenização do expropriado, com fundamento no art. 1.150 do CC (LGL\2002\400)" (ob. cit., p. 84). De igual teor a lição de Pontes de Miranda (Comentários. T. V, p. 445). Celso Antonio Bandeira de Mello tem posição intermediária. Afirma que "a obrigação do expropriante de oferecer o bem em preferência nasce no momento em que este desiste de aplicá-lo à finalidade pública. A determinação exata deste momento há que ser verificada em cada caso. Servirá como demonstração da desistência, a venda, cessão ou qualquer ato dispositivo do bem praticado pelo expropriante em favor de terceiro. Poderá indicá-la, também, a anulação do plano de obras em que se calcou o Poder Público para realizar a desapropriação ou outros fatos congêneres" (ob. cit., p. 209). A propósito, já se manifestou o STF que "o fato da não utilização da coisa expropriada não caracteriza, só por si, independentemente das circunstâncias. desvio do fim da desapropriação" (RTJ. 57/46). Do mesmo teor o acórdão constante da RDA, 128/395. 7 Prazo a respeito. AnalogiaOutros autores entendem que há um prazo de cinco anos para que o Poder Público destine o imóvel à finalidade Pública para que efetuou a desapropriação. Assim se manifestam Noé Azevedo (parecer in RT 193/34) e Seabra Fagundes (ob. cit., pp. 397 /8). O prazo de cinco anos é já previsto na doutrina francesa. Afirma Laubadere que "si les immeubles expropriés n'ont pas reçu dans le délai de cinq ans la destination prévue ou ont cessé de recevoir cette destination, les anciens propriétaires ou leurs ayants droit à titre universel peuvent en demander la rétrocession dans un délai de trente ans à compter également de l'ordonance d'expropriation, à moins que l'expropriant ne requère une nouvelle déclaration d'utilité publique" (ob. cit., p. 251). Tal orientação encontra por base o art. 10 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6) que estabelece: "a desapropriação deverá efetivar-se mediante acordo ou intentar-se judicialmente dentro de cinco anos, contados da data da expedição do respectivo decreto e findos os quais este caducará". Claro está que não tendo a lei previsto o direito à retrocessão, o intérprete há de buscar a solução para o problema (interpretação prudencial) dentro do próprio sistema normativo, para suprir ou colmatar a lacuna (a propósito deste tema, especificamente, veja se nosso "Lacuna e sistema normativo", in RJTJSP, 53/13-30). Esta surge no momento da decisão. Como todo problema jurídico gira em torno da decidibilidade, admite-se a interpretação analógica ao se entender que o prazo para que o Poder Público dê ao imóvel destinação específica ou outra permitida pelo direito (finalidade prevista no ordenamento) igualmente será o prazo de cinco anos. Neste, caduca o interesse público. Daí legitimar-se o expropriado a ingressar com a ação de retrocessão. Caso se entenda da inadmissibilidade de fixação de prazo, deixar-se-á à sorte o nascimento do direito ou, então, como pretende Cretella Junior, à manifestação volitiva do Poder Público decidir sobre a oferta do imóvel a alguém, com o que caracterizaria expressamente a vontade de alienar ou dispor do imóvel. Nunca haveria um prazo determinado, com o que padeceria a relação jurídica de segurança e estabilidade. Permaneceria o expropriado eternamente à disposição do Poder Público e perduraria, constantemente, e em suspense, até que a Administração decida como e quando destinará ou desafetará o imóvel. A solução que se nos afigura mais compatível com a realidade brasileira é a de se fixar o prazo de cinco anos, por aplicação analógica com o art. 10, retro citado. Está evidente que a só inércia não caracteriza a presunção do desvio. Se a Administração desapropria sem finalidade pública, o ato pode ser anulado, mesmo sem o decurso do prazo de cinco anos. Mas, aqui, o fundamento da anulação do ato seria outro e não se cuidaria do problema específico da retrocessão. 8 Natureza do direito à retrocessãoDiscute-se, largamente, sobre a natureza do direito à retrocessão. Para uns seria direito pessoal e eventual direito resolver-se-ia em indenização por perdas e danos. Para outros, cuida-se de direito real e, pois, há possibilidade de reivindicação. Magnífica resenha de opiniões é feita por Sérgio Ferraz em seu trabalho Desapropriação, pp. 117/121. Dentre alguns nomes que se manifestam pelo reconhecimento de que se cuida de direito pessoal e, pois, enseja indenização por perdas e danos encontram-se Ebert Chamoun (ob. cit., p. 31), Cretella Junior (Tratado . . ., vol. IX, pp. 159, 333/4), Múcio de Campos Maia ("ensaio sobre a retrocessão ", in RT 258/49). A jurisprudência já se tem manifestado neste sentido (RDA, 98/ 178 e 106/157). A propósito da pesquisa jurisprudencial, veja-se, também, o repertório de Sergio Ferraz. A solução apontada pelos autores encontra fundamento no art. 35 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6) ao estabelecer que "os bens expropriados, uma vez incorporados à Fazenda Pública, não podem ser objeto de reivindicação, ainda que fundada em nulidade do processo de desapropriação. Qualquer ação julgada procedente, resolver-se-á em perdas e danos". Com base em tal artigo afirma Ebert Chamoun que "o direito do expropriado não é, evidentemente, um direito real, porque o direito real não se contrapõe, jamais, um mero dever de oferecer. E, por outro lado, se o expropriante não perde a propriedade, nem o expropriado a adquire, com o simples fato da inadequada destinação, é óbvio que a reivindicação que protege o direito de domínio, e que incumbe apenas ao proprietário, o expropriado não pode ter" (ob. cit., pp. 38/39). Mais adiante afirma que "o direito do ex-proprietário perante o poder desapropriante que não deu à coisa desapropriada o destino de utilidade pública, permanece, portanto, no direito positivo brasileiro, como direito nítido e irretorquivelmente pessoal, direito que não se manifesta em face de terceiros , eventuais adquirentes da coisa, nem ela adere, senão exclusivamente à pessoa do expropriante. Destarte, o poder desapropriante, apesar de desrespeitar as finalidades da desapropriação, desprezando os motivos constantes do decreto desapropriatório, não perde a propriedade da coisa expropriada, que ele conserva em sua Fazenda com as mesmas características que possuía quando da sua. aquisição" (ob. cit., pp. 44/45). Em abono de sua orientação invoca o dispositivo mencionado e afirma "quaisquer dúvidas que ainda houvesse acerca da natureza do direito do expropriado seriam espancadas por esse preceito, límpido e exato, consectário perfeito dos princípios gerais do nosso direito positivo, dispositivo que se ajusta, como luva, ao sistema jurídico brasileiro relativo à aquisição de propriedade, à preempção e à desapropriação" (ob. cit., p. 47). De outro lado, autores há que entendem cuidar-se de direito real. Dentre eles Hely Lopes Meirelles (Direito Administrativo Brasileiro, 2.ª ed., p. 505), Seabra Fagundes (ob. cit., p. 397), Noé Azevedo (parecer citado, in RT, 193/34), Pontes de Miranda (Comentários . . . ", T. V, pp. 443/6 e Vicente Ráo (O direito e a vida dos direitos, 2.ª ed., p. 390, nota 113). Apontam-se, também, diversos julgados (RDA, 48/231 e 130/229). 