Dissertations / Theses on the topic 'SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE UMANISTICHE'

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1

Grion, Anna. "Martiani Capellae De Nuptiis Philosopiae et Mercurii liber VII. Introduzione, traduzione e commento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/9141.

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Abstract:
2011/2012
La tesi verte sul settimo libro del De Nuptiis Philologiae et Mercurii del cartaginese Marziano Capella, dedicato all'aritmetica. Il lavoro presenta il testo latino, stabilito sulla base delle edizioni critiche esistenti, la traduzione e puntuali note di commento di tipo filologico e contenutistico. L'introduzione fornisce un inquadramento del libro all'interno dell'opera e presenta le fonti e i caratteri dell'Aritmetica di Marziano.
XXV Ciclo
1984
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2

Visentini, Sara. "Problemi di trasmissione e ricezione della letteratura greca nei 'papiri scolastici' di età ellenistica e romana." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10008.

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Abstract:
2012/2013
Questo lavoro si concentra sull’analisi dei papiri di età ellenistica e romana nei quali ho individuato ‘libri di scuola’, che contengono passi di letteratura greca e che sono riconducibili all’istruzione superiore. I ritrovamenti papiracei e i più recenti contributi nei congressi di papirologia (Cassino nel 1996 e nel 2004, Salamanca nel 2008) dimostrano come nella comunità scientifica il tema dell’istruzione sia sempre vivo. Gli studi di Guglielmo Cavallo sulla readership, gli apporti di Lucio Del Corso sulle pratiche didattiche antiche e gli studi sulla scuola condotti da Raffaella Cribiore hanno avuto il merito di provocare nuovi spunti di riflessione su temi di grande interesse per la ricostruzione della cultura dei milieux di livello medio-alto nell’Egitto greco e romano. Come testimoniato dai papiri, l’aumento dell’alfabetizzazione e del commercio librario in epoca romana nelle aree urbane, ma non solo, provano che qualche forma di letteratura veniva diffusa a scuola e circolava anche al di fuori di essa. Lo studio del testi di scuola di livello superiore offre un contributo considerevole alla nostra conoscenza sul pubblico dei lettori e dei redattori di questi sussidi per lo studio. Il dossier dei ‘libri di scuola’ raccoglie i frammenti che contengono differenti tipologie di passi letterari più o meno brevi. La raccolta si compone di 158 papiri.
XXVI Ciclo
1972
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3

Montagner, Emanuele. "Il culto di Apollo Carneo." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3496.

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Abstract:
2008/2009
L'importanza e l'interesse dell’argomento di questa tesi di dottorato discendono dalla centralità che il culto di Apollo Carneo aveva nell'ambito della religione e della società spartana, esemplificata dal modo in cui la festività ad esso connessa poteva incidere sull’andamento di alcuni eventi bellici fondamentali nella storia greca. Il culto di Apollo Carneo, infatti, era diffuso nella maggior parte delle poleis greche doriche ed era particolarmente sentito a Sparta. Esso comportava l’astenersi dalle guerre per tutta la durata della festa. Si possono individuare le conseguenze di tale divieto in alcuni passi di Erodoto e di Tucidide: gli Spartani non giunsero in aiuto degli Ateniesi nella battaglia di Maratona perché dovevano attendere la fine delle celebrazioni delle Carnee prima di partire (Hdt. VI 106,3); gli Spartani inviarono alle Termopili un piccolo contingente agli ordini di Leonida proprio perché in quel periodo si svolgevano le Carnee e non poteva essere inviato tutto l’esercito (Hdt. VII 206); nel corso della guerra del Peloponneso gli Spartani interrompevano l’attività bellica durante la celebrazione delle Carnee, mentre gli Argivi cercarono, con un artificio nel computo dei giorni, di rimandare l’inizio del mese Carneo, mese sacro ai Dori secondo Tucidide, per poter concludere un’incursione nel territorio di Epidauro (Thuc. V 54; V 75; V 76,1). Da questi esempi si evince chiaramente come lo studio del culto di Apollo Carneo non possa essere considerato come un mero studio di erudizione sulle peculiarità della religione greca, ma investa invece gli aspetti fondamentali della società spartana (oltre che della colonia di Thera, della sub-colonia di Cirene e delle altre città interessate dal culto), al punto che numerosi studiosi si sono cimentati nell’interpretazione del significato delle Carnee. Adler, però, conclude la voce Karneios della Real Encyclopedie der Classischen Altertumswissenschaft in modo piuttosto sconsolato: “Jedenfalls liegt die Ausbreitungsgeschichte des Kultes nach dem Erscheinen des neuen Materials mehr im Dunkel als vorher”. In seguito sono stati pubblicati numerosi studi importanti ed illuminanti, ma il quadro complessivo della festa rimane ancora incerto e contraddittorio. Il presente progetto di ricerca, pertanto, intende sì offrire una raccolta completa delle testimonianze sul culto di Apollo Carneo, comprese le più recenti acquisizioni epigrafiche, numismatiche ed archeologiche, ma intende soprattutto trattare l’argomento da un punto di vista diverso. L’impostazione sottesa alla tesi, infatti, non prevede l’utilizzo indistinto di tutte le testimonianze, di qualsiasi periodo, per tracciare un quadro generale ed onnicomprensivo del culto, valido per tutte le epoche, bensì contempla un approccio diacronico che consenta di riconoscere gli influssi e i cambiamenti che di volta in volta il contesto politico, sociale e culturale ha imposto. Il tentativo, insomma, è di tracciare un quadro dell’evoluzione storica di questa festività, adottando, ove possibile, un criterio ‘stratigrafico’ nell’analisi dei testi sulle Carnee. Il primo capitolo comprende una rassegna delle numerose interpretazioni del culto: esse considerano Apollo Carneo un’originaria divinità della vendemmia oppure un dio-ariete, legato ad una festa di pastori; pongono un più marcato accento sui riti di purificazione ed espiazione e sul collegamento con la caccia e con la preparazione per la guerra o sottolineano la prevalenza del carattere iniziatico della festa. Per la maggior parte degli studiosi nella festa si può individuare uno strato più antico, che riguarda il culto della natura per pastori e contadini, e uno strato più recente, in cui prevale l’aspetto militare, introdotto dai Dori. Le posizioni emerse negli ultimi anni tendono a valorizzare maggiormente l’aspetto militare del culto, il legame con la migrazione e la conquista dorica. Nel secondo capitolo le tradizioni sulle origini delle Carnee sono catalogate secondo due criteri: quello cronologico e quello tematico. Nella prima parte sono analizzate in ordine cronologico tutte le fonti letterarie che si riferiscono al mito eziologico delle Carnee. La testimonianza più antica risale al VII secolo a.C., ad Alcmane, a cui lo scolio 83a all’Idillio V di Teocrito attribuisce un frammento in cui viene citato Karnos, mentre gli autori più tardi sono Nonno ed Esichio. Il dato più significativo è costituito proprio dall’ampio arco cronologico (si va dal VII secolo a.C. al V-VI d.C.) e dall’estrema varietà delle informazioni desumibili dalle fonti: in taluni casi risulta difficile combinare in un unico contesto festivo e cultuale tutti i dati a nostra disposizione. Si è deciso, perciò, di adottare nella prima parte del secondo capitolo un criterio ‘stratigrafico’, ovvero un approccio diacronico che consenta di riconoscere gli influssi del contesto politico, sociale e culturale sull’evoluzione storica di questa festività. Tale modo di accostarsi al problema delle fonti, inoltre, ben si accorda con l’immagine, ormai unanimemente accettata negli studi specialistici, di una Sparta che muta nel corso del tempo e non rimane sempre uguale a se stessa. La seconda parte del capitolo, invece, prende in considerazione le medesime fonti seguendo un criterio tematico, in modo da definire chiaramente i tre nuclei tematici intorno ai quali raggruppare le testimonianze. Il primo spiega l’origine del culto di Apollo Carneo richiamandosi all’ambito della spedizione di Troia (Alcmane, Demetrio di Scepsi, Pausania e lo scolio a Teocrito V 83 d); il secondo si rifà al cosiddetto ritorno degli Eraclidi (Teopompo, Conone, Pseudo-Apollodoro, Pausania, scoli a Teocrito V 83c-d e scoli a Callimaco, Inno ad Apollo 71); il terzo fa discendere Karnos da Zeus ed Europa (Prassilla, Pausania ed Esichio). Il terzo capitolo, sulle manifestazioni locali del culto, costituisce il nucleo centrale della tesi. Nella prima sezione vengono trattati gli aspetti del culto per i quali non si può individuare una provenienza locale ben definita: l’iconografia e la collocazione della festa nel calendario. Nel paragrafo sull’iconografia viene evidenziato il legame con il culto del Carneo di alcune erme laconiche che raffigurano un ariete e di una stele alla cui sommità è scolpito in bassorilievo un paio di corna di ariete. Allo stesso tempo, però, viene messa in dubbio la possibilità che il tipo monetale che ritrae una testa giovanile con corna e, talvolta, orecchie di ariete rappresenti Apollo Carneo. Tali monete provengono da numerosi centri della madrepatria e delle colonie greche, tra i quali – ciò che più conta ai fini dell’interpretazione – molte località non doriche (ad esempio Metaponto, Tenos, Aphytis, ecc.). Tra le altre identificazioni proposte dagli studiosi, la più plausibile sembra essere quella con Zeus Ammone. La parte più ponderosa del terzo capitolo riguarda l’analisi delle manifestazioni del culto a Sparta, Tera, Cirene e Cnido, da cui proviene una quantità di dati sufficiente ad analizzare con una certa sistematicità le testimonianze relative al Carneo. In ogni capitolo vengono esaminati l’eventuale localizzazione topografica dei santuari di Apollo Carneo, le attestazioni di agoni (musicali e/o atletici) all’interno delle Carnee, i riti connessi al culto, l’esistenza di sacerdozi del Carneo. Per molti aspetti la scarsità e la natura eterogenea della documentazione, sia tra una città e l’altra sia all’interno di una stessa città, rendono difficile proporre un’interpretazione complessiva del culto. L’esempio di Cirene è emblematico: le fonti letterarie attestano con certezza l’esistenza e l’importanza del culto di Apollo Carneo, soprattutto in relazione alla fondazione della città, mentre la documentazione archeologica, che pure è singolarmente abbondante per Cirene, non ci consente di localizzare gli eventuali santuari del dio all’interno della città. Il quarto capitolo raccoglie le altre testimonianze del culto che ne attestano la diffusione in ambito dorico. Le località per le quali possediamo una documentazione sufficientemente consistente sono Cos, Lindo e Camiro, Messene e Andania. In conclusione, se sembra difficile proporre un’interpretazione totalizzante, che colleghi tutti gli elementi del culto in un sistema “où tout se tient”, si possono, però, individuare alcuni caratteri comuni alle diverse manifestazioni del culto. Innanzitutto le associazioni del Carneo con determinate divinità (Era, Ilizia, Artemide, i Dioscuri) connesse all’educazione dei giovani e il rito della staphylodromia fanno intravedere un ruolo del dio nella formazione e nell’inserimento dei giovani tra i cittadini a pieno titolo, ma non, a mio parere, un inquadramento strutturale del culto nel sistema iniziatico spartano. In secondo luogo il culto e la festa avevano una forte caratterizzazione ‘politica’, in cui tutti gli elementi costitutivi dell’identità e dell’ideologia del gruppo – soprattutto, da un certo momento in poi, l’elemento dorico – erano enfatizzati.
XXII Ciclo
1971
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4

Viano, Maurizio. "La traduzione letteraria sumerica negli archivi siro-anatolici durante il Tardo Bronzo." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3495.

Full text
Abstract:
2008/2009
Il lavoro di tesi ha come oggetto lo studio della documentazione a carattere letterario in lingua sumerica ritrovata negli archivi delle città di Hattusa, Emar ed Ugarit durante il periodo compreso tra il XVI e il XII secolo a. C. L’obiettivo della ricerca è quello di capire le relazioni della documentazione siro-anatolica esistenti da una parte con la produzione letteraria paleo-babilonese e dall’altra con quella coeva medio-babilonese al fine di comprendere la tradizione dei testi e i percorsi attraverso i quali queste opere giunsero in Siria ed Anatolia.
XXII Ciclo
1980
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5

D'Amelio, Diego. "Ritratto di un'élite dirigente. I democristiani di Trieste 1949-1966." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/30670.