9 Crítica às posiçõesRealmente não se confundem as disposições do art. 1.149 com o art. 1.150 do CC (LGL\2002\400). O primeiro refere-se a pacto de compra e venda e tem por pressuposto a venda ou a dação em pagamento. Implica manifestação volitiva, através de contrato específico, em que se tem por base a vontade livre dos negócios jurídicos, assim exigida para validade do contrato. Já o art. 1.150 constitui norma de Direito Público, pouco importando sua inserção no Código Civil (LGL\2002\400) (Pontes de Miranda, Tratado de Direito Privado, T. XIV, 2.ª ed., § 1.612, p. 172). Em sendo assim, a norma do art. 1.150 do CC (LGL\2002\400) que determina o oferecimento do imóvel desapropriado ao ex-proprietário para o exercício do direito de preferência não está revogada. Mas, daí não se conclui que há apenas o direito de prelação. Diverso é nosso entendimento. Pelo artigo referido, obriga-se a Administração a oferecer o imóvel (é obrigação imposta à Administração), mas daí não pode advir a consequência de que caso não oferecido o imóvel, não há direito de exigi-lo. A norma não é unilateral em prol do Poder Público. De outro lado, surge a possibilidade de exigência por parte do expropriado. E a tal exigência dá-se o nome de retrocessão. Superiormente ensina Hélio Moraes de Siqueira que "entretanto, não é na lei civil que se encontra o fundamento da retrocessão. Aliás, poder-se-ia, quando muito, vislumbrar os lineamentos do instituto. É na Constituição Federal que a retrocessão deita raízes e recebe a essência jurídica que a sustém. Mesmo se ausente o preceito no Código Civil (LGL\2002\400), a figura da retrocessão teria existência no direito brasileiro, pois é consequência jurídica do mandamento constitucional garantidor da inviolabilidade da propriedade, ressalvada a desapropriação por utilidade e necessidade pública e de interesse social, mediante prévia e justa indenização em dinheiro" (ob. cit., pp. 76/77). Idêntico entendimento deve ser perfilhado. Realmente, despiciendo é que o art. 35 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6) tenha estabelecido que "os bens expropriados, uma vez incorporados à Fazenda Pública, não podem ser objeto de reivindicação, ainda que fundada em nulidade do processo de desapropriação. Qualquer ação, julgada procedente, resolver-se-á em perdas e danos". A lei não pode mudar a norma constitucional que prevê a possibilidade da desapropriação sob fundamento de interesse público. O interesse público previsto na Constituição Federal é concretizado através das manifestações da Administração, em atos administrativos, possuindo, como condição de sua validade e de sua higidez o elemento finalidade ("finalidade-elemento teleológico contido no sistema. Conjunto de atribuições assumidas pelo Estado e encampadas pelo ordenamento jurídico", cf. nosso Ato Administrativo, ed. 1978, p. 48). Destina-se a finalidade a atender aos interesses públicos previstos no sistema normativo. Há por parte do agente administrativo emanador do ato, a aferição valorativa do interesse manifestado no decreto. É pressuposto lógico da emanação de qualquer ato administrativo que a competência do agente seja exercitada em direção a alcançar os objetivos ou os valores traçados no sistema de normas. Tal aferição valorativa é realizada no momento da expedição do ato. No decurso de certo tempo, pode desaparecer o interesse então manifestado. Mas, tal reconhecimento do desinteresse não pertence apenas à Administração Pública, mas também ao expropriado que pode provocá-lo, mediante ação direta. A Administração Pública, pela circunstância de ter adquirido o domínio da coisa expropriada, não fica isenta de demonstrar a utilidade da coisa ou a continuidade elo interesse público em mantê-la. Desaparecendo o interesse público, o que pode acontecer por vontade expressa da Administração, ou tacitamente, pelo decurso do prazo de cinco anos, contados dos cinco anos seguintes à transferência de domínio, que se opera pelo registro do título aquisitivo, que é a carta de adjudicação mediante prévio pagamento do preço fixado, nasce ao expropriado o direito de reaver a própria coisa. Trata-se de direito real, porque a perquirição da natureza do direito não deflui do momento atual do reconhecimento da desnecessidade da coisa, mas remonta ao momento do ato decretatório da utilidade pública. Já disse alhures (Ato Administrativo, pp. 122 e ss.) que a nulidade ou o ato inválido não prescreve. No caso a prescrição alcança o expropriado no prazo de cinco anos, contados do término dos cinco anos anteriores ao termo final do prazo de presunção da desnecessidade do imóvel. Explicando melhor: o Poder Público tem cinco anos, contados da data da aquisição da propriedade, que opera pelo registro da carta de adjudicação no Cartório do Registro de Imóveis competente, ou mediante registro da escritura pública lavrada por acordo das partes, no mesmo Cartório, para dar destinação específica, tal como declarada no decreto expropriatório ou outra destinação, havida como de interesse público. Passado tal prazo, abre-se ao expropriado o direito de haver a própria coisa, também pelo prazo de Cinco anos, nos termos do Dec. 20.910/32 (LGL\1932\1). A propósito já se decidiu que "a prescrição da ação de retrocessão, visando às perdas e danos, começa a correr desde o momento em que o expropriante abandona, inequivocamente, o propósito de dar, ao imóvel, a destinação expressa na declaração de utilidade pública" (PDA, 69/ 200). Ausente a utilidade pública, seja no momento da declaração, seja posteriormente. o ato deixa de ter base legal. Como afirma José Canasi, "la retrocesión tiene raiz constitucional implicita y surge del concepto mismo de utilidade publica. No se concibe una utilidad publica que puede desaparecer o deformarse a posteriori de la expropriación. Seria un engano o una falsidad" (La retrocesión en la Expropiación Publica, p. 47). Rejeita-se o raciocínio de que o expropriado, não sendo mais proprietário, falece-lhe o direito de pleitear reivindicação. Tal argumento serviria, também, para &e rejeitar a existência de direito pessoal. Isto porque, se o ex-proprietário já recebeu, de acordo com a própria Constituição Federal a justa indenização pela tomada compulsória de seu imóvel, nenhum direito teria mais. Não teria sentido dar-se nova indenização ao ex-proprietário, de vez que o Poder Público já lhe pagara toda quantia justa e constitucionalmente exigida para a composição do patrimônio desfalcado pela perda do imóvel. Aí cessaria toda relação criada imperativamente, pelo Poder Público. Inobstante, a pretensão remonta à edição do ato. O fundamento do desfazimento do decreto expropriatório reside exatamente na inexistência do elemento finalidade que deve sempre estar presente nas manifestações volitivas da Administração Pública. Demais, cessado o interesse público subsistente no ato expropriatório, a própria Constituição Federal determina a persistência da propriedade. A nosso ver, a discussão sobre tratar-se de direito real ou pessoal é falsa. Emana a ação da própria Constituição, independentemente da qualificação do direito. Ausente o interesse público, deixa de existir o fundamento jurídico da desapropriação. Logo, não podem subsistir efeitos jurídicos de ato