Full text
Abstract:
2009/2010
Questa tesi di dottorato si pone l’obiettivo di ricostruire la vicenda e il profilo del ceto dirigente politico-amministrativo espresso dalla Democrazia cristiana di Trieste, dal dopoguerra alla metà degli anni Sessanta. L’élite democristiana viene qui assunta come caso di studio: l’attenzione alla dimensione locale punta a contribuire, più generalmente, all’analisi storiografica rivolta negli ultimi anni alle classi dirigenti repubblicane; al ruolo dei partiti nella transizione tra fascismo e democrazia; al funzionamento dei meccanismi di rappresentanza e di integrazione fra centro e periferia. La tesi presenta linee interpretative e spunti metodologici innovativi, resi possibili da un approccio interdisciplinare che unisce storia e scienze sociali (statistica e sociologia). Il testo è diviso in due sezioni: la prima ripercorre la parabola della DC e del movimento cattolico politico di Trieste, la fase di formazione dei suoi protagonisti, le ragioni del consenso e il progetto di fondo perseguito. La seconda parte definisce in termini sociologici il profilo dell’élite – età, provenienza, studi e professione – considerando nel contempo estrazione sociale, preparazione, canali di reclutamento, fattori di legittimazione, risultati elettorali, schieramenti correntizi, ruolo degli istriani (insieme bacino di consenso e serbatoio di classe dirigente), processi di occupazione del «potere», ricambio politico-generazionale e sviluppo delle carriere. Informazioni dettagliate sono state raccolte su un campione di circa 200 persone, ovvero su coloro i quali diedero forma alla classe dirigente cattolica nell’arco cronologico prescelto. Questi elementi ricoprirono ruoli decisionali – con gradi di responsabilità diversi – nello scudo crociato, nelle realtà elettive e in quelle di nomina politica: la ricerca ha permesso di ricostruirne fisionomia socio-anagrafica, presenze negli enti locali e negli organi di partito, schieramento correntizio e reticoli collaterali. Sui detentori degli incarichi più rilevanti, circa 70 persone, è stata inoltre avviata una più approfondita analisi delle biografie e delle carriere. Le fonti utilizzate sono numerose: archivio provinciale del partito (recentemente messo a disposizione dall’Istituto Sturzo e mai utilizzato sistematicamente prima d’ora), stampa, anagrafe, archivio comunale e diocesano, fondi personali, memorialistica e interviste. La codifica e l’esame dei dati ha consentito di realizzare a supporto dell’esposizione circa 20 tabelle e oltre 70 biografie, contenute in due appendici poste alla fine del volume. Il testo mette in luce il quadro d’insieme del ceto democristiano: la composizione degli organismi elettivi e di partito, le caratteristiche individuali e di gruppo dell’élite, il rapporto tra militanza e ruoli pubblici, il profilo delle correnti e le proporzioni della geografia politica interna, il seguito elettorale, le forme di collateralismo (Azione cattolica, ACLI, sindacato e associazionismo istriano), le biografie e il processo di costruzione della nuova leadership. Particolare attenzione è stata prestata agli aspetti generazionali e correntizi: ciò ha consentito di mettere in connessione età, formazione e progetto politico; valutare il peso specifico delle singole correnti nel partito e negli enti; analizzare i criteri di suddivisione dei vari incarichi e i processi di ricollocamento prodotti dalla nascita di nuove tendenze. Si tratta di un approccio in parte inedito, generalmente non utilizzato in lavori simili a questo, ma allo stesso tempo fondamentale per fornire nuove chiavi di lettura alla storia politica e per avvicinarsi con rigore a un’organizzazione strutturata come la Democrazia cristiana. Il lavoro ha cercato infine, quando possibile, di assumere una prospettiva comparativa, per paragonare il contesto locale ai meccanismi funzionanti a livello nazionale e in altre aree del paese, individuando così uniformità e sfasamenti generazionali e politici. Il metodo utilizzato in questa sede è ormai affinato e potrebbe essere applicato alla DC triestina degli anni successivi, ai diversi partiti del teatro giuliano, a gruppi dirigenti cattolici di altre città oppure al livello nazionale dello scudo crociato e delle istituzioni, su cui le informazioni sono peraltro ben più abbondanti. Il sistema messo a punto permetterebbe infine di essere utilizzato – con gli adattamenti del caso – anche sulle più recenti generazioni politiche. I vantaggi che questi sviluppi promettono per un approccio comparativo sono evidenti. In conclusione, la tesi ricostruisce le vicende e le caratteristiche di un’élite periferica, affermatasi in assenza di una tradizione politico-culturale precedentemente radicata e capace di governare Trieste dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta. Il testo prende in esame la formazione, l’affermazione, i progetti, le scelte e le linee politiche di due differenti generazioni di cattolici, influenzate inevitabilmente dalla peculiare situazione del confine orientale e dalla necessità di ripensare la dimensione del confine, dopo la stagione liberal-nazionale e il fascismo. In un primo momento la Democrazia cristiana si assicurò il consenso, assumendo la responsabilità della «difesa dell’italianità» e dell’anticomunismo, in un territorio sottratto alla sovranità dello Stato, sottoposto ad amministrazione anglo-americana e oggetto di una dura contesa ideologica e statuale. Dopo il 1954 una nuova leva sostituì il ceto dirigente degasperiano, impegnandosi nel superamento dell’emergenza e nella «normalizzazione» della politica, dell’amministrazione, dell’economia e dei rapporti fra italiani e sloveni, nell’ambito del centro-sinistra. La DC giuliana propose insomma una strategia in due tempi, riassunta dalla storiografia con la formula di «cattolicesimo di frontiera»: esso fu impostato nel dopoguerra, venne radicalmente aggiornato dopo il ritorno all’Italia e si concluse alla fine degli anni Settanta, davanti alle reazioni suscitate dal trattato di Osimo. Tale periodo corrispose a importanti evoluzioni del quadro nazionale, con il superamento del centrismo e la maturazione dei fermenti di rinnovamento all’interno del mondo cattolico italiano. L’analisi dei nodi descritti è accompagnata dall’indagine sulle concrete ricadute della svolta politica e generazionale, avvenuta nel 1957, prima nel partito e di riflesso nell’ambito elettivo. L’ascesa della corrente di Iniziativa democratica e poi dell’area «doro-morotea» produssero infatti significative modifiche della linea e del personale politico, che corrisposero peraltro alla costruzione dell’egemonia democristiana nello spazio pubblico, grazie al definitivo controllo degli enti locali, della Regione autonoma a Statuto speciale e all’elezione dei primi deputati nel 1958. L’esame dei meccanismi di occupazione dei principali gangli dell’amministrazione è supportata dai dati statistici raccolti, i quali ben evidenziano le caratteristiche socio-anagrafiche, le reti di relazione e le dinamiche di potere che contraddistinsero il ceto politico democristiano di Trieste.
Introduzione Il panorama 9 Il dialogo fra storia e scienze sociali 14 Costruire le basi per una biografia collettiva 17 Le motivazioni di una proposta metodologica 22 Ringraziamenti 29 Sezione 1 Difesa nazionale e «normalizzazione». Il ceto dirigente cattolico nel dopoguerra triestino Antonio Santin, Edoardo Marzari e la «vecchia guardia»: la preparazione del domani 31 La difesa dell’italianità e la costruzione del consenso 56 Uomini nuovi: «normalizzazione» ed egemonia democristiana 77 Il progetto della terza generazione 104 Sezione 2 Correnti, generazioni e potere nella Democrazia cristiana di Trieste (1949-1966) La Democrazia cristiana, gli altri partiti e la prova del voto 126 Il nuovo corso della DC. Il «cambio della guardia» del maggio 195 140 Le correnti. Composizione e assetto del motore politico democristiano 158 Il Comune e la Provincia. Le ricadute istituzionali del «cambio della guardia» 176 L’«imprenditore politico». La Regione e il parlamento 195 La costruzione dell’egemonia. Gli enti di secondo grado 201 La creazione di un’élite. I processi di ricambio e le carriere 211 Conclusioni 253 Appendice A - Le tabelle 276 Appendice B - Le biografie 300 Abbreviazioni 464
XXII Ciclo
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6

Cordani, Violetta. "La cronologia del regno di Shuppiluliuma I." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3498.

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Abstract:
2008/2009
Oggetto del presente studio è la cronologia del regno di Šuppiluliuma I, sovrano ittita vissuto intorno alla metà del XIV sec. a.C. Il lavoro si pone come primo obiettivo la definizione, in termini di cronologia sia relativa che assoluta, delle campagne condotte da Šuppiluliuma in Siria; inoltre, esso si propone di riprendere in esame le diverse ipotesi ricostruttive avanzate dagli studiosi, anche in considerazione dell'assenza, ad oggi, di una monografia aggiornata sull'argomento.
XXII Ciclo
1981
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7

Delogu, Giulia. "Trieste «di tesori e virtù sede gioconda» Dall’Arcadia Romano-Sonziaca alla Società di Minerva: una storia poetica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11002.

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8

Diklic, Olga. "AMBIENTI NATURALI, PROGETTI STATALI E PROPOSTE DI RIFORMA NEL TERRITORIO DI TRAÙ DI FINE SETTECENTO E PRIMA METÁ DELL’OTTOCENTO." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/9957.

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Abstract:
2012/2013
Tutt’altro che selvaggio o immodificato era l’ambiente naturale tragurese di fine Settecento e della prima metà dell’ Ottocento. Il territorio ed il suo ambiente in termini ecostorici lo contrassegnavano le economie e le società preindustriali della tarda età moderna e i modelli tradizionali dell’uso della terra. La dimensione che li rendeva “selvaggi” erano i modelli percettivi occidentali di un “barbarico” ed economicamente arretrato “Adriatic empire” e le forme aspre dell’assetto naturale, che nella visione dei contemporanei risultavano indomabili, insufficentemente sfruttate o poco usufruibili. Di conseguenza, a dominare l’area si presentava proprio il fattore naturale, cui conseguentemente era da associarsi la genuinità e la potenzialità dell’area. Risultato di queste visioni del tempo e dello spazio, accompagnate dalle accurate mappature e statistiche statali sul suo assetto e sulle sue potenzialità (eseguite ai fini del consolidamento del potere), era l’apertura ad un’ ulteriore esplorazione delle terre sconosciute della “mythical Illyria” e ad un’ ulteriore modifica dell’ambiente naturale. Un tale rapporto con l’ ambiente naturale ben si inquadrava nella visione antropocentrica dell’ ambiente che rievocava l’utilizzo deliberato ed incondizionato della natura che in età moderna avrebbe trovato la sua articolazione naturale nell’emergere dello stato territoriale e del capitalismo. Questà è un analisi ecostorica che come l’ idea aveva rilevare i diversi aspetti dell’ impatto umano sull’ ambiente naturale in un relativamente breve e transitorio periodo storico, caratterizzante i forti avvenimenti di guerra e modifiche di governi, i nuovi paradigmi di società e politiche, ma ancora non immodificati i rapporti sociali ed economici e gli effetti di accumulata pressione antropica storica sull’ ambiente. In tale contesto sono appunto i diversi elementi dell’ambiente naturale a raccontare di un momento storico segnato da un ambiente naturale fortemente trasformato, ma anche di una lunga storia dell’ impatto umano sull’ ambiente incisa sulla sua parte geografica e fisica così come su quella storica e di evento.
XXV Ciclo
1970
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9

Cimador, Gianni. "La riscrittura dei generi letterari in Italo Calvino." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3477.

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Abstract:
2008/2009
Nella mia Tesi di Dottorato ho voluto analizzare i rapporti tra la narrativa di Italo Calvino e la letteratura di massa, tenendo presente la logica della formalizzazione, che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, caratterizza le opere dell’autore e nella quale rientra anche il primato strutturale assegnato alla fiaba. Mi sono concentrato in particolare sul rapporto con i generi letterari: in Calvino, il loro recupero si verifica in modo singolare, insieme alla loro trasmutazione, in un processo di trasferimento e dinamismo intertestuale che coinvolge dialogicamente forme di comunicazione diverse. Sin da Il sentiero dei nidi di ragno emerge una tendenza alla pluridiscorsività: se il modello della fiaba è presente come archetipo del racconto di avventura e di prova nei modi di una narrativa picaresca, su questo paradigma ideale si innestano soluzioni del romanzo realistico, di quello intimista, procedimenti euristico-retrospettivi propri dell’ intreccio “giallo”, esplicite citazioni fumettistiche e cinematografiche, formule espressive riprese dalla paraletteratura di consumo, come i canti popolari, gli album di avventure colorati o i “Supergialli”, entrate ormai a far parte dell’immaginario collettivo e, quindi, immediatamente accessibili e ‘leggibili’. Calvino dimostra come un unico macrogenere popolare possa traghettare istanze assimilabili attraverso mezzi di comunicazione di massa e materie espressive differenti e, contemporaneamente, offrire un ritratto in sezione di un periodo, pervaso e attraversato dalle medesime tendenze culturali e sociali che trovano in esso varie manifestazioni intertestuali. Il riutilizzo dei generi si verifica nei termini di una “riscrittura”: essi sono sottoposti a una continua parodizzazione e a varie interpolazioni. Si crea in questo modo un vivace dialogismo di allusioni intertestuali che agiscono come tropi, distogliendo l’attenzione da un testo e indirizzandola verso un altro, una “retorica dell’imitazione” che effettivamente allarga i confini testuali, anche oltre la tradizione letteraria stessa, fino a comprendere le forme di comunicazione di massa. Nei racconti cosmicomici, Calvino realizza esemplarmente l’intreccio di livelli “alti” e di livelli “bassi”, utilizzando le modalità della letteratura di massa, capace di dare ai propri lettori “in modi realistici o fantasiosi, diretti o metaforici […] una visione epica di sé e del mondo in cui vive”, presentando “eroi con i quali identificarsi” (cfr. l’introduzione di Giuseppe Petronio a Letteratura di massa, letteratura di consumo, Laterza, Roma-Bari 1979, p. LXXI). Calvino sembra consapevole del fatto che la riscrittura dei generi si esponga inevitabilmente al rischio del convenzionale e della banalizzazione, anche se è proprio su questo fronte che lo scrittore ligure de-ideologizza la letteratura di consumo e la sua “fame di ridondanza”, intrinsecamente più ideologiche della controparte elitaria nella misura in cui contribuiscono alla produzione di una “falsa coscienza” o a ciò che gli autori di “Calibano” chiamano “coscienza inconsapevole”, oltre ad arrivare alle stesse conclusioni di Ullrich Schulz-Buschhaus, per il quale “l’autentico è in fondo tanto irraggiungibile quanto il convenzionale è inevitabile (altrimenti non vi sarebbe comunicazione)” (cfr. il fondamentale articolo Critica e recupero dei generi. Considerazioni sul “moderno” e sul “postmoderno”, apparso in “Problemi”, XXIX, 101, gennaio-aprile 1995, pp. 4-15): chiunque operi nell’orizzonte della letteratura di massa deve ormai convivere con questo presupposto, sviluppandone le potenzialità costruttive e i connotati ludici. L’instabilità dei generi, oscillante tra riflessività meta testuale e parodia, ne porta al limite le strutture, le dissipa: da questa “produzione per dissipazione” deriva un nuovo supergenere di ricerca, risultato del riconoscimento dell’esistenza di altri generi, appartenenti alla letteratura di consumo. L’accento posto da Calvino sull’automazione del principio costruttivo è un punto di collegamento ancora poco approfondito tra la letteratura di massa e l’esperienza oulipiana: il progetto de L’incendio della casa abominevole è in piena consonanza con Todorov, che vede nel romanzo poliziesco il prodotto più rappresentativo delle narrazioni di massa, caratterizzate dalla conformità integrale alle norme del genere. La detection story, schema assai frequentato e rielaborato da Calvino, conserva il senso di un gioco di enigmistica, di una combinazione di incastri che produce effetti inattesi: in quanto meccanismo puro, individua la struttura paradigmatica di ogni narrazione. L’attenzione ai generi di una narrativa di intrattenimento è inscindibilmente legata alla riabilitazione del “romanzesco”, teorizzata in saggi come Il romanzo come spettacolo, dove Calvino insiste sulla necessità di chiudere i conti con il programma di dissoluzione delle forme letterarie delle avanguardie, ispirato a Flaubert, recuperando invece le modalità con cui Dickens presentava i suoi romanzi, in performances recitate, integrate da illustrazioni e dalle reazioni del pubblico. Per Calvino il recupero del “romanzesco” nelle forme della letteratura di massa non inflaziona ma innova realmente i modi della letteratura sperimentale, nel senso di una concezione epistemologica della finzione, di una interattività tra autore e lettore, che prefigura già il modello reticolare ipertestuale, nel quale si traduce l’idea calviniana di una enciclopedia aperta e in continua trasformazione: da questo punto di vista il libro più compiuto di Calvino sono Le città invisibili, dal momento che, come dice l’autore stesso, “ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture […] ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”(cfr. Italo Calvino, Esattezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, p. 40). Oltre a Le città invisibili, nella mia ricerca ho dedicato una particolare attenzione a Se una notte d’inverno un viaggiatore, opera nella quale i dieci inizi di romanzo rappresentano altrettante tipologie di “romanzesco” moderno, da quello della neoavanguardia a quello realistico-politico, da quello geometrico-metafisico a quello erotico-orientale e latinoamericano, da quello esistenziale tipico del neorealismo a quello fantastico-surreale: si tratta di dieci “stili di storie”, di un repertorio delle diverse possibilità del narrabile, che conducono a una vera e propria enciclopedia delle forme narrative fra le quali tanto il lettore specialista, più esigente, quanto quello letterariamente più ingenuo possono trovare degli aspetti vicendevolmente avvincenti. Il vero tema del romanzo è infatti la testualità, nei suoi vari aspetti, compresi quelli delle dinamiche della destinazione e della “codificazione eteronoma”, ovvero delle esigenze esterne del mercato culturale e massmediologico che sembra trasferire la stratificazione della produzione letteraria, dei diversi target, all’interno dell’opera stessa, per poter raggiungere contemporaneamente più categorie possibili di lettori, un obiettivo che si pone anche la letteratura di massa. Non solo in Se una notte il frantumarsi dell’oggettività realistica, che segna la “dissoluzione novecentesca del romanzo”, determina l’oggettivarsi della tecnica dell’intreccio che viene considerata in sé, come un ghirigoro geometrico portando alla parodia, al gioco del romanzo costruito “romanzescamente”, una strategia che però diventa momento di consapevolezza. La soluzione calviniana per ovviare alla situazione di impasse creta dal “canone dell’interdetto” e dall’estremo nominalismo dell’arte moderna, è il romanzo di recupero, nel quale avviene il ritorno ai generi e alle tecniche narrative di un passato rifiutato dalle avanguardie novecentesche (gotico, storico, avventura, favola, fiaba) attraverso i generi e le tecniche narrative di un presente, o passato prossimo, emarginato (rosa, giallo, Thriller, spionistico, fantascienza, fantasy, western, porno). La mia Tesi parte dal rapporto bifronte di Calvino con la neoavanguardia, che ha innescato inevitabilmente la riflessione dello scrittore ligure, rappresentando anche un momento di consapevolezza teorica, sebbene egli abbia manifestato, nel corso dei vari periodi, ripensamenti e sebbene le sue opere non siano sempre coerenti con le dichiarazioni di principio. Il primo capitolo della Tesi mette in luce il costante confronto e la rielaborazione di filoni, generi e modelli letterari “classici”, nell’ottica della trasmutazione, cioè di un processo di continuo trasferimento e dinamismo intertestuale. Nel secondo capitolo vengono prese in esame le “declinazioni”, più o meno ibride e “allotropiche”, che alcuni generi letterari hanno assunto nell’opera calviniana, risemantizzando i meccanismi e le stilizzazioni della “paraletteratura”: al riguardo, sono state un’ottima base di partenza le ricerche promosse dal Dipartimento di Italianistica dell’Università degli studi di Trieste sulla Triviallitteratur. Il terzo capitolo è dedicato alle forme di “saggismo” presenti nella narrativa di Calvino: a partire dalle forme del genere letterario in cui, come sottolinea Berardinelli, “la letterarietà arriva più tardi”, si impone una ridefinizione dei confini del letterario e del concetto stesso di letterarietà, diventa urgente una nuova formulazione dei “canoni”, finora eccessivamente subordinata a generi “forti”. In questa prospettiva Calvino sottolinea l’attualità di Galileo e di Leopardi, che, insieme all’ Ariosto, costituiscono per lo scrittore una sorta di “microcanone”. Il quarto capitolo prende in esame alcuni fenomeni di “effetto rebound”, ovvero di quell’ “effetto di risonanza” di un medium su un altro, di permeabilità delle loro strutture, che interessa anche il sistema dei generi in un’epoca contrassegnata dal dominio del visivo: alla crisi dei linguaggi artistici corrisponde un diffuso processo di estetizzazione della vita e di ogni forma di relazione attraverso il dominio dei mass media, che è la riproposta, di segno invertito, della tensione utopica delle avanguardie a inglobare tutte le forme di comunicazione per riscattare l’esistenza
XXII Ciclo
1975
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10

Miksa, Gianfranco. "I giornali italiani a Fiume dal 1813 al 1945. Analisi e linee di sviluppo." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8596.

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Abstract:
2011/2012
“I giornali italiani a Fiume dal 1813–1945. Analisi e linee di sviluppo” vuole essere un’immersione nella cultura fiumana della carta stampata, inteso a offrire una chiara immagine della grande mole di giornali italiani pubblicati nella città quarnerina nell’arco di due secoli. L’arte della cultura stampata a Fiume ha una storia ricca e molto interessante. Come ogni terra di confine, questa è stata il testimone di una lotta nazionale, economica e sociale che ha interessato la città lungo i secoli. Fiume – sia per la posizione geografica, sia per le vicende storiche –, ha avuto un suo ruolo proprio e ha conservato a maggior fatica la integrità della sua anima e componente italiana. Il giornalismo fiumano ha ospitato i piccoli e i grandi fatti del proprio popolo, le paure e le preoccupazione della gente semplice, registrando i momenti più importanti delle comunità. La finalità generale di questa ricerca è quella di scoprire la scena editoriale ponendo in evidenza tutta una serie di protagonisti – giornalisti, letterati, intellettuali, ma anche persone comuni – che hanno caratterizzato la città per lunghi decenni. La ricerca non intende essere un repertorio della cultura giornalistica a Fiume, bensì un’analisi della sua nascita, sviluppo, fortuna e rovina. Il lavoro si è basato principalmente su due aspetti che sono stati svolti contemporaneamente: quello della ricerca bibliografica e quello più ampio della ricerca d’archivio. L’attività di ricerca bibliografica è finalizzata non solo alla costituzione della bibliografia espressamente relativa al tema oggetto della ricerca stessa, ma anche all’identificazione di nuove fonti da cui reperire notizie importanti per la ricostruzione della storia del giornalismo fiumano. La scelta del periodo 1813–1945 per un’analisi della stampa fiumana è stata suggerita da una serie di considerazioni di carattere storico, sociale e culturale. Il primo giornale che uscì a Fiume fu “Notizie del Giorno” risalente al 1813. Da questa data in poi, si avrà un vera e propria crescita del giornalismo fiumano che darà origine, nell’arco di centotrenta anni, a più di 50 testate, di cui 30 in lingua italiana che ho avuto il piacere di analizzarle e di presentarle in questo lavoro. Sono creazioni spesso effimere ma talvolta anche durature che saranno espressione della battaglia politica e culturale della città. La conclusione della ricerca con il 1945 è dovuta, invece, al cambio politico che interessò la città con i nuovi governanti. Nuovi reggenti che imposero il comunismo e socialismo a un popolo che da secoli aveva ben salda la tradizione commerciale di stampo liberista. La ricerca, dedicata al giornalismo fiumano tra il 1813 e il 1945, prende in considerazione tutte le pubblicazioni di carattere giornalistico, e quindi con funzione informativa, apparse in quegli anni, senza tenere conto delle pubblicazioni in lingua ungherese, croata o altra. La premessa metodologica di tale ricerca è di natura letteraria con particolare riferimento agli influssi della cultura italiana a Fiume. Ogni scheda delle singole testate fiumane è composta da due parti. La prima, attraverso un’introduzione analitica, comprende tutte le notizie essenziali riguardanti il genere, tiratura, data di pubblicazione, sede proprietà, tipografia, fondatori, direttori, caporedattori, orientamento politico, eventualmente il formato, la periodicità e il prezzo. La seconda parte prevede un approfondimento più attento che comprende un excursus storico e analisi dei contenuti. Le schede, costruite secondo uno schema costante permetteranno al lettore di avere una prima idea del carattere del giornale, la sua posizione politica e ideologica, la sua tendenza sociale e culturale. Vengono inoltre riportate, a piè di pagina una breve biografia con notizie bibliografiche di alcuni noti, e anche meno noti, giornalisti e pubblicisti fiumani. L’Appendice offre, invece, una scelta degli articoli raccolti dai giornali. Una selezione che è stata condotta cercando di isolare quei testi che indichino novità tematiche, letterarie e momenti storici di particolare significato legati sia alla città di Fiume sia all’intera scena internazionale. Lì, dove ho potuto, ho proceduto nel riportare interamente i programmi, editoriali e manifesti dei giornali, per conoscere con chiarezza i princìpi su cui la testata si fondava, le idee che essa propugnava, il perché della fondazione e anche della lotta politica ideologica che essa sosteneva. Per offrire un dettagliato confronto tra stili, per così dire, conservativi e quelli innovativi, ho cercato di isolare alcune tematiche – principalmente gli avvenimenti storici ma anche, per esempio, manifestazioni, omicidi, processi, incidenti e altri fatti cronaca –, per osservare e apprendere come le diverse testate trattavano lo stesso argomento.
XXIV Ciclo
1979
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11

Manuelli, Federico. "La società dell'Anatolia Orientale durante la Tarda Età del Bronzo (1650 - 1200 a.C.). La cultura materiale del sito di Arslantepe - Malatya nell'ambito dell'alta Valle dell'Eufrate e le relazioni culturali con i territori centro anatolici." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4499.

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Abstract:
2009/2010
Il presente studio si basa sull’esame del repertorio ceramico del Tardo Bronzo identificato negli scavi del sito di Arslantepe – Malatya nella regione centro-orientale della moderna Turchia L’analisi effettuata prende in considerazione, oltre al repertorio vascolare, anche le testimonianze architettoniche e le altre categorie di reperti rinvenuti nel sito durante le indagini effettuate tre la fine degli anni ’60 e le più recenti campagne di scavo. L’obiettivo preposto a questa ricerca si basa sul tentativo di ricostruire la situazione insediativa e politico-amministrativa di Arslantepe durante il periodo di espansione dell’Impero hittita, il cui progressivo sviluppo ed ampliamento territoriale coinvolse anche il territorio dell’alto Eufrate. L’analisi delle fonti storico-filologiche mostra come i meccanismi di annessione e di controllo delle aree più periferiche da parte del potere centrale hittita siano tuttavia piuttosto oscuri. Le tracce di una gestione o di un’amministrazione diretta da parte degli Hittiti, per quanto riguarda i siti dell’alto Eufrate, sono infatti abbastanza limitate e danno l’impressione che il territorio fosse ancora organizzato e guidato da comunità locali. Lo studio del repertorio vascolare di Arslantepe, inquadrato all’interno della cultura materiale del territorio dell’alto Eufrate, ed il suo confronto con le produzioni ceramiche dei principali siti del mondo hittita permettono tuttavia di inquadrare queste problematiche all’interno di una nuova e più ampia prospettiva. L’influenza esercitata sul sito da parte dei territori dell’Anatolia centrale si mostra infatti, attraverso questa analisi, in maniera molto evidente sin dalle fasi più antiche del Bronzo Tardo, nonostante gli elementi della cultura locale continuino a mantenersi vivi durante tutto il periodo. Lo studio dei manufatti ceramici può essere infatti utilizzato per comprendere le dinamiche di interazione tra comunità distanti ma allo stesso tempo in contatto attraverso l’analisi ed il confronto della diffusione dei tipi ceramici presenti nei siti analizzati.
XXII Ciclo
1975
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12

De, Franzoni Annalisa. "Culti gentilizi a Roma tra III e II secolo a.C." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11119.

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Abstract:
2013/2014
Con questo lavoro ci si è proposti di indagare le caratteristiche costitutive e le eventuali modificazioni dello statuto dei culti gentilizi nel quadro della politica della classe dirigente a Roma in età medio-repubblicana attraverso l'adozione di un approccio interdisciplinare alla ricerca.
XXVI Ciclo
1981
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13

Valdemarca, Gioia. "Ai margini del centro. Osservazioni sull'idea di indeterminatezza ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo e l'uomo senza qualità di Robert Musil." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3526.

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Abstract:
2008/2009
Tutto inizia nel caos, e tutto termina nel caos: Robert Musil e Italo Svevo lo dimostrano nei loro romanzi principali, "L'uomo senza qualità" e "La coscienza di Zeno". Entrambi gli autori sono specchi di di un'epoca, l'inizio del Novecento, in cui il senso di sicurezza ha ceduto il posto all'indeterminatezza e all'incertezza (come ad esempio nella fisica, nella biologia e nella psicologia) a causa della caduta dell'impostazione deterministica nella scienza. A partire da questa crisi epocale, che ha cambiato radicalmente ogni visione del mondo, Svevo e Musil hanno dato vita a due personaggi alla ricerca di un proprio centro, simbolo della perduta determinazione: questo centro però si dimostrerà vuoto - senza causa, senza scopo, senza senso.
Alles beginnt mit dem Chaos, und alles endet im Chaos: Robert Musil und Italo Svevo zeigen es in ihren bekanntesten Romanen, „Der Mann ohne Eigenschaften“ und „Zenos Gewissen“. Beide Autoren können als Beispiele einer Epoche dienen, in der das Sicherheitsgefühl der Moderne seinen Platz der Unbestimmtheit und Unsicherheit (u.a. in der Physik, Biologie, Psychologie) abtrat, wegen des Überschreitens des deterministischen Ansatzes zugunsten einer freieren, aber auch unheimlicheren Weltanschauung. Ausgehend von dieser tiefen Epochenkrise, haben die zwei Schriftsteller in ihren Romanen Figuren gezeichnet, die sich auf der Suche nach einem geheimnisvollen Mittelpunkt begeben, der die verlorene Bestimmung darstellen sollte: dieser Mittelpunkt erweist sich aber als leer – ohne Ursache, ohne Ziel, und sinnlos.
XXII Ciclo
1981
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14

Favero, Alessandra. "Sul "De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae" di Pier Paolo Vergerio il Vecchio. Circolazione, ricezione e interpretazione di una raccolta pedagogica umanistica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10145.

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Abstract:
2012/2013
La tesi è uno studio sulla circolazione del "De ingenuis moribus" dell’umanista Pier Paolo Vergerio all’interno di una raccolta pedagogica che ebbe grande fortuna, in particolare nei decenni a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Si compone di tre parti. Nella prima presento l’opuscolo vergeriano, soffermandomi in particolare sulle tematiche in esso affrontate, sul valore attribuito ai modelli, sulle principali fonti utilizzate. Nella seconda espongo i risultati di un’indagine sulla tradizione della raccolta in libri miscellanei, distinguendo la circolazione all’interno dei codici da quella all’interno di incunaboli e cinquecentine. Nella terza propongo una lettura della silloge come insieme coeso di testi, collegati sia da elementi tematici e formali, sia dal fatto che tutti possono essere ricondotti allo stesso ambito culturale, cioè la Firenze dei primi anni del Quattrocento.
XXVI Ciclo
1973
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15

Zulini, Ella. "I pavimenti in cementizio di Pompei: cronologia, contesti, funzioni." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8550.