desqualificado pelo ordenamento normativo. Trata-se de direito real, no sentido adotado por Marienhoff quando afirma que "desde luego, trátase de una acción real de "derecho público", pues pertenece al complejo jurídico de la expropiación, institución exclusivamente de derecho público, segun quedó dicho en un parágrafo precedente (n. 1.293). No se trata, pues, de una acción de derecho comun, ni regulada por este. El derecho privado nada tiene que hacer al respecto. Finalmente, la acción de retrocesión, no obstante su carácter real, no trasunta técnicamente el ejercicio de una acción reivindicatoria, sino la impugnación a una expropiación donde la afectación del bien o cosa no se hizo al destino correspondiente, por lo que dicha expropiación resulta en contravención con la garantia de inviolabilidad de propiedad asegurada en la Constitución. La acción es "real" por la finalidad que persigue: reintegro de un bien o cosa" (Tratado de Derecho Administrativo, vol. IV, p. 382, n. 1.430). De igual sentido a orientação traçada no Novíssimo Digesto Italiano, onde se afirma que "per tale disciplina deve escludersi che il diritto alla retrocessione passa considerarsi un diritto alla risoluzione del precedente trasferimento coattivo, esso e stato definito un diritto legale di ricompera, ad rem (non in rem) (ob. cit., voce - espropriazione per pubblica utilità", vol. VI, p. 950). Recentemente o Supremo Tribunal Federal decidiu que "o expropriado pode pedir retrocessão, ou readquirir o domínio do bem expropriado, no caso de não lhe ter sido dado o destino que motivou a desapropriação" (RDA 130/229). No mesmo sentido o acórdão constante da "Rev. Trim. de Jur.", vol. 104/468-496, rel. Min. Soares Muñoz. 10 Transmissibilidade do direito. Não se cuida de direito personalíssimoAdmitida a existência da retrocessão no Direito brasileiro in specie, ou seja, havendo a possibilidade de reaquisição do imóvel, e rejeitando-se frontalmente, a solução dada pela jurisprudência de se admitir a indenização por perdas e danos, de vez que, a nosso ver, há errada interpretação do art. 35 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6), surge a questão também discutida se o direito à retrocessão é personalíssimo, ou é transmissível, causa mortis. Pela negativa manifestam-se Ebert Chamoun (ob. cit., p. 68), Eurico Sodré (ob. cit., p. 76), Hely Lopes Meirelles (ob. cit., p. 505) e Pontes de Miranda (ob. cit., p. 446). Em sentido oposto Hélio Moraes de Siqueira (ob. cit., p. 64) e Celso Antônio Bandeira de Mello (oh. cit., p. 210). A jurisprudência tem se manifestado favoravelmente à transmissão do direito de retrocessão (RTJ 23/169, 57 / 46 e 73/155). Inaplicável no Direito Público o art. 1.157 do CC (LGL\2002\400). Disciplina ele relações de particulares, devidamente ajustado ao art. 1.149 que, como se viu anteriormente, cuida, também, de manifestações volitivas. Já, a desapropriação implica na tomada compulsória do domínio dos particulares, em decorrência de ato imperativo (tal como por nós conceituado a fls. 29 do Ato Administrativo). A imperatividade implica em manifestação de poder, ou seja, na possibilidade que goza o Poder Público de interferir na esfera jurídica alheia, por força jurídica própria. Já nas relações particulares, estão estes no mesmo nível; quando intervém o Estado o relacionamento é vertical e não horizontal. Daí porque o referido dispositivo legal não tem aplicação ao tema em estudo. O TJSP já deixou decidido que "os sucessores do proprietário têm direito de ser indenizados, no caso de o expropriante do imóvel expropriado não se utilizar deste, e procurar aliená-lo a terceiros, sem mesmo oferecê-lo àqueles (RT 322/193). Rejeitando, apenas o direito de preferência, de vez que entendendo a retrocessão como espécie de direito real, aceita-se a argumentação da transmissibilidade da ação. No mesmo sentido a orientação do Supremo Tribunal Federal (RTJ 59/631). As ações personalíssimas são de interpretação estrita. Apenas quando a lei dispuser que não se transmite o direito causa mortis é que haverá impossibilidade jurídica da ação dos herdeiros ou sucessores a qualquer título. No caso ora analisado, verificando-se da inaplicabilidade do art. 1.157 do CC (LGL\2002\400), percebe-se que defluindo o direito à retrocessão da própria Constituição Federal, inarredável a conclusão que se cuida de direito transmissível. 11 Montante a ser pago pelo expropriado, pela reaquisição do imóvelResta indagar qual o critério para fixação do montante a ser pago pelo ex-proprietário quando do acolhimento da ação de retrocessão. Inicialmente, pode-se dizer que o expropriado deve devolver o montante apurado quando do recebimento do preço fixado pelo juiz ou havido mediante acordo lavrado em escritura pública. Inobstante, se o bem recebeu melhoras que tenham aumentado seu valor, parece-nos que devam elas ser levadas em conta, para efeito de apuração do montante do preço a ser devolvido ao expropriante. O valor a ser pago, pois, será o recebido à época, por parte do expropriado acrescido de melhoramentos eventualmente introduzidos no imóvel, caso deste se cuide. 12 Correção monetáriaHá autores que afirmam que a correção monetária não fará parte do valor a ser devolvido, "in principio", pois, embora haja previsão legal de seu pagamento quando da desapropriação, há razoável fundamento de que se o Poder Público não destinou o imóvel ou deu margem a que ele não fosse utilizado, por culpa sua, de seu próprio comportamento, deve suportar as consequências de sua atitude. A Corte Suprema de Justiça da Nação Argentina prontificou-se pelo descabimento da atualização monetária, deixando julgado que ''en efecto, obvio parece decir que el fundamento jurídico del instituto de la retrocesión es distinto ai de la expropiación, como que se origina por el hecho de no destinarse el bien expropiado al fin de utilidad publica previsto por la ley. Si esta finalidad no se cumple, el expropiante no puede pretender benefíciarse con el mayor valor adquirido por el inmueble y su derecho, como principio, se limita a recibir lo que pagó por él" (Fallos, t. 271, pp. 42 e ss.). Outro argumento parece-nos ponderável. É que, a se admitir a devolução com correção monetária poderia facilitar a intervenção do Estado no domínio econômico, de vez que poderia pretender investir na aquisição de imóveis, para restituí-los, posteriormente, com acréscimo de correção monetária, com o que desvirtuar-se-ia de suas finalidades precípuas. Parece-nos, entretanto, razoável que se apure o valor real do imóvel devidamente atualizado e se corrija, monetariamente, o valor da indenização paga, para que se mantenha a equivalência econômica e patrimonial das partes. Há decisão admitindo a correção monetária da quantia a ser paga pelo expropriado (RDP 11/274) proferida pelo Min. Jarbas Nobre, do TFR. O valor do imóvel serviria de teto para o índice da correção. 