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Abstract:
2011/2012
Questa ricerca ha avuto come obiettivo lo studio dei pavimenti cementizi a base fittile di Pompei in ambito privato. Dopo una prima verifica dei piani noti in letteratura, integrata con i dati provenienti da scavi stratigrafici recenti, e in seguito a una ricognizione sul campo, si è scelto di selezionare un campione e di analizzare i pavimenti cementizi della Regio VI. Questa zona è apparsa quella più valida per intraprendere un’analisi sistematica dei pavimenti cementizi: si è dimostrata, infatti, la parte della città che presenta il maggior numero di testimonianze di questo tipo di pavimenti; inoltre, si sono sviluppate numerose ricerche sulle singole abitazioni e su alcune insulae e gli scavi stratigrafici recenti hanno permesso di arricchire i dati a disposizione, soprattutto per le fasi più antiche. Sono state così esaminate e catalogate 55 domus nelle quali sono presenti complessivamente 243 ambienti ospitanti piani in cementizio, a volte con casi di sovrapposizione di livelli di calpestio all’interno dello stesso vano. Il lavoro si è prefisso due obiettivi principali: il primo è stato quello di cercare di stabilire per questi pavimenti una cronologia il più possibile affidabile e precisa; tra i sistemi a disposizione si è cercato, in particolare, di utilizzare come indicatore cronologico un metodo non tradizionalmente impiegato, ossia l’analisi dei frammenti ceramici presenti sulla superficie del cementizio e nei suoi strati preparatori al fine di stabilire un terminus post quem per il momento della sua costruzione; è stato considerato un criterio altrettanto valido anche l’analisi dei dati stratigrafici. In mancanza di questi dati sono stati anche presi in considerazione il rapporto del pavimento con le murature della stanza e con le eventuali decorazioni pittoriche del vano. I piani cementizio datati sono stati suddivisi in cinque grandi fasce cronologiche: età sannitica (III secolo a.C.), età tardo-sannitica (II secolo a.C.), età tardo-repubblicana (I secolo a.C.), età giulio-claudia (fine I secolo a.C. - prima metà I secolo d.C.) e infine età post-sismica (62-79 d.C.); all’interno di queste cinque divisioni si è tentato, il più possibile, di specificare la datazione. Contestualmente sono stati anche evidenziati 12 motivi decorativi, nei quali sono state inserite tutte le decorazioni presenti nei pavimenti cementizi a base fittile, per verificare l’occorrenza degli ornati in rapporto alla loro cronologia e stabilire se sussistono delle costanti tra i decori e il tipo di ambiente. Il secondo obiettivo di questa indagine è stato quello di analizzare i pavimenti cementizi a base fittile sia nel loro specifico contesto sia in rapporto con gli altri piani di calpestio della casa nella quale essi sono presenti. Per questa parte del lavoro si è scelta, all’interno dell’ampia Regio VI che ospita 16 insulae, l’insula 2 come quartiere campione. Per ognuna delle dimore di questo isolato sono stati, quindi, considerati tutti i tipi di pavimento presenti nell’apparato decorativo ed è stata, contestualmente, redatta una planimetria a colori con l’attestazione dei diversi livelli di calpestio noti in modo da poter cogliere, anche visivamente, la totalità dei piani pavimentali di ogni singola abitazione. Si sono, inoltre, studiate allo stesso modo anche due domus che permettevano di leggere aspetti importanti per la ricerca in questione: una dimora di grandi dimensioni come la Casa del Centauro (VI, 9, 3/5), nella quale sono stati effettuati recenti scavi stratigrafici che hanno permesso di collegare i pavimenti alle diverse fasi edilizie dell’abitazione, e una domus nella quale sono attestati esclusivamente pavimenti cementizi come la Casa degli Scienziati (VI, 14, 43).
XXIV Ciclo
1976
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16

Conti, Caterina. "Letteratura al microfono. I programmi culturali di RAI Radio Trieste fra il 1954 e il 1976." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11003.

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Abstract:
2013/2014
La tesi tratta della radio e della sua funzione culturale, partendo dal presupposto che essa ha, per sua natura, una finalità di esternazione di suoni (parole o musiche) rivolti ad un pubblico, e ha l'intento di insegnare, divertire e intrattenere. Attraverso i contenuti che essa trasmette, infatti, è possibile disegnare un quadro che descrive l'orientamento e i valori che trasmette, e quindi, la specificità non solo degli argomenti trattati, ma anche della più generale linea di pensieri e intenzioni che persegue. Nel corso del lavoro, si è cercato di dimostrare che la radio svolge, per la sua natura, una funzione culturale nel formare un'identità e nel far circolare un certo tipo di canone della letteratura. Infatti, nonostante gli studi sui mezzi di comunicazione di massa in Italia abbiano conosciuto un'accelerazione nel loro sviluppo solo negli ultimi anni, la radio da sempre ha costituito, per le sue caratteristiche di dinamicità e versatilità, un media molto ricettivo delle istanze della società, influenzando profondamente il tessuto connettivo. Fra l'altro, per la sua inclinazione a essere, allo stesso tempo, mezzo di aperta diffusione e di fruizione intimistica, essa ha sempre mantenuto un'impronta evidente di comunicazione personale, non massificata, ma creatrice di una comunità di ascoltatori che condividono informazioni e pratiche sociali. Si è così notato che, attraverso le sue messe in onda, la radio veicola i contenuti, gli argomenti e le forme del pensiero prevalente, incoraggiati evidentemente dai responsabili dell'emittente stessa che assumono un'importanza non secondaria. Essa può trasformarsi, allora, in uno strumento di politica culturale perché ha la capacità e la possibilità di diffondere, attraverso i programmi, una certa visione del mondo e della storia, fornendo gli strumenti per far riflettere e convincere chi è in ascolto e proponendo un deciso orientamento interpretativo dei fatti. Non solo, però, mezzo emanatore di prodotti informativi e culturali, ma anche mediatore di condivisione e confronto con un'altissima incidenza sul sistema politico, sociale, culturale stesso. Insomma, la radio costituisce un attore importante nel condizionamento della società alla quale si rivolge e dalla quale è ispirata e influenzata. Il caso preso in esame è quello più particolare di Radio Trieste dal 1954 al 1976, un periodo emblematico per la storia del secondo Novecento della realtà giuliana, fra la fine del Governo Militare Alleato con la firma del Memorandum di Londra e la sigla del Trattato di Osimo, che ridefinivano rispettivamente l'autorità italiana e i confini dell'Italia a nord-est, dopo gli anni tormentati di divisioni fra la Zona A e la Zona B. Con il 1975, poi, iniziò un periodo di distensione fra le due più potenti forze militari mondiali e, sul piano locale, si risolse, pur amaramente, la vicenda della terra istriana, che passò senza diritto di replica alla Jugoslavia di Tito. Radio Trieste rappresentava un'emittente del tutto anomala, nel quadro più generale delle radio, in quanto poteva disporre, come si vedrà, di mezzi e strumenti di primo livello, ed era capace di un'autonomia invidiabile, dovuta proprio alla sua storia particolare. Il periodo preso in esame, fra l'altro, costituisce l'ultimo segmento temporale nel quale l'emittente radiotelevisiva pubblica aveva ancora una centralità riconosciuta, nel più vasto panorama nazionale, poi in parte erosa, a partire dall'approvazione della Riforma interna della RAI (del 1975) che autorizzava il proliferare delle reti e dei canali radiofonici privati e, soprattutto, vedeva nella spartizione netta fra i partiti la sua nuova identità. In quegli stessi anni, fra l'altro, si assisteva all'affermazione indiscutibile della televisione come mezzo di diffusione di massa privilegiato dal pubblico, e, prevalendo sulla radio, costringeva ad un ruolo minoritario, quasi d'élite, la radiofonia, che comunque seppe reinventarsi una funzione e ricostruire intorno a sé un pubblico specifico. Per tutte queste coincidenze, l'esempio di Radio Trieste, dunque, appare assai emblematico, per il significato e le motivazioni che essa assunse negli anni già indicati: vent'anni considerati cruciali non solo per la storia locale, ma anche per la cultura e la letteratura ad essa legata. Infatti, come si cercherà di dimostrare, l'emittente triestina divenne allora il centro della vita intellettuale della città stessa, concedendo larghissimi spazi alla presenza delle principali voci della cultura, della letteratura e dell'arte locale, rappresentanti e portatori più autentici dei valori e dei principi risorgimentali e primo-novecenteschi, che intesero seminare in un territorio ferito e lacerato dalle due guerre mondiali proprio quanto da loro ritenuto fondante della società stessa. Vi furono allora due generazioni di letterati, intellettuali, scrittori, pensatori, poeti che, fra il 1954 e il 1976, presero parte ai programmi di Radio Trieste, nel tentativo di far riprendere l'abitudine della parola a una città straziata dai silenzi muti dei precedenti cinquant'anni, di fornire degli elementi di verità di quanto avvenuto e, soprattutto, di aprire un nuovo orizzonte di fiducia per la città giuliana. L'uso di nuove parole-chiave, la rievocazione dei fatti storici, i contesti narrativi, il ricordo di mondi passati, la ricerca dell'identità furono allora il centro stesso del fermento creativo di questi anni che si raccolse intorno alla radio, affidata alla direzione dell'ing. Guido Candussi (fino al 1976). Se è vero, infatti, che l'emittente pubblica in Europa (a differenza degli Stati Uniti) ha come intento quello di concorrere alla costruzione e alla difesa dell'identità culturale e civile del Paese, Radio Trieste cercò di esercitare questa funzione attraverso tutti gli strumenti che aveva a disposizione. Il lavoro di ricerca, così, ha voluto entrare nel vivo della programmazione della Radio, andando ad individuare quali fossero le trasmissioni in onda nel ventennio considerato, quali le voci che trovarono spazio, quali i contenuti delle stesse, e quindi, quale fosse il messaggio che si lasciava intendere. Non esiste, infatti, ad oggi alcuno studio specifico al riguardo, se si escludono due contributi, seppur preziosi, costituiti dal lavoro ciclopico di Guido Candussi, Storia della filodiffusione, (Trieste 1993, 2003 e 2008), e quello divulgativo a cura di Guido Botteri e Roberto Collini, Radio Trieste 1931-2006: un microfono che registra 75 anni di storia (Eri, Roma 2007). Inoltre, è da considerare che il patrimonio archivistico consultabile presso la sede regionale della RAI di Trieste consta di un numero esiguo di documenti, e, non di meno, manca del tutto un elenco completo del posseduto, che comunque è stato ridotto a forma digitale e non consente, dunque, un'indagine che permetta una visione ampia dell'archivio intero. Fra l'altro, sembra che le modalità con le quali si è proceduto allo scarto dei materiali non siano state regolate ordinatamente, ma dettate da qualche indicazione dirigenziale interna alla sede stessa (di cui resta un chiacchiericcio, ma nessuna documentazione effettiva), quando non dalla pura casualità. Anzi, alcune fonti orali riportano che, oltre ai documenti conservati presso la RAI di Trieste, sopravvissuti in parte all'incendio che ha devastato la sede alla fine degli anni Cinquanta, esiste ancora del materiale in qualche stanza della sede RAI o accolto negli archivi personali dei dipendenti dell'azienda. Solo il buonsenso dei singoli ha, quindi, salvato alcuni materiali originali dalla distruzione; infatti gli scarti sarebbero stati prodotti, anno dopo anno, senza una vera e propria logica che tenesse in considerazione la totalità del materiale, causando la dispersione di migliaia di riferimenti e contenuti. Per quantificare il patrimonio inerente a Radio Trieste, sia quello conservato che quello andato variamente disperso, non esistendo un vero e proprio catalogo, era necessario un lavoro di ricerca più lungo nel tempo e più approfondito. Era necessario, prima di tutto, costruire un elenco di programmi andati in onda in quegli anni: per farlo, si è ricorso allora allo spoglio dei periodici del tempo, in particolare de «Il Piccolo» e del «Radiocorriere TV» nella parte dedicata ai programmi radiofonici e televisivi, per dedurne gli orari di messa in onda e la programmazione giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, trascrivendo pazientemente quanto previsto per la messa in onda. Circa sei mesi della ricerca, quindi, sono stati dedicati così all'annotazione meticolosa, paziente e fruttuosa dei riferimenti programmatici, dedotti dai riquadri delle trasmissioni che, giornalmente o settimanalmente, erano riportate sui due periodici, ottenendo così un elenco quanto più verosimile e puntuale possibile. Le fonti sono state reperite, per quanto riguarda «Il Piccolo», presso l'Archivio di Stato di Trieste, e «Il Radiocorriere TV» presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Si sono così potuti individuare 1058 titoli di programmi radiofonici di impronta culturale e letteraria, in onda fra il 1954 e il 1976 su Radio Trieste. Si trattava di trasmissioni che accoglievano e davano voce agli intellettuali giuliani, sia a quelli già noti, sia a quelli emergenti, ai quali era concesso uno spazio di conversazione, presentazione o commento e lettura delle opere. Questi programmi rappresentano una parte molto rilevante del palinsesto dell'emittente e possono essere usati, appunto, per considerare la funzione politico-culturale che essa assunse, come luogo di elaborazione e esternazione dei contenuti che la città sentiva più urgenti e che il gruppo intellettuale vide la necessità di esternare attraverso le onde radio. Il tentativo, infatti, che gli intellettuali fecero fu quello di ridare slancio, attraverso la loro promozione artistica, ai valori fondamentali di libertà, tolleranza e dignità umana che avevano dato a Trieste i suoi anni migliori. Attorno alla radio, allora, si costruì non solo una classe di intellettuali colti, creativi, autonomi, ma anche una vera comunità, quella cittadina, nuovamente aggregata, resa più consapevole e acculturata dalle trasmissioni stesse: essa vedeva nel mezzo di comunicazione di massa una modalità non soltanto di svago e intrattenimento, ma anche di conoscenza e riflessione, rappresentando quanto di più vivo e autentico esisteva nella realtà giuliana. Radio Trieste costituisce così un caso del tutto eccezionale e straordinario di come la radio poté incidere profondamente in un territorio difficile ma ricco di intelligenze e di capacità che furono messe a disposizione della collettività, e assolse così la funzione propria di un servizio pubblico. Mentre le ricerche erano in fase avanzata, è emersa, fra l'altro, una fonte preziosissima, grazie alla disponibilità generosa di un ex dipendente RAI, che, venuto a conoscenza di queste ricerche, ha voluto condividere i preziosissimi quaderni della signora Silva Grünter, autrice, programmista e assistente ai programmi di Radio Trieste, che egli aveva trovato per caso negli armadi del suo ufficio. Qui sono diligentemente appuntati titoli, autori e numero di catalogazione dei programmi culturali di Radio Trieste corrispondenti proprio agli stessi anni d'interesse. Si tratta dunque di una preziosa controprova del lavoro svolto, che ne evidenzia, pur con qualche differenza, la validità e la scientificità. Il lavoro di ricerca presente rappresenta, pertanto, un tassello prezioso e finora sconosciuto del mosaico della cultura giuliana del dopoguerra, che delinea l'azione di Radio Trieste nel contesto sociologico, culturale e letterario del capoluogo di regione, rapportato all'ambiente degli intellettuali giuliani e al contributo in termini di cultura e conoscenza diffusa. Esso dimostra il ruolo della radio come strumento di diffusione e riflessione su determinati valori e principi che gli autori dei programmi, e la direzione stessa, ritenevano evidentemente cruciali. Porre l'accento sull'importanza culturale di Radio Trieste nel dopoguerra, significa, infine, scoprire uno spazio comune solo parzialmente esplorato in cui si sono intrecciati cultura, mezzi di comunicazione di massa e territorio, nel grande canovaccio della storia tormentata e complessa delle terre giuliane del Novecento.
XXVII Ciclo
1986
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17

Comar, Nicoletta. "Carlo Sbisà: catalogo generale dell'opera pittorica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3632.