13 Rito processualO tipo de procedimento a ser adotado nas hipóteses de ação de retrocessão previsto na legislação processual. É o procedimento ordinário ou sumaríssimo, dependendo do valor da causa. Não há qualquer especialidade de rito, de vez que independe de depósito prévio. Não se aplica, aqui, o procedimento desapropriação, às avessas. Isto porque, no procedimento de desapropriação há um rito especial e pode o Poder Público imitir-se previamente na posse da coisa, desde que alegue urgência na tomada e efetue o depósito do valor arbitrado. Tal característica do processo de desapropriação não está presente no rito processual da ação de retrocessão. Demais disso, a ação depende de prévio acolhimento, com produção de prova do abandono do imóvel, ou sua não destinação ao fim anunciado no decreto. 14 Retrocessão de bens móveisA desapropriação alcança qualquer tipo de coisa. Não apenas os imóveis podem ser desapropriados. Isto porque o art. 2.0 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6) dispõe "mediante declaração de utilidade pública, todos os bens poderão ser desapropriados pela União, pelos Estados, Municípios, Distrito Federal e Territórios”. Como assinala Celso Antônio Bandeira de Mello "pode ser objeto de desapropriação, tudo aquilo que seja objeto de propriedade. Isto é, todo bem, imóvel ou móvel, corpóreo ou incorpóreo, pode ser desapropriado. Portanto, também se desapropriam direitos em geral. Contudo, não são desapropriáveis direitos personalíssimos, tais os de liberdade, o direito à honra, etc. Efetivamente, estes não se definem por um conteúdo patrimonial, antes se apresentam como verdadeiras projeções da personalidade do indivíduo ou consistem em expressões de um seu status jurídico, como o pátrio poder e a cidadania, por exemplo (ob. cit., p. 194). De igual teor a lição de Ebert Chamoun (ob. cit., 94). A lição do autor merece integral subscrição, por ser da mais absoluta juridicidade. A Constituição Federal assegura o direito de propriedade. A única limitação é a possibilidade de desapropriação, por parte do Poder Público. Mas, como a Constituição não limita a incidência da expropriação apenas sobre imóveis e a lei específica fala em "bens", entende-se que todo e qualquer direito pode ser desapropriado. Por consequência, qualquer bem pode ser passível de retrocessão (verbi gratia, os direitos autorais). 15 Retrocessão parcialCaso tenha havido desapropriação de um imóvel e parte dele não tenha aproveitada para a finalidade precípua declarada no decreto, surge a questão de se saber se o remanescente não utilizado pode ser objeto da retrocessão. Pelas mesmas razões expostas pelas quais se admitiu a existência da retrocessão no Direito brasileiro e cuidar-se de direito real, pelo qual o expropriado pode reaver posse e propriedade do próprio imóvel, admite-se a retrocessão parcial. 16 RenúnciaCaso o expropriado renuncie ao direito de retrocessão, nada terá a reclamar. Tratando-se, como se cuida, de direito patrimonial, é ele renunciável. Nada obriga a manter seu direito. Como salienta Ebert Chamoun, "a renúncia é plenamente eficaz. Uma vez que consta do instrumento de acordo dispositivo que exprima o desinteresse do ex-proprietário pelo destino que venha ulteriormente a ser dado ao bem e no qual se revele, claro e indiscutível, o seu propósito de renunciar ao direito de preferência à aquisição e ao direito de cobrar perdas e danos em face da infração do dever de oferecimento, o não atendimento das finalidades previstas no decreto desapropriatório, não terá quaisquer consequências patrimoniais, tornando-se absolutamente irrelevante sob o ponto de vista do direito privado" (ob. cit., p. 93). Embora não se adote a consequência apontada pelo autor. aceita-se o fundamento da possibilidade da renúncia. 17 Retrocessão na desapropriação por zonaNeste passo, acompanha-se o magistério de Celso Antônio Bandeira de Mello, segundo quem "é impossível cogitar de ação de retrocessão relativa a bens revendidos pelo Poder Público no caso de desapropriação por zona, quanto à área expropriada exatamente para esse fim, uma vez que, em tal caso não há transgressão alguma à finalidade pública em vista da qual foi realizada (ob. cit., p. 210). De igual teor a orientação de Ebert Chamoun (ob. cit., p. 96). E a posição é de fácil compreensão. O "interesse público", na hipótese, foi ditada exatamente para que se reserve a área para ulterior desenvolvimento da obra ou para revenda. Destina-se a absorver a extraordinária valorização que alcançará o local. De qualquer forma, estará o interesse público satisfeito. lnadmite-se, em consequência, a ação de retrocessão, quando a desapropriação se fundar em melhoria de determinada zona (art. 4.0 do Dec.-lei 3.365/41 (LGL\1941\6)). A propósito os pareceres de Vicente Ráo (RDP 7 /79), Castro Nunes (RDP 7 /94) e Brandão Cavalcanti (RDP 7 /102). 18 Referência jurisprudencialAlém da jurisprudência já referida no curso da expos1çao da matéria, convém transcrever alguns acórdãos do STF que cuidam do assunto. Negativa de vigência ao art. 1.150 do CC (LGL\2002\400). "Não vejo na decisão recorrida negativa de vigência do art. 1.150 do CC (LGL\2002\400). De conformidade com a melhor interpretação desse dispositivo, o expropriante não está obrigado a oferecer o imóvel ao expropriado, quando resolve devolvê-lo ao domínio privado, mediante venda ou abandono" (RTJ 83/97. Também o mesmo repertório 56/785 e 66/250. Possibilidade do exercício da ação. "Se se verifica a impossibilidade da utilização do bem, ou da execução da obra, então passa a ser possível o exercício do direito de retrocessão. Não é preciso esperar que o desapropriante aliene o bem desapropriado" (RTJ 80/150). Destinação diversa do bem. "Incabível a retrocessão ou ressarcimento se o bem expropriado tem destino diverso, mas de utilidade pública" (RTJ 74/95; No mesmo sentido o mesmo repertório 48/749 e RDA 127 /440). Pressupostos da retrocessão. "Retrocessão. Seus pressupostos; devolução do imóvel ao domínio privado, · quer pela alienação, quer pelo abandono por longo tempo, sem destinação de utilidade pública. Ausência desses pressupostos. Ação julgada improcedente" (RTJ 83/96). Fundamento do direito à retrocessão. "Constituição, art. 153, § 22CC (LGL\2002\400), art. 1 .150. Desapropriamento por utilidade pública. Reversão do bem desapropriado. O direito à requisição da coisa desapropriada tem o seu fundamento na referida norma constitucional e na citada regra civil, pois uma e outra exprimem um só princípio que se sobrepõe ao do art. 35 do Dec.-Lei 3.365/41 (LGL\1941\6), visto que o direito previsto neste último (reivindicação) não faz desaparecer aqueloutro" (RTJ 80/139). Estes alguns excertos jurisprudenciais de maior repercussão, já que enfrentaram matéria realmente controvertida dando-lhe solução fundamentada. Há inúmeros julgados sobre o tema que, no entanto, dispensam transcrição ou menção expressa, pois outra coisa não fazem que repetir os argumentos já manifestados. Como se cuida de matéria controvertida e a nível de repertório enciclopédico, o importante é a notícia sobre o tema, sem prejuízo de termos feito algumas colocações pessoais a respeito. Nem tivemos o intuito de esgotar o assunto, de vez que incabível num trabalho deste gênero.
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Mello, Celso Antônio Bandeira de. "Responsabilidade do funcionário por ação direta do lesado". Revista de Direito Administrativo e Infraestrutura - RDAI 4, n.º 13 (30 de mayo de 2020): 415–24. http://dx.doi.org/10.48143/rdai.13.cab.mello.

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Resumen
Todo sujeito de direito capaz é responsável pelos próprios atos. Assim, aquele que desatende as obrigações que contraiu ou os deveres a que estava legalmente adstrito sofrerá a consequente responsabilização. O Código Civil (LGL\2002\400) brasileiro, em seu ·art. 159, substancia este preceito, que não é apenas uma regra de direito Civil, mas de teoria geral do Direito, inobstante encartado em diploma normativo concernente, mais que tudo, às relações privadas. Reza o preceptivo em causa: “Aquele que por ação ou omissão voluntária, negligência ou imprudência, violar direito ou causar prejuízo a outrem, fica brigado a reparar o dano”. Outrossim, o art. 1.518 do mesmo Código estatui: “Os bens do responsável pela ofensa ou violação do direito de outrem ficam sujeitos à reparação do dano causado; e se tiver mais de um autor a ofensa, todos responderão solidariamente pela reparação”. Tal regramento exprime, do mesmo modo, um cânone genérico no que atina à responsabilidade patrimonial, comumente chamada de responsabilidade civil. 2. Nada há de estranhável em que estes ditames normativos, embora topograficamente alojados no Código Civil (LGL\2002\400), sejam havidos como princípios ou como regras que transcendem a restrita esfera desta província jurídica, para se qualificarem como disposições aplicáveis integralmente em distintos ramos do Direito. Com efeito, de um lado, inúmeras disposições residentes naquele diploma concernem ao vestíbulo dos vários segmentos do Direito, isto é, assistem no patamar comum aos diferentes ramos em que ele se espraia; de outro lado, no Código Civil (LGL\2002\400) há múltiplos artigos explícita e especificamente voltados para a regência de questões de direito público, notadamente de direito administrativo. Estas são observações · cediças e que já foram expendidas e profundadas por autores da máxima suposição. Sobre isto, o eminente Seabra Fagundes, em clássico sobre o tema, averbou: “Os princípios gerais expressos no Código Civil (LGL\2002\400) são também valiosos para o Direito Administrativo. O ordenamento sistemático e completo de preceitos gerais, traduzidos em linguagem sempre escorreita e as mais das vezes precisa, fazem tais preceitos de grande préstimo para a urdidura e o desate das relações entre Administração e administrado. Aliás, somente por circunstâncias de fundo histórico os princípios genéricos do direito escrito se situam nos textos do Direito Civil, pois como diz Ernesto Forsthoff, são eles, em essência, pertinentes. também, às relações disciplinadas Direito Administrativo”. De seguida, reportando-se às normas dispostas na Lei de Introdução e na Parte Geral, aduziu: “Tais normas, pelo cunho de generalidade, que as faz de e comum a vários setores do direito escrito, e não apenas ao direito civil, antes deveriam constituir a lei dos princípios gerais, abrangedora das relações jurídicas disciplinados por quaisquer dos ramos da legislação” (''Da Contribuição do Código Civil (LGL\2002\400) para o Direito Administrativo”, in RDA 68/6). Assim, o preceito segundo o qual fica obrigado a indenizar o agravado quem lhe ferir direito, causando dano deliberadamente, ou por negligência, imprudência ou imperícia, não é regra apenas de direito civil. É cânone da geral do Direito e por isso também se aplica no âmbito do direito administrativo. 3. Para que tão basilar princípio estivesse eludido na seara do direito administrativo seria necessário regra que explícita e incontrovertivelmente o negasse ou lhe modificasse a compostura. Donde, tirante a hipótese de disposição cujo teor seja inequívoco em afastar a responsabilidade do agente do dano ou que, de modo incontendível, interdite ao lesado proceder diretamente contra o indivíduo responsável pelo comportamento danoso, haver-se-á de concluir que os funcionários públicos respondem com o próprio patrimônio, perante o agravado, se lhe houverem causado prejuízo mediante conduta contrária ao Direito. Estas assertivas, por límpidas e confortadas em bases tão relevantes, hão de se reputar pacíficas, livres de questionamento. Aliás, na tradição do Direito, antes de se pôr princípio geral da responsabilidade do Estado, já era assente a responsabilidade do funcionário que houvesse agido mal, lesando o administrado. Ou seja: a pessoa estatal poderia escapar à responsabilização; não, porém, o agente direto do dano, aquela pessoa cuja conduta injurídica agravasse terceiro ao desempenhar funções públicas. Veja-se, a respeito, exemplificativamente, para .a Inglaterra, Maria Graeiriz (Responsabilidad del Estado, Eudeba, 1969, p. 123) e H. R. Wade (Diritto Amministrativo Inglese, Giuffre, 1969, p. 371); para os Estados Unidos da América do Norte, Frank Goodnow (Les Príncipes du Droit Administratif aux États-Unis, Giard et E. Breire, 1907, p. 454) e John Clarke Adams (El Derecho Administrativo Norteamericano, Eudeba, 1964, p. 84); para a Alemanha, Fritz Fleiner (lnstituciones de Derecho Administrativo, Ed. Labor, p. 222) e Ernst Forsthoff (Traité de Droit Administratif Allemand, Établissements E. Bruylant, 1969, pp. 463 e ss.); para a França, Francis Paul (Le Droit Administratif Français, Dalloz, 1968, pp. 178 e ss.) e Jean Rivero (Droit Administratif, Dalloz, 2.ª ed., 1962, pp. 236-237). 4. Por certo, a garantia de reparação do lesado através do patrimônio do funcionário causador do dano não dá ao administrado toda a proteção necessária acobertá-lo contra agravos que possam resultar da ação do Poder. Isto por uma tripla razão a seguir esclarecida. Em primeiro lugar, porque, assaz de vezes, o agente público não disporá de patrimônio suficiente para responder pelo montante do dano. O vulto dos prejuízos que a atuação estatal pode causar. em vários casos. excederá as possibilidades de suprimento comportadas pelo patrimônio do funcionário. Em segundo lugar, a responsabilidade do funcionário cifra-se às hipóteses em que este haja atuado com dolo ou culpa, seja esta por negligência, imprudência ou imperícia, implicando violação do Direito. Ora, nem sempre o gravame econômico lesivo aos direitos do administrado resultará de conduta estatal (comissiva ou omissiva) na qual se possa reconhecer, individualmente, um específico ou alguns específicos agentes, como causadores do evento lesivo. Com frequência estar-se-á perante situação em que mais não se poderá dizer senão que o serviço estatal, em si mesmo, falhou por haver procedido abaixo dos padrões que seria lícito dele esperar, disto resultando o dano sofrido. Vale dizer, o próprio serviço como um todo é que haverá tido, por negligência, imprudência ou imperícia, um desempenho insatisfatório, causador da lesão ao bem juridicamente protegido do sujeito agravado. Em casos que tais - e serão legião - o administrado ficaria a descoberto por não ser, obviamente, engajável a responsabilidade de algum ou alguns específicos funcionários. Demais disso, em uma terceira hipótese reproduzir-se-ia situação em que o administrado ficaria desvalido. É o caso de danos nos quais um bem juridicamente protegido é lesado pelo Estado, ainda que sem o intuito de fazê-lo, mediante comportamento lícito, cauto, diligente, irrepreensível. Pense-se em atos jurídicos ou em atos materiais da seguinte compostura: Fechamento do perímetro central da cidade a veículos automotores, determinado com base em lei e por razões de interesse público incontendível (salubridade pública, tranquilidade pública, ordem pública), e que acarreta, inevitavelmente, seríssimo gravame patrimonial aos proprietários de edifícios-garagem, edificados e licenciados, inclusive para a correspondente exploração econômica na área interditada à circulação dos citados veículos; nivelamento de rua que, pelas características físicas do local, resulta, de modo inexorável, em ficarem edificações marginais ao seu leito em nível mais elevado ou em nível inferior a ela, inobstante realizada a obra com todos os recursos e cautelas técnicas, causando, destarte, depreciação significativa aos prédios lindeiros afetados, além de acarretar insuperáveis incômodos a sua utilização. Situações deste jaez, como é claro a todas as luzes, demandam recomposição patrimonial do lesado, para que não seja ferido o preceito isonômico, exigente de igualitária repartição dos encargos públicos. B bem de ver que a simples responsabilidade do funcionário, cabível tão-só quando identificável conduta sua contrária ao Direito, por comportamento deliberado ou por negligência, imprudência ou imperícia, de nada serviria para enfrentar estas hipóteses, posto que não estariam em pauta as condições suscitadoras de seu engajamento. 