Full text
Abstract:
2008/2009
Carlo Sbisà è stato uno dei protagonisti della stagione del Novecento italiano non solo nel contesto triestino, dove ha esposto in mostre personali e collettive, ma anche nazionale, grazie alla sua partecipazione assidua alle Biennali veneziane e ad altre rassegne di carattere internazionale. Nasce a Trieste nel 1899. Negli anni giovanili frequenta le Scuole Reali di Trieste; in seguito si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Accademia di Belle Arti (1919-1923) e si trattiene fino al 1928, avendo modo di conoscere e frequentare Felice Carena, Ubaldo Oppi, Achille Funi e altri artisti suoi coetanei coinvolti nella temperie di Novecento e Valori plastici. A Firenze l’artista rimane nove anni fino al 1928, anno della sua prima personale a Trieste, presso la Galleria Michelazzi con presentazione firmata da Italo Svevo. Seguono anni di intensa attività, soprattutto nell’ambito della pittura da cavalletto; molte e prestigiose le mostre collettive a cui partecipa in Italia e all’estero e le personali allestite presso gallerie d’arte di Trieste, Milano, Roma. Negli anni trenta inizia a lavorare ad affresco per la decorazione di palazzi sia pubblici che privati, riscuotendo anche in questo campo notevole successo e riconoscimenti. Nel secondo dopoguerra Sbisà oltre a continuare l’attività pittorica si dedicherà sempre più alla scultura, in particolare in ceramica, tecnica con la quale realizza sia opere autonome, sia cicli decorativi di arte sacra e per decorazioni navali. Dal 1946 al 1953 ricopre l’incarico di curatore del Civico Museo Revoltella e insegna nella Scuola Libera di Nudo annessa al museo. L’attività didattica continuerà nell’ambito della Scuola libera dell’acquaforte presso l’Università popolare di Trieste, che egli promuove e dirige a partire dal 1960 fino al 1964, anno della morte. Carlo Sbisà ha prodotto pittura da cavalletto, affreschi, decorazioni navali, ceramiche, disegni, grafica. Della ricca e variegata produzione dell’artista era stata catalogata sistematicamente solo quella ceramica, mentre sia le opere pittoriche che quelle grafiche sono state oggetto di mostre, ma limitatamente ad alcuni periodi, in particolare quello tangente al Novecento Italiano. La catalogazione dell'opera pittorica di Sbisà ha messo in luce alcuni aspetti della sua attività e personalità artistiche finora poco note e indagate: l'importanza della formazione fiorentina e il suo perdurare negli stilemi dell'artista; la cosciente adesione alla poetica del secondo Novecento italiano; il "senso del mestiere", l'idea che quello del pittore sia un lavoro professionalela, e la conseguente produzione "per generi"; l'attività espositiva in piena coincidenza con il sistema delle arti del tempo; l'idea che la partecipazione a esposizioni e concorsi sia parte integrante di un percorso di formazione oltre che di promozione; la scelta di passare dalla pittura alla ceramica e le motivazioni umane, storiche, pratiche che hanno portato a tale svolta, tecnica prima ancora che artistica; l'attività didattica.
XXII Ciclo
1964
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18

Filip, Ireneo. "Martiani Capellae De Nuptiis Philologiae et Mercurii liber VI [§§ 567 - 642]. Introduzione, traduzione e commento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4500.

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Abstract:
2009/2010
Il lavoro consiste nella traduzione e nel commento del libro VI [de geometria] del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, limitatamente ai §§ 567-642. Il testo latino è stato criticamente rivisto rispetto a quello presente nelle edizioni esistenti dell'opera.
XXIII Ciclo
1974
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19

Zivec, Stefano. "Sonuit domino dictante taberna. Edizione critica, traduzione e commento dei Sosii fratres di Giovanni Pascoli." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4813.

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Abstract:
2009/2010
La tesi presenta una ricerca articolata sul poemetto latino di Giovanni Pascoli Sosii fratres bibliopolae (1899). L’edizione del testo è affiancata da una nuova traduzione; segue un capitolo dedicato all’analisi degli autografi conservati presso l’Archivio di Castelvecchio. Degli autografi si offre una dettagliata trascrizione interpretativa, sulla quale si è costruita poi l’edizione critica, strumento indispensabile per lo studio della costituzione del testo. In una delle appendici conclusive è inserita l’edizione con commento di un testo finora sconosciuto, la prima bozza del componimento, scoperta durante i sondaggi autoptici per l’integrazione del materiale autografo. Il commento privilegia i confronti interni all’opera di Pascoli (punto di riferimento è la teoria del ‘bilinguismo’ di Alfonso Traina) e indica di volta in volta le fonti di quello che è un testo ‘dotto’, punto di incontro tra i paradigmi classici e le sperimentazioni moderne. Non si sono sottovalutate le particolarità morfologiche, sintattiche, stilistiche del latino pascoliano e gli aspetti psicologici che influenzano alcuni meccanismi della composizione. L’ultimo capitolo è dedicato ad uno studio metrico che illustra alcune tendenze prosodico-ritmiche dell’esametro dei Carmina. In conclusione si trovano tre appendici. Della prima si è già detto; le due rimanenti sono tratte dal commento e sono presentate come unità autonome per la loro estensione e il grado di approfondimento della ricerca. Il lavoro di tesi si propone di colmare una lacuna della critica pascoliana, che finora non si è occupata in maniera sistematica dei Sosii.
XXIII Ciclo
1980
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20

Murgia, Emanuela. "Culti romani e non-romani nella fase di romanizzazione dell'Italia nord-orientale: resistenze e sopravvivenze, strutture, rituali e funzioni." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7401.

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Abstract:
2010/2011
Rispetto alle premesse di una ricerca, nata con l’obiettivo di indagare i processi di interazione tra cultualità indigena e religio romana nell’Italia nord-orientale, nelle possibili forme di “resistenza”, “sopravvivenza”, “integrazione”, i risultati sono, in un certo senso, controcorrente rispetto alle più recenti riflessioni sulle forme del sacro in fase di romanizzazione. La possibilità di comprendere le modalità attraverso le quali la romanizzazione modificò l’esistente comporta, inevitabilmente, una conoscenza della religiosità preesistente peraltro non riconducibile ad una sola facies etnico-culturale. Gli esempi in tal senso sono numerosi: dal caso macroscopico del frazionamento delle tribù celtiche e liguri nell’Italia nord-occidentale, a quello più difficilmente percepibile del comprensorio territoriale dove fu dedotta Aquileia, che al momento della calata dei Galli Transalpini, nel 186 a.C., si presentava quasi come una zona “cuscinetto”, tra Veneti ed Istri. La restituzione di un sistema religioso “di sostrato” unitario si è confermato, quindi, gravida di rischi di genericità. Un’attenta analisi dei contesti e dell’evoluzione storica dei diversi centri nel venetorum angolus ha rivelato con immediatezza quanto questa presunta unitarietà sia, nella realtà dei fatti, apparente: il “sostrato” etnico di Verona, in cui confluiscono elementi veneti, cenomani e retici, non è certo quello di Altino, così come il ruolo assunto da Padova nei confronti di Roma non è in alcun modo assimilabile a quello di Este, che continuò a essere percepita come “veneticità”. In questo senso, quindi, concludere che “nell’ambito della Gallia Cisalpina la zona veneta è quella in cui sono maggiormente attestati culti non romani, conseguenza del fatto che la penetrazione romana avvenne in modo pacifico e non a seguito di una conquista”, ovvero in virtù di una corroborata amicitia, non permetterebbe di cogliere criticità e complessità dei fenomeni cultuali in fase di romanizzazione. L’aver contestualizzato l’evidenza documentaria riferibile al sacro in senso geografico, etnografico e poleografico si è rivelato, dunque, ineludibile. Questo approccio ha permesso di constatare, per esempio, come le modalità di trasformazione dei culti a Padova ed Este siano state, per così dire, antitetiche benché entrambe nell’ottica di una innovazione. Il principale santuario extraurbano di competenza patavina, S. Pietro Montagnon, fu abbandonato proprio nel corso del III secolo a.C., quando, secondo la storiografia moderna, fu avviata la romanizzazione del comparto veneto. Più in generale, da Padova non proviene alcuna testimonianza epigrafica relativa a teonimi indigeni in forma latinizzata. Si tratta di un elemento di estremo rilievo della cosidetta Selbstromanisierung. Ad Este, invece, la romanizzazione non comportò un abbandono generalizzato dei luoghi di culto. Il santuario di Reitia, per esempio, mantenne il suo primato e se ci fu un adeguamento al modello romano, questo fu soprattutto in termini architettonico-monumentali. Per entrambe i centri veneti, quindi, un’adesione al nuovo ma con evidenti sfumature. Un’analisi di questo tipo, volta cioè a ricondurre le fonti disponibili ad un contesto comune, ha dovuto tenere conto, fin dal suo avvio, di un condizionamento, ovvero che l’evidenza documentaria disponibile corrisponde quasi esclusivamente alla fase di romanizzazione compiuta. Per questo motivo, comprendere “dove-quando-come si verificano i meccanismi di trasformazione; dove-quando-come si sovrappongono, o si impongono, alla tradizione locale; dove-quanto-come si integrano le diverse componenti” ha imposto inevitabilmente una prospettiva “romana”. In considerazione del valore politico della religione romana, la continuità di un determinato culto indigeno non è stata interpretata secondo parametri di “persistenza”, ”resistenza” o “mediazione”, ma piuttosto di “ufficialità” o “non ufficialità”. Laddove si è potuta cogliere, la dimensione ufficiale di un culto epicorico è emersa nelle fonti attestanti l’intervento più o meno diretto di una magistratura civica, o si è dedotta dalla presenza di santuari organizzati di natura pubblica o, ancora, da riferimenti al calendario locale che, come noto, era definito annualmente dai magistrati iurisdicenti con una notevole autonomia rispetto alle regole dell’Urbe e in sintonia con le caratteristiche specifiche del corpo civico di riferimento. Un caso significativo è quello dell’aedes Belini a Iulium Carnicum restaurata nella seconda metà del I secolo a.C. con il consenso dell’autorità vicana e grazie al contributo finanziario di un collegium. Un culto, quindi, pienamente romanizzato nella forma benché celtico sia Belenus: più che di una religiosità epicoria, la sua presenza si rivela espressione della celticità stessa della comunità carnica. Un esempio altrettanto interessante è quello del santuario altinate in località Fornace: alla divinità di tradizione venetica Altnoi sarebbe subentrato nel I secolo a.C., nel segno di una continuità funzionale, ovvero di divinità poliadica, Iuppiter Altinatis. Se la dimensione “pubblica” costituisce l’osservatorio privilegiato per l’analisi dei culti in fase di romanizzazione, ciò non toglie che anche la permanenza di una religiosità indigena o, al contrario, l’adattamento ai culti romani nello spazio personale in alcuni casi è stato considerato quale indicatore dei fenomeni di acculturazione. Un esempio efficace è quello dei noti dischi bronzei “di schietta cultura veneta”, raffiguranti la cosiddetta dea clavigera o figure maschili/militari per i quali si è pensato ad un programmatico “recupero di culti di sostrato”. Una delle questioni più interessanti affrontate in questo studio è stata quella della cosiddetta interpretatio, ovvero del rapporto tra divinità “importate” e personalità divine preesistenti. Ciò che sembra accomunare la maggior parte degli studi sulle forme di cultualità in Italia settentrionale, è la ricerca sistematica di radici “celtiche”, ma anche “venetiche”, “retiche”, “etrusche”, a divinità tipicamente italiche, quali Minerva, Fortuna, Neptunus, Hercules, che si sarebbero sovrapposte, per analogia di funzioni, a numi locali. L’analisi della documentazione epigrafica, tuttavia, ha dimostrato che spesso la tipologia delle offerte e i formulari votivi sono coerenti con quelli di tradizione italica e che la presenza di onomastica indigena, spesso considerata indicativa di una persistenza di cultualità di sostrato, sembra allinearsi con quella riscontrata anche in altri tituli sacri compresi quelli alla triade capitolina. La persistenza di teonimi non-romani, come Reitia, Leituria, Temavus, è stata spesso valutata spia di “resistenza” da parte degli indigeni alla nuova religio o, di contro, “tolleranza” dei Romani. I dati emersi da questa ricerca hanno consentito di integrare questo quadro rendendolo, per quanto possibile, meno schematico. Un esempio per tutti: a Brixia il dio locale Bergimus, associato al Genius Coloniae Civicae Augustae, sembra assumere una dimensione poliadica assurgendo a punto di riferimento per la componente cenomane del centro ormai romanizzato. In altri contesti, infine, la presenza di culti non romani, considerati in genere sinonimo di tenace resistenza alla romanizzazione è risultata, piuttosto, frutto di una devozione successiva, il più delle volte con specifico valore politico. Di questo processo fa parte anche il fenomeno di “reviviscenza delle divinità celtiche o, più in generale, indigene” che ebbe “la connotazione di un’opposizione di tipo politico all’accentramento di potere effettuato a Roma, a cui le aree periferiche, almeno a partire dall’età antonina, si ribellarono facendo leva sulla riappropriazione di una cultura religiosa autoctona, quando non addirittura della nuova religione cristiana”. Molta documentazione della piena età imperiale andrebbe riconsiderata in ragione di questi aspetti. Da ultimo si è cercato di valutare il peso delle élites romane nella gestione dei sacra. Questo fenomeno era già noto per i centri coloniari, come ad esempio ad Aquileia, Ariminum, Cremona, Piacenza, Luna, dove l’intervento delle aristocrazie romane è particolarmente evidente nella scelta di motivi allusivi alla difesa dal “barbaro” attraverso la diffusione dell’Apollo Liceo. Anche a Patavium l’introduzione del culto di Iuno, connotato in senso “trionfale”, è sembrato ascrivibile ai più alti livelli di committenza, se l’ipotesi di un coinvolgimento di M. Aemilius Lepidus coglie nel segno. Un ruolo non secondario, a Patavium e non solo, riveste l’intervento augusteo, che introduce, nella grande risistemazione del pantheon, il culto dei Lares e quello a Concordia.
XXIV Ciclo
1979
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21

Militello, Flavia. "La stampa cattolica di lingua italiana a Trieste,Gorizia ed Udine dalla fine del potere temporale e la denuncia del concordato (1870) alle prime elezioni a suffragio universale maschile (1907 in Austria Ungheria;1913 in Italia)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3494.

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Abstract:
2008/2009
Analisi comparata della stampa cattolica di lingua italiana a Trieste, Gorizia ed Udine, dal 1870 alle prime elezioni a suffragio universale maschile (1907 in Austria; 1913 in Italia)
XXII Ciclo
1981
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22

Fornari, Maria. "La questione adriatica sui quotidiani in lingua italiana e in lingua serba alla vigilia della grande guerra." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8595.

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Abstract:
2011/2012
L’obiettivo di questo lavoro di ricerca è operare un confronto tra le posizioni assunte dall’Italia e dalla Serbia in merito alla questione adriatica nei mesi che intercorrono tra l’eccidio di Sarajevo del 28 giugno 1914 e la dichiarazione di entrata in guerra dell’Italia del 24 maggio 1915. Le due nazioni erano state unite, nel corso del XIX secolo, dal comune desiderio di veder affermato il principio di nazionalità contro l’egemonia degli Imperi asburgico e ottomano. Questo legame si era concretizzato in una fitta rete di scambi culturali, ideologici e politici che aveva dato vita a un sentimento di reciproca stima e solidarietà tra i due popoli. Con l’inizio del conflitto, però, l’Italia e la Serbia vengono poste di fronte alla concreta possibilità che, con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, oltre a una serie di trasformazioni a livello europeo, si venga anche a delineare una nuova mappa dei confini adriatici, tracciati secondo il criterio dell’autodeterminazione dei popoli. Di conseguenza, i territori dell’area adriatica nord-orientale, connotati da un carattere multietnico e multinazionale, si trovano al centro delle rivendicazioni di diversi Stati, tra cui spiccano l’Italia e la Serbia, entrambe decise ad affermare il diritto a estendere il proprio dominio su quelle terre secondo il principio di nazionalità. In questa prospettiva, è evidente che il rapporto quasi idilliaco che si era instaurato tra le due nazioni è destinato a cambiare la propria fisionomia. La presente ricerca intende presentare, attraverso una sorta di “istantanea”, questa trasformazione mediante un’analisi condotta su una serie di articoli apparsi, nel periodo di tempo preso in considerazione, su quattro giornali quotidiani. Si tratta del «Corriere della Sera», del «Politika» di Belgrado, del «Piccolo» di Trieste e del «Corriere delle Puglie» di Bari. Lo spoglio degli articoli del «Piccolo» viene affiancato anche dall’esame di alcuni testi tratti dal «Lavoratore», l’organo del partito socialista triestino. La tesi è composta da quattro capitoli, uno per ogni quotidiano, in modo tale da presentare in maniera parallela le diverse analisi ad essi dedicate. Ogni capitolo è idealmente suddiviso in due sezioni: cappello introduttivo e indagine sugli articoli. Il cappello introduttivo è volto a chiarire l’atteggiamento degli intellettuali e dei politici rispetto alla spartizione delle terre adriatiche nel contesto di riferimento e a ricordare in maniera sintetica l’origine e la storia della testata presa in esame. La riflessione sugli scritti giornalistici, condotta in ordine cronologico, viene presentata mediante ampie citazioni degli stessi, al fine di consentire un confronto immediato tra le ipotesi e le osservazioni che vengono proposte e la realtà dei testi effettivamente pubblicati. Ogni capitolo è chiuso da una breve conclusione in cui si cerca di individuare un ipotetico “punto della situazione” derivante dall’esame degli articoli. È presente, inoltre, un’appendice in cui vengono elencati i titoli di tutti gli articoli dei quotidiani a cui fa riferimento questo studio.
XXIV Ciclo
1980
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23

D'ambrosio, Stefano. "Il romanzo storico italiano del XXI secolo. Indagine tipologica e risvolti ideologici." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10143.

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Abstract:
2012/2013
La tesi si apre con un paragrafo introduttivo, dedicato a delineare per cenni lo scenario della produzione narrativa italiana dell’ultimo decennio sulla base di alcuni studi quantitativi che propongono una classificazione delle opere pubblicate in Italia entro una griglia articolata in cinque classi, fondate su categorie dell’immaginario narrativo. A partire dal quadro che questi studi lasciano intravedere, si prendono le mosse per introdurre la questione del romanzo storico, rendendo ragione di una produzione vasta, stratificata su più livelli, molto differenziata al proprio interno e capace di riscuotere interesse ed apprezzamento da parte del pubblico. Si accenna poi al discrimine cronologico che segna la rinascita del romanzo storico in età contemporanea: esso è dai più collocato sul finire degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Dopo aver passato in rassegna i titoli più significativi dei due decenni successivi, si prende posizione a favore della tesi della continuità tra il romanzo storico classico e la produzione più recente. Essa andrà dunque intesa non come vera e propria rifondazione del romanzo storico, bensì come momento di ritorno in auge dopo un periodo relativamente lungo di minor visibilità e di calo quantitativo. Dopo aver fatto il punto sulle più rilevanti proposte elaborate dalla critica negli ultimi trent’anni, si argomenta a favore di una definizione quanto più possibile ampia ed inclusiva, perché maggiormente funzionale a storicizzare in modo nuovo. Si sottolineano gli svantaggi dell’utilizzo dell’etichetta di ‘romanzo storico’ come categoria applicabile esclusivamente alla produzione ottocentesca e dell’introduzione di nuove etichette volte ad enfatizzare la natura irriducibile della produzione più recente alla formula e all’ideologia del romanzo storico classico. Si esplicita infine il significato che all’interno della ricerca si attribuirà all’etichetta di ‘romanzo storico’, specificando che esso è in larga misura fondato sulla definizione proposta da Vittorio Spinazzola. L’adozione di una definizione ampia ed inclusiva comporta la necessità di individuare all’interno del genere ‘romanzo storico’ alcune subcategorie dotate di una propria specifica coerenza. Per questa ragione si affronta sommariamente il nodo teorico del genere. Ci si sofferma in particolare sulle teorie elaborate in ambito semiotico ed ermeneutico, che costituiscono la cornice teorica di riferimento della ricerca. La finalità della ricerca è duplice: da un lato analizzare la fisionomia assunta dal romanzo storico contemporaneo, individuando morfologie ricorrenti, il loro rapporto con la produzione del recente passato e con la struttura del romanzo storico classico; dall’altro sondarne i risvolti ideologici per verificare se la produzione contemporanea possa essere considerata espressione di ‘impegno’. Si prende in considerazione una campionatura significativa di romanzi storici italiani editi nel decennio 2001-2010. Essi vengono organizzati in quattro subcategorie che presentano caratteristiche strutturali omogenee. In un primo filone i personaggi storici – tutti di primo piano – occupano il centro della scena narrativa e il vertice della gerarchia sociale; essi detengono il potere, da soli o in concorrenza con altri. L’epoca rappresentata coincide sempre con un potenziale bivio della storia. La rappresentazione dei fattori economici, sociali, culturali che concorrono a determinare i processi storici è del tutto marginale: la storia appare il frutto di decisioni personali, assunte nel chiuso dei palazzi e calate dall’alto sul popolo, il quale ne è il destinatario passivo. La narrazione è condotta attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, che entra in contatto con i potenti influenzandone il comportamento. Egli non appartiene al mondo del potere: per questo può raccontarlo con uno sguardo affidabile e distanziato. Dalla sua prospettiva la storia gli appare un gioco di potere, l’esito di un complotto permanente che rimane celato alle masse perché la verità è sistematicamente censurata e falsificata. Romanzi analizzati: Nella variante morfologica di romanzi storici ‘al femminile’ il livello della grande storia, intesa come insieme degli eventi rilevanti sul piano politico-militare, rimane sullo sfondo o è del tutto ignorato; oggetto di interesse è, al contrario, la rappresentazione, in un tempo e in un luogo qualunque, di un assetto sociale ingiusto e discriminatorio nei confronti delle donne, che condanna il genere femminile in quanto tale ad una condizione di marginalità ed irrilevanza universalmente condivisa e accettata, in quanto ritenuta naturale ed immutabile. Questo filone si incarica di rintracciare nel passato esempi di eroine precorritrici dei tempi, portatrici di una moderna energia e sensibilità, capaci di sfidare le convenzioni sociali, la sensibilità e la cultura della loro epoca. Si tratta dunque di una tipologia finalizzata a gratificare un pubblico incline a rappresentare se stesso quale esponente o sostenitore di un modello di femminilità dinamico e moderno, che consapevolmente persegue, con un atteggiamento percepito come una forma di militanza, un modello sociale in cui la piena parità di diritti ed opportunità sia effettivamente compiuta. L’aggregato morfologico del romanzo storico-esistenziale sceglie di concentrare l’ottica narrativa sulla microstoria, incaricandosi di raccontare piccole vicende private, personali o familiari, che si sviluppano sullo sfondo di una Storia incombente e minacciosa. Si tratta di un modo di affrontare la rappresentazione del passato che sembra perseguire programmaticamente la scomparsa della dialettica tra macro e microstoria. Il filone storico-esistenziale non si preoccupa di spiegare la Storia: i romanzi ad esso riconducibili sono accomunati dalla scelta di dare della storia una rappresentazione emotiva, in base alla quale essa appare una manifestazione sensibile del male. Il lettore di questi romanzi vede nella storia un’unica insensata carneficina: non distingue, non contestualizza, perché ha già un’idea precostituita della storia. La storia è l’attualizzazione del male che è inscritto nell’animo umano, è l’esito manifesto di un peccato originale. I romanzi storici postmoderni – quarta variante tipologica – non intendono divulgare conoscenza storica, né utilizzare il passato come metafora del presente, ma indagare la possibilità stessa di fare storia. Il rapporto diretto, aproblematico tra fatto storico e discorso storiografico viene incrinato. I quesiti posti da questi romanzi sono di natura epistemologica: vengono indagate le relazioni che si instaurano tra documento storico e narrazione su di esso fondata, viene esplicitata la natura equivoca delle fonti ed instillato il dubbio sulla loro neutralità, viene smascherato il quoziente di arbitrarietà di qualsiasi narrazione storiografica, è denunciata l’inevitabile compromissione con il potere di ogni discorso sul passato. Questi romanzi non appaiono focalizzati sulla ricostruzione di un determinato periodo storico, né sulla comprensione del passato sulla base di una logica di antecedenza/conseguenza, bensì su questioni che travalicano i limiti di un orizzonte temporale limitato per porsi in termini astorici e metastorici: più che condurre una riflessione sulla storia, riguardo alla quale postulano l’impossibilità di una conoscenza oggettiva di qualunque tipo, conducono una riflessione sulla storiografia, erodendo il confine che la separa dall’invenzione letteraria, confine percepito come infondato e artificiale. In una cornice narrativa di secondo grado, che funge da metanarrazione, viene inscenato il processo di elaborazione del discorso storiografico: si fornisce qui una rappresentazione drammatizzata del lavoro dello storico, servendosi di un personaggio che, per ragioni narrative, cerca di ricostruire il passato e di riappropriarsene, ma si trova paralizzato in una congerie di dati e di testimonianze, autentiche o fasulle, fra loro non armonizzabili, che conducono ad altrettanti vicoli ciechi Il quinto filone, dedicandosi alla ricostruzione della cultura, dell’immaginario, della sensibilità e della percezione della realtà proprie di un’epoca trascorsa, coniuga un’estrema fedeltà al dato storico con la produzione di un effetto di straniamento, che va nella direzione opposta rispetto all’esito mimetico tipico del romanzo storico. In questo aggregato testuale la narrazione è condotta attraverso il punto di vista di un narratore che condivide i parametri di una cultura estinta, totalmente estranea all’orizzonte culturale del presente, oppure di una cultura che, pur prossima alla nostra, presenti modelli cognitivi così lontani da quelli attivi nel presente, da produrre una sistematica infrazione dei parametri di verosimiglianza comunemente accettati. Il tentativo di riportare in vita il passato per mezzo della più fedele adesione ad una visione del mondo ormai tramontata sfocia paradossalmente in un effetto di irrealtà, che spalanca le porte del romance e conduce in territori affini a quelli della fiaba e del mito. Di fronte a questo modo di rappresentare la realtà e narrare la storia, assolutamente realistico dal punto di vista del narratore, ma totalmente spiazzante per il lettore radicato in un tempo e in una cultura diversi, si produce quell’esitazione di cui parla Todorov riguardo al fantastico, la cui radice consiste nella scoperta e nell’esplicitazione dell’irriducibile alterità del passato rispetto alla fisionomia del presente. L’obiettivo di questi romanzi non è però trasportare il lettore in una dimensione fantastica, bensì di spingerlo ad assumere consapevolezza degli schemi mentali che guidavano popoli lontani nello spazio e nel tempo: cioè dare una spiegazione razionale (la relatività storica delle civiltà umane) ad un iniziale effetto di esitazione o spaesamento. I risultati a cui si è pervenuti restituiscono un’immagine complessa dello scenario letterario di inizio millennio, che conferma solo parzialmente le due ipotesi sulle quali si era aperta e per le quali si rinvia al capitolo terzo. Per quanto riguarda la morfologia assunta dal romanzo storico nel periodo considerato, non trova riscontro l’assunto dell’affermazione di una struttura radicalmente nuova: accanto ad alcuni tratti di originalità, la maggior parte dei romanzi storici analizzati ripropone e contamina paradigmi consolidati. Riguardo al tema dell’impegno, l’analisi dei testi non pare evidenziare una linea di tendenza statisticamente rilevante: si può parlare di un impiego del passato con finalità di battaglia politica in un numero non significativo di casi; si tratta inoltre di un impegno non di rado viziato da un atteggiamento narcisistico e populistico.
XXV Ciclo
1975
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24

Dato, Gaetano. "L'uso delle memorie: il caso di Trieste, confine culturale e ideologico nel cuore dell'Europa 1945-1965." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8647.

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Abstract:
2011/2012
I studied the relationships between politics and religion around the sites of memory in North Adriatic border region in late modern age. This means that I have discovered how the National tradition developed in German and Austrian culture in 19th century, synthetically defined by G. Mosse’s category Nationalization of the Masses, became a foundamental paradigm both in Italian and Slovenian civil religions of the region, until the second half of 20th century. Using both Italian and Slovenian sources, I am trying to analyze the relation of Italian and Slovenian border society with their history and memory, and how these influences had affected public opinion and collective conscience.
XXV Ciclo
1981
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25

Veneri, Toni. "Geografia di stato. Il viaggio rinascimentale da Venezia a Costantinopoli fra letteratura e cartografia." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4590.