5. A fim de que os administrados desfrutassem de proteção mais completa ante comportamentos danosos ocorridos no transcurso de atividade pública — e não a fim de proteger os funcionários contra demandas promovidos pelos lesados — é que se instaurou o princípio geral da responsabilidade do Estado. Ou seja: a difusão e acatamento, nos vários países, da tese da responsabilidade estatal objetivou e significa tão-só a ampliação das garantias de indenização em favor dos lesados. Nada traz consigo em favor do funcionário e muito menos em restrição ao administrado em seu direito de demandar contra quem lhe tenha causado dano. Em suma: a exposição de um patrimônio sempre solvente, como o é o do Estado, e bem assim a abertura do campo mais largo à responsabilização, nada tem a ver com qualquer propósito de colocar os funcionários públicos à salvo de ações contra eles intentáveis pelos agravados patrimonialmente em decorrência de atos contrários ao direito. Tanto isso é exato, tanto são estranhas as duas questões – responsabilidade do Estado e proteção ao funcionário contra ações intentáveis por terceiros – que os vários sistemas jurídicos, quando desejaram beneficiar os agentes públicos com este resguardo, fizeram-no explicitamente e de· maneira bem conhecida, antes mesmo de ser acolhida a tese da responsabilidade do Estado, o que demonstra a independência entre os dois tópicos. É notório que no passado existiu, em distintos países, uma chamada “garantia administrativa dos funcionários”. Por força dela, estes só poderiam ser acionados em decorrência de comportamentos vinculados a suas funções, se houvesse prévia concordância do Estado. Disposição deste teor, como é notório, existia na Constituição Francesa do ano VIII (art. 75) e prevaleceu até 1870, quando foi derrubada por um decreto-lei de 18 de setembro, época em que a ida Constituição não mais estava em vigor, mas o dispositivo sobrevivia com força de lei, nos termos da concepção francesa, segundo a qual normas Constitucionais compatíveis com a superveniente Constituição persistiam com vigor de lei ordinária (cf. ao respeito Francis Paul Benoit, Droit Administratif, Dalloz, 1968, pp. 718-719). Houve, igualmente, preceitos análogos na Alemanha, nas legislações da Prússia, da Baviera e de Baden e Hesse, como noticia Forsthoff. Tambéma Espanha conheceu regramento análogo e que haveria de perdurar até 1879 (cf. Eduardo Garcia de Enterría - Curso de Derecho Administrativo, Civitas, 2.ª ed., 1981, vol. II, p. 327). Não é difícil concluir que se a responsabilidade do Estado não veio para escudar o funcionário em face de demandas que os lesados almejassem propor contra eles mas, como é de todos sabido, para ampliar a proteção aos administrados, não faz qualquer sentido extrair de regra defensora dos direitos dos agravados a conclusão de que lhes é interdito proceder contra quem, violando o direito, foi o próprio agente do dano. 6. Isto posto, vejamos se ao lume do nosso Direito devem-se reputar absolvidas as regras dos arts. 159 e 1.518 do CC (LGL\2002\400), no que tange à relação entre o funcionário público e o administrado por ele lesado, em face das disposições sobre a responsabilidade estatal. Reafirma-se, neste passo, que as aludidas disposições do Código Civil (LGL\2002\400) são, em rigor de verdade, autênticas normas sagradoras de princípios da teoria geral do Direito. Antes do advento do Código Civil (LGL\2002\400) inexistia regra estabelecendo responsabilidade do Estado. Havia tão-só preceptivos estatuindo responsabilidade dos servidores do Estado por atos lesivos a terceiros. A Constituição de 1824, em seu art. 178, 29 e a Constituição de 1891, no art. 82, estabeleciam apenas a responsabilidade dos “empregados públicos” (na expressão da primeira delas) e dos funcionários públicos (na linguagem da segunda), “por abusos e omissões”, bem como os dos superiores que, por indulgência, não responsabilizassem os subalternos. É bem verdade que, nada obstante, entendia-se haver responsabilidade solidária do Estado, como anota Pimenta Bueno (Direito Público Brasileiro, Rio, 1850, §§ 602 e 603). 7. Foi o Código Civil (LGL\2002\400), em seu art. 15, que consagrou normativamente a responsabilidade do Estado, dispondo: “As pessoas jurídicas de direito público são civilmente responsáveis por atos dos seus representantes que nessa qualidade causem danos a terceiros, procedendo de modo contrário ao direito o faltando a dever prescrito por lei, salvo o direito regressivo contra os causadores do dano”. Posteriormente, a Constituição de 1934, no art. 171 e ade1937, no art. 158, em dispositivos idênticos, estatuíram: “Os funcionários públicos são responsáveis solidariamente com a Fazenda nacional, Estadual ou Municipal, por quaisquer prejuízos decorrentes de negligência, omissão ou abuso no exercício de seus cargos”. Note-se que vigorou, até então, a tese da responsabilidade subjetiva do Estado, ou seja, vinculada à ideia do dolo ou culpa. A partir da Constituição de 1946, por força de seu art. 194, ingressa em nosso sistema normativo a responsabilidade objetiva, pois, tal como ocorreria com os textos constitucionais ulteriores - de 1967 e de 1969, respectivamente em seus arts. 105 e 107 - deixou-se de fazer qualquer menção a “procedimento contrário ao direito” ou a “negligência”, “abuso”, etc. Contentaram-se os novos dispositivos em se referir a “danos que os seus funcionários nessa qualidade causem a terceiros” ou “causarem”, como consta da Carta de 1969 (dita Emenda 1 à “Constituição de 1967”). Em suma: ocorreu uma claríssima evolução. De início, só estava prevista a responsabilidade dos funcionários, tal como ocorria nos direitos alienígenas. Ao depois, aceitou-se a responsabilidade do Poder Público, em sua modalidade subjetiva. Finalmente, desde 1946, consagra-se — e no próprio texto Constitucional — a admissibilidade da responsabilidade objetiva. É evidente que o ciclo evolutivo teve em mira a ampliação do resguardo do administrado pois lhe veio proporcionar a busca de reparação econômica em casos que não seriam acobertáveis pela simples responsabilidade dos funcionários. Além disso, trouxe-lhe a garantia de um patrimônio sempre solvente. Esta evolução, insista-se, nunca almejou senão estes resultados. Não há, pois, como pretender atrelar a ela uma presumida intenção de colocar os funcionários numa redoma, tornando-os intangíveis pelos particulares lesados. 8. O atual texto impositivo do princípio geral da responsabilidade do Estado substancia-se no art. 107 da Carta do País. Estes são seus dizeres: “As pessoas jurídicas de direito público responderão pelos danos que seus funcionários, nessa qualidade, causarem a terceiros. Parágrafo único. Caberá ação regressiva contra o funcionário responsável, nos casos de culpa ou dolo”. Que se lê no sobredito regramento? Que estatui ele? Tão-só e unicamente que o Poder Público responderá pelos danos causados pelos funcionários, enquanto tais, e que ficam sujeitos à ação de regresso promovida pelo Estado, se agiram com dolo ou culpa. Outorga-se aí, ao particular lesado, um direito contra o Estado, o que evidentemente não significa que, por tal razão, se lhe esteja retirando o de acionar o funcionário. A atribuição de um benefício jurídico não significa subtração de outro direito, salvo quando com ele incompatível. Por isso, como bem observou o Prof. Oswaldo Aranha Bandeira de Mello, a vítima pode propor ação contra o Estado, contra o funcionário, à sua escolha, ou contra ambos solidariamente, sendo certo que se agir contra o funcionário deverá provar culpa ou dolo, para que prospere a demanda (Princípios Gerais de Direito Administrativo, Forense, vol. II, 1974, pp. 481 e 482). De outra parte, o parágrafo único do art. 107 outorga, ao Estado, direito de regresso contra o funcionário que agiu dolosa ou culposamente. Este preceito é protetor do interesse do Estado. Prevê forma de seu ressarcimento pela despesa que lhe haja resultado da condenação. Também nele nada há de proteção ao funcionário. A indicação da via pela qual o Poder Público vai se recompor não é indicação, nem mesmo implícita, de que a vítima não pode acionar o funcionário. 