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Abstract:
2009/2010
Il procedimento innovativo di spazializzazione testuale che emerge a Venezia nel Cinquecento e caratterizza il nuovo trattamento rinascimentale delle informazioni geografiche, trova nell’Oriente e nel suo ampio e stratificato bagaglio di conoscenze precostituite un ambito privilegiato di applicazione, che si sviluppa lungo tre principali direttrici (Gerusalemme, Cambaluc, Bisanzio). Nel contesto di un declino delle utopie religiose (esemplificato dall’incontro fra il geografo Giovanni Battista Ramusio e il falso messia David Reubeni), di una rivalutazione dell’utopia politica imperiale (la riproposizione, da parte di Ramusio, dei viaggi di Marco Polo) e della tecnica di spazializzazione geografica del racconto medievale (il cronotopo storiografico dellla Quarta Crociata fissato dal figlio di Giovanni Battista, Paolo Ramusio), un importante investimento teorico e simbolico viene condotto nel Rinascimento – e attraverso i generi più diversi della produzione geografica e cartografica di cui la città è all’epoca capitale indiscussa – sull’itinerario che da Venezia si snoda lungo l’Adriatico orientale e, a seconda delle circostanze, attraversa i mari Ionio ed Egeo oppure valica per via di terra i Balcani, per raggiungere infine Costantinopoli, capitale dell’impero ottomano. Pellegrinaggio moderno e secolarizzato, questo viaggio si offre alla descrizione e al racconto, e quindi all’analisi, come oggetto unitario e discorsivo da contestualizzare nell’ambito umanistico del rinnovamento cinquecentesco delle conoscenze geografiche, della nascita dell’istituto diplomatico veneziano e dell’elaborazione di nuovi generi di scrittura letteraria. Il valore della ricerca e dell’individuazione di questo corpus si giustifica alla luce sia del suo significato quantitativo (l’itinerario da Venezia a Costantinopoli è quello che, soppiantando il tradizionale pellegrinaggio in Terrasanta, viene più descritto e narrato in assoluto durante il Rinascimento) sia del suo significato qualitativo (è il terreno di scrittura e rappresentazione in cui si sviluppa la moderna geopolitica, si promuove un discorso imperialista veneziano, si mettono alla prova nuove concettualizzazioni geografiche, si gettano le fondamenta del futuro discorso orientalista e della scrittura etnografica in generale). Oltre alle evidenti ragioni politiche ed economiche che giustificano la pratica di questo viaggio – ma non la sua incessante riscrittura – è possibile individuare gli elementi testuali che concorrono ad attribuire all’itinerario in questione un’immagine e una densità simbolica senza eguali: un contenuto utopico, veicolato principalmente dalla rappresentazione cartografica e dalle descrizioni impersonali, legato tanto al mito di Venezia quanto a quello imperiale di Costantinopoli e alla fortuna della rappresentazione idealizzata dell’isola come microcosmo; un corrispondente contenuto eterotopico che invece emerge dai racconti in prima persona che registrano l’esperienza materiale dei viaggiatori in quegli stessi spazi trasformati in luoghi dalla loro presenza; contenuti che vengono entrambi potenziati da drammatizzazioni storiografiche che svolgono un preciso ruolo politico e propagandistico nell’agenda governativa della Repubblica. Da un punto di vista metodologico questo corpus incoraggia l’integrazione di tre modalità di approccio critico (storico-letterario, teorico, interdisciplinare) che prevedono altrettanti terreni d’indagine: 1) L’analisi testuale delle descrizioni e dei racconti del viaggio cinquecentesco a Costantinopoli, nella loro graduale acquisizione di autonomia formale e nelle conseguenti possibilità di contaminazione, si articola in tre momenti, uno strategico (i quadri, le descrizioni), uno tattico (i racconti, le narrazioni), uno discorsivo (pellegrinaggi e viaggi in Oriente): dall’emergenza di una nuova inquadratura dell’area non contemplata in precedenza né dalla cartografia nautica né da quella tolemaica, alla visualizzazione in sequenza delle tappe del viaggio che negli isolari e nelle raccolte di vedute funge, oltre che da possibile alternativa cosmografica (la frammentazione in microcosmi insulari contro o a complemento della visione totalizzante della cartografia tolemaica), da inventario delle possessioni marittime veneziane, veicolo del mito di Venezia cui risponde l’immagine in bilico fra utopia e distopia della capitale ottomana; dalla pura descrizione degli scali offerta dai portolani e amplificata dalla stabilità e dalla razionalizzazione della pagina stampata, al graduale sganciamento, grazie al bilanciamento fra istanza narrativa e “medaglioni” geografici, del racconto di viaggio sia dai “blocchi” descrittivi tipici della prosa diplomatica e della trattatistica etnostoriografica sui turchi (il testo preliminare), sia dalla pura contingenza cronachistica praticata dagli stessi autori, tutti uomini di stato, ambasciatori, segretari o loro accompagnatori, nella scrittura dei loro dispacci al governo; dalla formalizzazione e standardizzazione dei capitoli descrittivi che permette di classificare le strategie all’opera nei racconti di viaggio, all’emergenza dei luoghi irripetibili dell’esperienza, ovvero delle tattiche dei viaggiatori, per i quali è possibile solo una casistica topologica in cui prendono risalto le eterotopie sottintese (Venezia), o annunciate ma raramente realizzate (Costantinopoli, il Serraglio), i luoghi della metastruttura rituale del viaggio, quelli che ne assicurano il regolare svolgimento (alloggi, luoghi di ristoro, mezzi di trasporto, chiese e luoghi istituzionali), le paratopie spesso drammatiche che invece ostacolano o ritardano il viaggio (tempeste, intemperie, aggressioni, incidenti), i luoghi che emergono per un salto nel tempo, in un passato collettivo o personale (eterocronie antiquarie, politiche, familiari), e luoghi invece in cui il viaggiatore valuta o gode direttamente del paese visitato senza descriverlo in maniera distaccata e impersonale. 2) A questa analisi storica e testuale si accompagna un’interrogazione teorica sulle nozioni applicate dalla critica per descrivere i cambiamenti epistemologici collegabili a questi testi: la scomparsa di elementi storici e religiosi (Lefebvre) da uno spazio rinascimentale fondamentalmente quantitativo e perciò da contrapporre al mondo prevalente in età medievale (Farinelli), a quello spazio di localizzazione (Foucault) strutturato su rapporti oppositivi fra luoghi qualitativi che si caratterizzano per una densità simbolica provocata dalla drammatizzazione e dalla presenza manifesta del corpo (Tuan), una competizione che dà vita al racconto di viaggio come bilanciamento o tensione fra strategie e tattiche (Certeau), fra descrizione e narrazione (Marin); l’elaborazione, in queste operazioni di spazializzazione rinascimentale, di un nuovo nesso fra spazio e tempo storiografico (il cronotopo), che chiama in causa il ruolo stesso di quest’ultimo nell’ambito della ricerca (i concetti neostoricisti di aneddoto e master narrative); infine l’utilità che queste categorie svolgono nell’individuare il viaggio da Venezia a Costantinopoli come un discorso che rappresenta storicamente uno sviluppo in controtendenza nella secolarizzazione di un precedente discorso sul viaggio (la peregrinatio medievale) sfociato nel meraviglioso periplo orientale, e allo stesso tempo una riserva di immagini che verranno risemantizzate, attraverso una loro esotizzazione, dal più tardo discorso europeo sul viaggio in Oriente (l’orientalismo). 3) L’individuazione e la valorizzazione di un corpus unitario e non univocamente letterario, ma anche cartografico e variamente scientifico o divulgativo, tanto manoscritto quanto a stampa, in relazione a un sistema umanistico di articolazione dei saperi mal tollerante rigide distinzioni disciplinari. Questo il contributo più importante che la tesi vuole offrire: oltre a indicare nella loro coerente totalità un insieme disperso di testi – alcuni dei quali per niente studiati o laddove oggetto di attenzione, frammentati in funzione di ristretti obiettivi disciplinari di volta in volta diversi – attirare l’attenzione sulle potenzialità teoriche ma anche storiografiche dell’analisi letteraria nella comprensione del ruolo politico e culturale svolto da questo corpus, fondamentale nella cultura europea per la definizione della propria geografia in base a una nuova idea di spazio e a nuove emergenti figure di alterità; mostrare che anche gli studi rinascimentali possono contribuire a dibattiti molto attuali su cosa sia lo spazio, dibattiti che sembrano esigere sempre di più operazioni di storicizzazione. Il repertorio bibliografico, pensato anche per alleggerire il discorso, offre infine uno stato aggiornato della bibliografia relativa ai testi e ai loro autori, permettendo di ripercorrerne il sostanziale intreccio in maniera più sequenziale.
XXII Ciclo
1981
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26

Mogorovich, Eliana. "Dalla realtà alla coscienza: il percorso della ritrattistica tra fine Ottocento e inizio Novecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4516.

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Abstract:
2009/2010
Il recente e diffuso interesse suscitato dalla ritrattistica nell’ambito di esposizioni di carattere nazionale ha sollecitato una riflessione sull’accoglienza ad essa riservata in un periodo cruciale della sua evoluzione, quello situato a cavallo fra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Si tratta di un momento che – data l’ascesa di una classe bisognosa di conferme dello status appena acquisito come la borghesia – ha visto il proliferare di immagini destinate all’autocelebrazione e che proprio per rispondere a tale necessità imponevano l’adozione di uno stile strettamente realistico. Tuttavia il medesimo torno d’anni coincide anche con la nascita della psicoanalisi freudiana (al 1895 risale la pubblicazione degli Studi sull’isteria, al 1899 L’interpretazione dei sogni mentre risale al 1901 la prima edizione della Psicopatologia della vita quotidiana), una rivoluzione che finì col riguardare anche le discipline artistiche e che, potenzialmente, poteva condurre a uno stravolgimento dell’approccio fotografico fino allora imposto dai committenti per le loro effigi. Il presente progetto si propone dunque l’obiettivo di individuare eventuali punti di contatto fra due filoni di ricerca finora affrontati come binari paralleli, il primo coincidente con le richieste maturate dalla situazione sociale dell’epoca e, il secondo riguardante le possibili ripercussioni connesse all’apertura di un nuovo orizzonte culturale. La ritrattistica ha conosciuto nel periodo preso in esame il passaggio da forme ufficiali e borghesi, centrate solo sulla verosimiglianza fisica e su blandi accenni al carattere dell’effigiato, a una concezione rivolta principalmente allo scavo psicologico del personaggio. Tale premessa, che può essere confermata dall’esame del catalogo di singoli autori, non trova però alcun riscontro nella stampa esaminata; gli articoli monografici e le recensioni di mostre rintracciate in “Emporium”, “L’illustrazione Italiana”, “The Studio” e “Die Künst für Alle” hanno infatti portato alla luce un panorama completamente diverso evidenziando continue e mai sanate discrepanze fra l’effettiva produzione degli artisti e quanto veniva poi riportato dalla stampa tanto in termini iconografici che di semplice citazione o descrizione. Nonostante le continue lagnanze sull’arretratezza dell’arte italiana e la proclamata intenzione di aggiornare il gusto artistico del pubblico, i quattro periodici esaminati continuano infatti a propagandare e diffondere quello che si può definire un “tono medio” della pittura, che esclude da recensioni e interventi di vario tipo tanto movimenti come l’impressionismo, il cubismo e il futurismo quanto gli autori europei più aggiornati cui talvolta si accenna solo una volta tramontata l’ondata rivoluzionaria della loro arte e sempre limitatamente alle opere meno eversive. Dal punto di vista della ritrattistica si assiste dunque a una sorta di silenzioso passaggio dal solido realismo ottocentesco alle forme pacate e immobili di Novecento, tendenza cui sembrano uniformarsi tutti i pittori italiani del nuovo secolo. La ripresa di interesse verso la rappresentazione della figura umana che contraddistingue il gruppo milanese non ha comportato, purtroppo, un effettivo aumento di ritratti riproponendo anzi le problematiche già osservate per i decenni precedenti poiché alla labilità del confine fra ritratto e pittura di genere viene a sostituirsi quella fra ritratto e semplice rappresentazione di figure per le quali non è sempre possibile stabilire il riferimento a fisionomie e caratteri individuali. Quanto fin qui osservato ha avuto come conseguenza la revisione nell’impostazione del presente lavoro in cui il mancato sviluppo di alcune parti è compensato dall’ampliamento dell’orizzonte geografico di riferimento dal momento che tanto nelle appendici poste a margine della tesi quanto nella sua prima parte sono stati inseriti autori dell’intera Penisola e stranieri allo scopo di ricostruire il panorama storico-artistico e critico del periodo considerato. Dal punto di vista operativo, dunque, i capitoli seguono una scansione temporale su base quinquennale: all’interno di ognuno è stato analizzato ogni singolo anno partendo dall’iniziale confronto fra i periodici italiani e ampliando poi la visuale su quanto pubblicato dalle riviste straniere, fonte utilizzata soprattutto dal punto di vista dell’apparato iconografico presente. La sporadica presenza di monografie dedicate ad artisti che hanno svolto principalmente l’attività di ritrattisti (presenti per lo più su “Emporium”) ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse sulla posizione assunta dai vari critici rispetto alle mostre recensite, messe fra l’altro a confronto con i cataloghi delle esposizioni stesse nel caso delle biennali veneziane e di eventi come la mostra del ritratto di Firenze del 1911, quella dell’Autoritratto organizzata dalla Famiglia Artistica di Milano nel 1916 e quella del Ritratto femminile contemporaneo ospitata nella villa Reale di Monza nel 1924. La marginalità di cui ha costantemente sofferto il filone pittorico cui ci si è dedicati si riverbera, naturalmente, su una presenza sporadica e poco significativa degli artisti veneto-giuliani ai quali, comunque, è interamente dedicato il catalogo in cui è organizzata la seconda parte della tesi. Basato sulle ricorrenze dei pittori nelle riviste esaminate, il catalogo segue la scansione in sezioni distribuite a seconda della tipologia di ritratto cui appartengono, cominciando da quelli di singoli personaggi (a loro volta distinti fra ritratti muliebri, virili e effigi di critici d’arte), ritratti di gruppo, ritratti di artisti e autoritratti, sezione quest’ultima che vede l’inclusione delle opere facenti parte della collezione di autoritratti della Galleria degli Uffizi, assunta come evidente certificato di importanza dell’autore cui l’opera è stata richiesta o da cui è stata donata. Ogni sezione è aperta da una breve introduzione che prevede, per la parte degli autoritratti, il riferimento ai più recenti studi inerenti la relazione fra arte e psicanalisi, anche in virtù del fatto che la destinazione eminentemente privata di questi lavori consentiva all’autore una maggiore libertà stilistica e un più sincero dialogo con il proprio modello. Il lavoro di tesi è completato dal catalogo delle opere ritenute più significative per ciascuna sezione e dalle appendici critiche tratte da “Emporium” e “L’Illustrazione Italiana”.
XXIII Ciclo
1978
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27

Kapelj, Sara. "L'"Italia d'Oltremare": razzismo e costruzione dell'alterità africana negli articoli etnografici e nel romanzo "I prigionieri del sole"." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7407.