9. Por isso discordamos do entendimento de Hely Lopes Meirelles que extrai dos preceitos em causa vedação a que o lesado acione o agente público (Administrativo Brasileiro, Ed. RT, 10.ª ed. atualizada, 1984, p. 538). Não nos parece de boa técnica interpretativa atribuir a uma norma dicções que nela não se contêm ou ler nela o que ali não está escrito. Tal procedimento é sobremodo vitando quando implica erigir sobre dada regra uma regra de conteúdo diverso e estranho aos propósitos que engendraram a norma da qual se quer sacar outras consequências além das estatuídas. Daí havermos, de outra feita, averbado: “Entendemos que o art. 107 e seu parágrafo único não tem caráter defensivo do funcionário. A cabeça do artigo visa proteger o administrado, oferecendo-lhe um patrimônio sempre solvente e a possibilidade da responsabilidade objetiva em muitos casos. Daí não se segue que haja restringido sua possibilidade de proceder quem lhe causou dano. Sendo um dispositivo protetor do administrado dele extrair restrições ao lesado. A interpretação deve coincidir com o sentido para o qual caminha a norma, ao invés de sacar dela conclusões que caminham na direção inversa, benéfica apenas ao presumido autor do dano. A seu turno, o parágrafo único, que prevê o regresso do Estado contra o funcionário responsável, volta-se à proteção do patrimônio público. Daí, na cabeça do artigo e em seu parágrafo só há preceptivos volvidos à defesa do administrado e do Estado, não se podendo vislumbrar intenções salvaguardadoras do funcionário. A circunstância de haverem acautelado os interesses do primeiro e do segundo não autoriza concluir que acobertaram o agente público, limitando sua responsabilização ao caso de ação regressiva movida pelo Poder Público judicialmente condenado” (Ato administrativo e Direitos dos Administrados, Ed. RT, 1981, pp. 168-169). De resto, entendimento contrário ao que esposamos, sobre não trazer em seu abono qualquer interesse público que o justifique, acarreta, pelo contrário, consequência antinômica a ele. É que o Poder Público dificilmente moverá a ação regressiva, como, aliás, os fatos o comprovam de sobejo. Tirante casos de regresso contra motoristas de veículos oficiais — praticamente os únicos fustigados por esta via de retorno — não se vê o Estado regredir contra seus funcionários. Diversas razões concorrem para isto. De fora parte o sentimento de classe ou de solidariedade com o subalterno (já de si conducente a uma contenção estatal na matéria), assaz de vezes o funcionário causador do dano age incorretamente com respaldo do superior, quando não em conluio com ele ou, pelo menos, sob sua complacência. É lógico que este não tem interesse em estimular a ação regressiva que poria a nu sua responsabilidade conjunta. Demais disso, ao ser acionado, o Estado sistematicamente se defende — e é esta mesma sua natural defesa — alegando não ter existido a causalidade invocada e haver sido absolutamente regular a conduta increpada, por isenta de qualquer falha, imperfeição ou culpa. Diante disto, é evidente que, ao depois, em eventual ação de regresso, enfrentará situação profundamente constrangedora e carente de qualquer credibilidade, pois terá de desdizer-se às completas, de renegar tudo o que dantes disse e proclamar exatamente o oposto do que afincadamente alegara. A consequência é a impunidade do funcionário, seja porque depois de o Estado haver assentado uma dada posição na ação de responsabilidade fica impedido de mover a ação de regresso, seja porque, se o fizer, topará com o que havia previamente estabelecido e que agora milita contra si próprio e em prol do funcionário, convertendo-se em robusta defesa deste último, de tal sorte que Poder Público no pleito anterior prepara de antemão sua derrota na lide sucessiva. Estas são as razões pelas quais, tirante o caso dos humildes motoristas de veículos oficiais, praticamente funcionário algum é molestado com ação regressiva. Pode confiar que ficará impune, mesmo quando negligente. Não precisa coibir-se de abusos e até de atos dolosos lesivos aos administrados. O Estado pagará por ele. A solidariedade de classe ou o comprometimento dos superiores com os superiores inquinados de viciosos (quando menos por complacência), a ingratidão da posição do Estado na duplicidade de ações, pois nelas terá de adotar posturas antagônicas, garantem ao funcionário a não desmentida expectativa de escapar a ações regressivas. 10. Assim, sobre nada existir que justifique juridicamente a imunização do funcionário contra pleitos intentados pelos lesados, tudo concorre para admitir o cabimento de tais ações. Tanto razões de interesse público como razões de direito estrito falam em favor delas. Consoante inicialmente se disse, para que houvesse elusão da regra geral de direito que impõe a responsabilidade direta daquele que, violando a ordem jurídica, causou dano a outrem, seria preciso que existisse norma absolutória suprimindo sua positividade de modo claro e inequívoco. Conforme visto, nada há neste sentido. Daí que o Supremo Tribunal Federal, no RE 90.071, publicado na RDA 142/93, de out.-nov./1980, frisou com hialina clareza esta conclusão, assim sintetizada na ementa do Acórdão: “O fato da Constituição prever direito regressivo contra o funcionário responsável pelo dano não impede que este último seja acionado conjuntamente com a pessoa jurídica de direito público, configurando-se típico litisconsórcio facultativo”. O Relator, Min. Cunha Peixoto, averbou com absoluta precisão: “E a interpretação do dispositivo constitucional, no sentido de permitir, facultativamente, admissibilidade da ação também contra o funcionário, autor do dano, sobre não acarretar nenhum prejuízo, quer à administração, seja ao funcionário, mais se coaduna com os princípios que disciplinam a matéria. Isto porque a administração, sobre não poder nunca isentar de responsabilidade a seus servidores, vez que não possui disponibilidade sobre o patrimônio público, não se prejudica com a integração do funcionário na lide, já que a confissão dos fatos alegados pelo autor, por parte do funcionário, afetaria sua defesa, e não da administração, cuja responsabilidade se baseia na teoria do risco administrativo. Ao funcionário interessa intervir na ação, não só para assegurar o justo valor da indenização, como também para evitar as despesas de dois processos: o mviido contra a administração e a defesa contra ele. A letra e o espírito do art. 107, que reproduz o art. 194 da Constituição de 1946 e art. 105 de 1967, permitem a participação no processo, do funcionário que o Poder Público, executado por ato de seu representante, lesivo a terceiro, tem direito de exigir, diante do princípio de regressividade, do autor do dano, aquilo que pagou ao prejudicado”. É de ressaltar igualmente a concisa e exata fundamentação do voto do Min. Décio Miranda: “Sr. Presidente, o art. 107, e respectivo parágrafo único, da Constituição atual não revogaram o art. 159 do Código Civil (LGL\2002\400). Estes dispositivos, aliás, já vêm das Constituições anteriores, afirmam a responsabilidade objetiva do Estado, mas sem modificar em nada a responsabilidade em razão da culpa, que se possa increpar ao agente do Estado. Estou de acordo com o Relator, conhecendo o recurso e lhe dando provimento”. Isto posto, procede concluir que o sujeito lesado por conduta de funcionário público negligente, imprudente, imperito ou doloso em sua atuação, pode ser acionado pela vítima, que agirá apenas contra ele ou contra ele e o Estado, solidariamente, em litisconsórcio, a menos que deseje acionar tão-só o Estado.
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"Diritto italiano. Soggiorno". DIRITTO, IMMIGRAZIONE E CITTADINANZA, n.º 2 (septiembre de 2011): 230–42. http://dx.doi.org/10.3280/diri2011-002017.

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1. Consiglio di Stato Ad. Plen. 10.5.2011 n. 7 - regolarizzazione ex art. 1 ter l. 102/2009 - pregressa condanna ex art. 14, co. 5 ter TU n. 286/98 - non ostativitŕ della causa - contrasto con gli artt. 15 e 16 della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) - normativa europea direttamente applicabile - decisione della Corte di Giustizia del 28.4.2011 causa C-61/11 PPU El Dridi - non applicazione della normativa in contrasto da parte del giudice nazionale; abolitio criminis - retroattivitŕ ex art. 2 c.p. - effetti anche sui provvedimenti amministrativi - rapporto giuridici non definitivi - inapplicabilitŕ del principio tempus regit actum 2. Tribunale amministrativo regionale Emilia Romagna - 23.2.2010 n. 1339 - permesso di soggiorno - straniero soggiornante in Italia da 40 anni - attuale disagio sociale - persona sostenuta dai Servizi sociali - diniego di rinnovo del titolo per insufficienza reddituale - mancata valutazione del periodo di tempo trascorso, dei legami familiari e sociali - illegittimitŕ del diniego 3. Tribunale amministrativo regionale Lazio 3.11.2010 n. 33120 - permesso di soggiorno - procedimento per il suo rilascio - superamento del termine di conclusione del procedimento - silenzio della PA - illegittimitŕ - ordine giudiziale alla questura di provvedere; ritardo - risarcimento del danno - mancata allegazione probatoria - rigetto per genericitŕ della domanda 4. Tribunale amministrativo regionale Lombardia 1.2.2011 n. 325 - regolarizzazione - decorso del termine per la definizione del procedimento - silenzio della PA - ricorso avverso il silenzio - accoglimento per inutile decorso del termine; ostativitŕ delle condanne in capo al datore di lavoro - insussistenza; interesse giuridico anche del lavoratore all'informazione sull'esito del procedimento; ricorso avverso il silenzio - contestuale richiesta di risarcimento dei danni - necessitŕ di mutamento del rito processuale ex art. 117, co. 6 codice processo amministrativo 5. Tribunale amministrativo regionale Friuli Venezia Giulia 24.2.2011 n. 100 - regolarizzazione - ostativitŕ delle condanne ex artt. 380 e 381 c.p.c. - automatismo preclusivo - impossibilitŕ di valutare la lievitŕ o la gravitŕ del fattoreato e/o l'allarme sociale - sospetta illegittimitŕ costituzionale della norma per violazione dei principi di ragionevolezza, paritŕ di trattamento e adeguatezza - rinvio alla Corte costituzionaleRASSEGNA DI GIURISPRUDENZA6. Tribunale amministrativo regionale Emilia Romagna 25.5.2010 n. 211 - decreto flussi - nulla osta negato per asserita insufficienza reddituale del datore di lavoro - mancata valutazione del reddito attuale - illegittimitŕ; criteri di verifica della capacitŕ reddituale del datore di lavoro predeterminati dalla D.P.L. - procedimento di diniego di nulla osta - comunicazione preavviso di rigetto ex art. 10 bis l. 241/90 e s.m. - obbligo della PA di tenere conto dell'attivitŕ Partecipativa 7. Tribunale amministrativo regionale della Campania 19.1.2011 n. 362 - permesso CE per soggiornanti di lungo periodo - diniego per pregresse condanne ritenute automaticamente ostative - mancata valutazione della effettiva ed attuale pericolositŕ sociale e dei legami familiari - violazione della direttiva 2003/109/CE, dell'art. 8 CEDU e dell'art. 9 TU n. 286/98 - illegittimitŕ 8. Tribunale amministrativo regionale Sardegna 17.2.2011 n. 83 - permesso di soggiorno - diniego di rinnovo - mancata valutazione delle ragioni della mancata stipula del contratto di soggiorno con il richiedente la regolarizzazione - illegittimitŕ - omessa valutazione del principio che vieta di collegare la perdita del titolo di soggiorno alla perdita del lavoro
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Guacci, Carmencita. "Le impugnazioni incidentali nel processo amministrativo italiano". Revista de Derecho de la UNED (RDUNED), n.º 12 (1 de enero de 2013). http://dx.doi.org/10.5944/rduned.12.2013.11698.

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L’istituto dell’impugnazione incidentale costituisce applicazione del principio di concentrazione delle impugnazioni. L’art. 96 c.p.a. disciplina le impugnazioni incidentali, ammettendole per l’appello, per la revocazione, per l’opposizione di terzo e, con qualche particolarità, per il ricorso per cassazione. L’impugnazione va proposta in forma incidentale, a pena di decadenza, dai destinatari della notifica della sentenza e dell’atto di integrazione del contraddittorio. Il rapporto di condizionalità-dipendenza, fra impugnazione principale e impugnazione incidentale, sussiste sia nel caso di impugnazione incidentale propria, sia nel caso di impugnazione incidentale tardiva. L’esigenza di applicare in maniera rigorosa il principio di concentrazione delle impugnazioni ha indotto il legislatore a sancire l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale anche avverso capi autonomi della sentenza.The article number 96 of the code of civil procedure governs the incidental objections, accepting them to the judicial review, the new trial, the examination pro interesse suo, and, in certain events, the petition to the Highest Court. The appeal has to be proposed by the service of the process adjudication and cross-examination receivers under the vest of an incidental form, otherwise it will run the risk of lapse. The relationship of conditioning-dependence between the main and the incidental appeals can be considered either in the case of a proper than of an untimely incidental appeal. The need to strictly apply the principle of the appeals concentration has oriented the legislator to decree the receivability of the incidental appeal also in case of autonomous judgement charges.
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Viayna, Marc Teixidor. "L’assetto procedurale della recente modifica delle “Normae de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis”: esegesi e suggestioni". Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 24 de marzo de 2022. http://dx.doi.org/10.54103/1971-8543/17592.

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SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari - 2. Rimane ancora una preferenza (seppure sfumata) per il processo giudiziario? - 3. Imposizione di misure cautelari - 4. Requisiti per lo svolgimento di determinate mansioni - 5. Impugnabilità delle decisioni in materia di cause incidentali (scomparsa del vetus art. 25 NDR) - 6. Ancora una volta la questione della ‘calamita processuale’ - 7. Una ‘potestas sanandi’ ampliata a norma dell’art. 11 NDR? - 8. Il quadro dei mezzi d’impugnazione contro la sentenza - 9. Una questione particolare sull’appello: può sostenersi la legittimazione attiva del Promotore di Giustizia a quo per l’interposizione dell’appello? - 10. La regolamentazione del procedimento penale amministrativo - 11. Il regime di contestazione delle decisioni penali amministrative: alcuni guadagni e alcune incertezze - 12. Ampliamento della facoltà di deroga alla prescrizione? - 13. La previsione del deferimento al Romano Pontefice per la dimissione dello stato clericale assieme alla dispensa del celibato (art. 26 NDR) e il curioso diritto dell’imputato di richiedere la dispensa ab oneribus (art. 27 NDR) - 14. Conclusioni. Procedural aspects of the recent reform of the “Normae de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis”: an interpretation and some suggestions ABSTRACT: On December 8, 2021, a new modification of the "Normae de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis" came into force. The legal modification has affected both the substantive and the procedural part of these norms. This article examines some of the most significant aspects of this reform from a procedural-canonical perspective and suggests some possible adjustments and future lines of reflection.
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Quintas, Ricardo. "direito processual na Gortina do século V a.C." Dike - Rivista di Storia del Diritto Greco ed Ellenistico 24 (2 de septiembre de 2022). http://dx.doi.org/10.54103/1128-8221/18638.

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In questo lavoro vengono analizzati i poteri del giudice in materia di accertamento dei fatti e di individuazione delle norme applicabili al caso nella Gortina del V secolo a.C. Nel codice di Gortina (IC IV 72) si distinguono due modalità di giudizio: in base alla norma contenuta in col. XI 26-31 il giudice decide o in base a prove legali (δικάδδεν) o dopo aver prestato giuramento (όμνύντα κρίνεν). Alcuni autori ritengono che in quest'ultimo caso il giudice potesse disporre l’assunzione d’ufficio di mezzi di prova per decidere la causa. Altri lo escludono categoricamente. Mi pare corretto quest'ultimo modo di pensare, dato che δικάδδεν e όμνύντα κρίνεν prescrivono modalità di giudizio relative alla fase finale del processo. Per quanto riguarda in particolare le norme che disciplinano il caso concreto, il dikastas gortinio deve stabilire la legge applicabile senza basarsi solo sulle allegazioni delle parti riguardo al contenuto sostanziale della legge. Per quanto riguarda la questione di fatto, il giudice aveva un ruolo passivo nell’accertamento dei fatti e poneva a fondamento della decisione esclusivamente le prove proposte dalle parti. Tuttavia, l’utilizzazione della conoscenza personale dei fatti da parte del dikastas gortinio non può essere completamente esclusa. In ogni caso il giudice che avesse conoscenza privata dei fatti controversi non sarebbe stato imparziale; di conseguenza, avrebbe dovuto essere chiamato solo come testimone, cosa che probabilmente non succedeva a Gortina.
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