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Abstract:
2010/2011
L’intento del mio lavoro è quello di offrire una presentazione e una lettura di una rivista, «L’Italia d’Oltremare», che uscì a Roma tra la fine del 1936 e il settembre del 1943. Si tratta di un quindicinale, diretto da Osea Felici e parzialmente finanziato dal Ministero delle colonie, che aveva come scopo dichiarato quello di avvicinare gli italiani alle questioni legate al neonato “impero coloniale” in Africa. Questa rivista, pur presentando alcune caratteristiche che la rendono degna di attenzione per il posto che occupa nella storia del colonialismo e del razzismo nella cultura italiana, non è mai stata studiata in modo sistematico. A differenza di altre testate dell’epoca, «L’Italia d’Oltremare» non fa riferimenti specifici ad atteggiamenti o posizioni dichiaratamente razziste, eppure tali discorsi si insinuano sottilmente tra le pagine acquisendo forza e rilevanza significative. Questo periodico, dunque, pur non offrendo ai propri lettori degli articoli in cui si faceva esplicitamente riferimento alle teorie e alle politiche razziali elaborate e messe in atto dal regime, riuscì ugualmente a diffondere stereotipi e luoghi comuni sugli abitanti dell’Africa in grado di incrementare sentimenti razzisti e di spiegare il senso e la necessità delle leggi razziali. Lo scopo di questo mio lavoro è quello di analizzare e riflettere sul modo in cui tutto questo riuscì a farsi strada, sulle diverse modalità di discorso adottate nei diversi articoli e dai diversi autori che scrissero sulle pagine dell’«Italia d’Oltremare», sulle costruzioni narrative che riuscirono a mettere in atto dispositivi di legittimazione del razzismo, senza per questo aderirvi apertamente. Il primo capitolo è dedicato alla presentazione della storia, degli obiettivi e degli argomenti dell’«Italia d’Oltremare». In un primo momento, fornisco dei “dati tecnici” funzionali sia alla lettura della rivista stessa sia alla sua contestualizzazione all’interno del panorama giornalistico contemporaneo. Successivamente, attraverso l’analisi del primo articolo pubblicato (La consegna), illustro gli obiettivi che il direttore e i redattori perseguivano. Infine, propongo una divisione degli articoli in cinque categorie: politica, economia, cronaca, cultura ed etnografia. Di queste, le prime quattro vengono considerate in questo capitolo, mentre, agli articoli etnografici è dedicata la parte successiva. La classificazione degli articoli in categorie tematiche mi permette da un lato di esporre gli argomenti trattati nel corso degli otto anni di vita del periodico, dall’altro di dimostrare come il tema del razzismo, pur non venendo affrontato da un gruppo specifico di scritti, attraversasse tutte le categorie individuate. Infatti, la rivista di Felici non insiste esplicitamente sull’immoralità della pratica del madamato, sull’accusa di «lesione del prestigio di razza» o sulle relative sanzioni previste dalla legge. Tuttavia, gli articoli di qualsiasi categoria sono pieni di riferimenti volti a sottolineare l’inferiorità razziale dei neri. Tale inferiorità assume una duplice funzione: giustificare il colonialismo e scongiurare il pericolo della contaminazione razziale. Nella seconda parte, mi concentro sugli articoli di argomento etnografico dell’«Italia d’Oltremare». Questo gruppo di articoli rappresenta il canale principale attraverso il quale la rivista di Felici veicolò sentimenti razzisti nei confronti delle popolazioni delle colonie. Dopo aver parlato del ruolo che il fascismo assegnò all’etnografia, presento i temi e i toni di un dibattito che si sviluppò tra il 1940 e il 1941 tra le pagine della rivista, a proposito del ruolo che questa disciplina avrebbe dovuto assumere in relazione alle politiche coloniali. Infine, illustro in che modo, attraverso quali immagini e con quali stratagemmi stilistici, gli autori degli articoli etnografici costruirono l’ambiente coloniale e i suoi abitanti. Le descrizioni etnografiche ripropongono in una veste “scientifica” idee e immagini dell’alterità africana già consolidate all’interno del senso comune. L’ultima parte di questo lavoro si concentra sull’analisi dei Prigionieri del sole (Vita dei concessionari di Genale), il romanzo di Dante Saccani, la cui prima parte è uscita a puntate sull’«Italia d’Oltremare» nel 1939. Dopo aver individuato le caratteristiche principali dei romanzi coloniali degli anni Trenta, cerco di inserire I prigionieri del sole all’interno del panorama letterario rappresentato da queste opere. Infine, mi concentro sul ruolo giocato dal razzismo che, nell’opera di Saccani, non solo determina le caratteristiche dei personaggi, ma svolge anche una funzione narrativa. Anche il romanzo, come gli articoli etnografici, ha, quindi, contribuito a diffondere un’immagine degradante degli abitanti delle colonie, costruita in opposizione a quella del uomo nuovo fascista e volta a consolidare negli italiani la certezza della propria superiorità razziale. Siccome la versione integrale del romanzo di Saccani non è mai uscita in volume, riporto in una prima appendice la parte dei Prigionieri del sole pubblicata dell’«Italia d’Oltremare», mentre, in una seconda appendice, pubblico gli indici complessivi della rivista, suddivisi per anno e per numero.
XXIV Ciclo
1983
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28

Bencich, Marco. "Protagonisti e correnti del sionismo italiano fra Otto e Novecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10010.

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Abstract:
2012/2013
Questo lavoro ha avuto come oggetto di studio l'attività del movimento sionista nella penisola italiana tra Otto e Novecento, e più nello specifico sono stati analizzati il processo di diffusione della sua ideologia e i suoi maggiori esponenti a livello nazionale. Nel contempo è stato esaminato il particolare ruolo propagandistico della stampa ebraica attraverso un continuo confronto delle differenti opinioni e posizioni delle singole riviste sioniste e filo-sioniste italiane riguardo ad alcune delle principali questioni messe in campo dal movimento ebraico di rinascita nazionale. I periodici sono stati altresì utilizzati per esaminare quelle che furono le reazioni dei sionisti italiani di fronte ai maggiori eventi che toccarono direttamente o indirettamente la comunità ebraica (italiana e internazionale) tra Otto e Novecento. Un lavoro dunque sulle idee e gli atteggiamenti, sulle polemiche e le contraddizioni, che contraddistinsero il sionismo italiano tra la fine dell'Ottocento e il primo ventennio del Novecento. Il periodo esaminato è senz'altro fra i più interessanti, ma difficili e convulsi, della storia ebraica italiana. All'inizio del Novecento l'ebraismo italiano era immerso nel clima liberale dell'epoca post-emancipazionista: in gran parte della popolazione ebraica l'uscita dai ghetti fu intesa e vissuta come libertà da se stessi, ovvero dal mondo ebraico. La conseguenza più evidente di questa nuova condizione dell'ebraismo italiano fu la disgregazione del concetto unitario e globale della vita ebraica e la sua riduzione ad un mero fenomeno religioso, ovvero di coscienza personale. Il movimento sionista ebbe il merito di mettere a nudo le contraddizioni che erano emerse all'interno delle Comunità italiane in seguito ai processi di emancipazione e integrazione. Nella ricerca si sono impiegate e confrontate tre differenti tipologie di fonti: pubblicazioni a stampa (articoli e opuscoli), lettere private e documenti ufficiali della Federazione Sionistica Italiana e dei vari Circoli locali (corrispondenza del Presidente della Federazione, verbali, volantini di propaganda). Il lavoro si articola in otto capitoli, di cui i primi quattro sono organizzati in prevalenza su base tematica mentre gli ultimi seguono lo sviluppo prettamente cronologico del sionismo italiano. Il primo capitolo ha carattere introduttivo: vi presento una problematizzazione storiografica sulla questione dell'identità ebraica dopo l'emancipazione. Il secondo capitolo contiene uno studio sui periodici sionisti e filo-sionisti in lingua italiana, la fonte principale di questo lavoro, e i loro principi ispiratori, che per molti versi furono dissimili gli uni dagli altri; nel terzo cerco invece di estrinsecare le varie declinazioni che il concetto di «sionismo» assunse nelle riflessioni dei sionisti italiani. I capitoli dal quarto all'ottavo analizzano lo sviluppo del sionismo italiano fino alla prima Guerra Mondiale, con particolare attenzione ai suoi rapporti con il movimento internazionale (capitolo IV) e le conseguenze che su di esso ebbero i conflitti bellici dello Stato italiano (capitolo VIII); uno dei punti nodali del presente lavoro è rappresentato dall'ascesa e crisi dell'attivismo sionista in Italia (capitoli V e VI).
XXV Ciclo
1981
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29

Valentini, Francesca. "RICEZIONI, TRADUZIONI E RISCRITTURE. IL CASO CUBANO." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11000.

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Abstract:
2012/2013
Il presente studio ha come obiettivo quello di mettere in luce le relazioni che esistono tra la letteratura italiana e quella cubana. Partendo dall’analisi generale del boom delle letterature sudamericane degli anni ’60, fenomeno che ha interessato l’Europa in generale, è stato possibile stabilire come l’esperienza cubana abbia rivestito un ruolo fondamentale all’interno del mercato editoriale italiano per la peculiare opera di mediazione culturale di Giangiacomo Feltrinelli, Alba de Céspedes e Italo Calvino. Attraverso lo studio delle problematiche che riguardano la ricezione è stato sottolineato il ruolo degli stereotipi culturali che hanno condizionato la lettura delle prime opere tradotte e i fattori che hanno determinato la delineazione di un canone letterario sudamericano e cubano in particolare. L’analisi delle tendenze generali della traduttologia ha messo in evidenza i limiti delle traduzioni per quanto concerne sia la poesia che la narrativa cubana. L’ultima sezione dello studio si occupa della ricezione da parte degli intellettuali italiani delle opere cubane ponendo l’attenzione sul richiamo del capolavoro di José Lezama Lima nel Petrolio pasoliniano.
The present study aims to underline the relationships that exist between the Italian and the Cuban literature. Starting from the analysis of the general boom in Latin American literature of the '60s, a phenomenon that has affected Europe in general, be established as the Cuban experience has played a key role within the Italian publishing market for the particular work cultural mediation of Giangiacomo Feltrinelli, Alba de Céspedes and Italo Calvino. Through the study of the issues concerning the reception was stressed the role of cultural stereotypes that have influenced the reading of the first works translated and the factors that led to the delineation of a literary canon South American and Cuban in particular. The analysis of the general trends of the translations it has highlighted the limits in terms of both the poetry that the Cuban narrative. The last section of the study deals with the reception by the works of Italian intellectuals Cuban focusing on the recall of the masterpiece by José Lezama Lima in Petrolio by Pasolini
El presente estudio pretende arrojar luz sobre las relaciones que existen entre la literatura italiana y la de Cuba. A partir del análisis del boom general de la literatura latinoamericana de los años 60, un fenómeno que ha afectado a Europa en general, se establecerá como la experiencia cubana ha desempeñado un papel clave en el mercado de la edición italiana de la obra en particular mediación cultural de Giangiacomo Feltrinelli, Alba de Céspedes e Italo Calvino. A través del estudio de las cuestiones relativas a la recepción se destacó el papel de los estereotipos culturales que han influido en la lectura de las primeras obras traducidas y los factores que llevaron a la delimitación de un canon literario latinoamericano y cubano en particular. El análisis de las tendencias generales de las traducciones que ha puesto de relieve los límites en términos tanto de la poesía que la narrativa cubana. La última sección del estudio se refiere a la recepción de las obras cubanas de los intelectuales italianos, poniendo la atención en la retirada de la obra maestra de José Lezama Lima en Petrolio de Pasolini.
XXVI Ciclo
1983
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30

Miklic, Vanja. "Le Comunità greca e illirica di Trieste: dalla separazione ecclesiastica alla collaborazione economica (XVIII - XIX secolo)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10079.

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Abstract:
2012/2013
Nel XVIII secolo, in seguito alla dichiarazione del Porto franco, Trieste si trasformò in una città-porto cosmopolita. Le nuove comunità etnico-religiose, e in particolar modo i greci, gli illirici e gli ebrei usufruirono della favorevole politica economica, dei privilegi commerciali ma soprattutto dell’alto livello di tolleranza religiosa garantiti dal governo asburgico. Questo atteggiamento imperiale contribuì a consolidare la fiducia delle comunità immigrate nel governo centrale, e a diminuire la sensazione di estraneità favorendo la loro integrazione. I greci e gli illirici parteciparono attivamente allo sviluppo di tutti i rami dell’economia triestina. Si occuparono prevalentemente del commercio al minuto e all’ingrosso monopolizzando quasi esclusivamente il commercio con il Levante grazie alla creazione delle reti intra-famigliari basate sulla fiducia, reputazione e reciprocità. I greci furono più propensi verso il settore commerciale mentre il settore armatoriale rappresentava il punto di forza degli illirici. Come conseguenza diretta dell’aumento dei commerci marittimi con il Levante, dello sviluppo del settore armatoriale e dell’accumulo di capitale, sorsero le prime società assicurative. Anche in questo settore l’intensa collaborazione greco-illirica, condusse all’accentramento del potere nelle mani dell’élite commerciale ortodossa. Il benessere economico dei greci e degli illirici, risultato delle fiorenti attività imprenditoriali, si concretizzò anche in cultura, mecenatismo e possesso immobiliare.
In the eighteenth century, following the declaration of the Free Port, Trieste became a cosmopolitan port-city. The new ethno-religious communities, and especially the Greeks, the Illyrians and the Jews took advantage of the favorable economic policy, trade privileges, and especially the high level of religious tolerance guaranteed by the Habsburg government. This imperial attitude helped to consolidate the trust of immigrant communities in the central government, and reduce the feeling of alienation by fostering their integration. The Greeks and Illyrians participated actively in the development of all branches of the economy of Trieste. They were involved mainly in retail trade and wholesale almost exclusively monopolizing trade with the Levant through the creation of intra-family networks based on trust, reputation and reciprocity. The Greeks were more prone to the commercial sector while the Illyrians were more prone to the shipping. As a direct result of increased maritime trade with the Levant, the development of the shipping sector and the accumulation of capital, first insurance companies were founded. The intense Greek-Illyrian collaboration, in this sector resulted with the centralization of power by the Orthodox commercial élite. The economic prosperity of the Greeks and Illyrians as result of the flourishing business activities, found its expression in culture, patronage and real estate possession.
XXV Ciclo
1983
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31

Londero, Igor. "Felice Ippolito intellettuale e grand commis - La ricerca nucleare in Italia dal dopoguerra al primo centrosinistra." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8618.

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Abstract:
2011/2012
Lo studio della fisica nucleare in Italia ebbe il suo mito fondativo nelle vicende dei “ragazzi di via Panisperna”, dal nome della via romana in cui sorgevano i laboratori diretti da Enrico Fermi. Dopo aver raggiunto la fama mondiale (in particolare con il Nobel per la fisica di Fermi nel 1938), il gruppo fu disperso a causa della politica (sia razziale che scientifica) del regime fascista. Mentre Fermi ed altri, espatriati in America, davano il proprio determinante contributo alla realizzazione della bomba atomica, in Italia rimase il solo Edoardo Amaldi che, nel dopoguerra, si trovò ad essere, nel Paese e fuori, un fondamentale punto di riferimento per la fisica italiana. Nell’immediato dopoguerra, a fronte di un sostanziale disinteresse del Governo italiano in materia di ricerca, furono le industrie elettriche private a muovere i primi passi verso la ricerca e lo sviluppo della tecnologia nucleare, concedendo il proprio appoggio ad alcuni giovani ricercatori del Politecnico di Milano che diedero vita al CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze). Parallelamente, la “comunità dei fisici” iniziava a ritagliarsi un proprio spazio autonomo di manovra. Nel 1951 i gruppi universitari che si occupavano di fisica fondamentale diedero vita all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) mentre l'anno successivo, non senza attriti con il CISE, il Ministero dell'Industria appoggiò la creazione del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN), incaricato di promuovere e occuparsi della fisica nucleare applicata. Alla presidenza fu nominato Francesco Giordani, chimico napoletano legato all'IRI ed agli ambienti del neo meridionalismo. Il Comitato, che solo nel 1960 fu mutato in CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) ottenendo la necessaria personalità giuridica, dovette costantemente far fronte alle difficoltà derivanti dalla propria fragilità istituzionale e dalle continue tensioni con l'industria elettrica privata. Ciononostante, sotto la guida del suo Segretario Generale Felice Ippolito, riuscì a dar vita ad importanti realizzazioni (come il Sincrotrone di Frascati o il Centro di ricerche nucleari di Ispra) e diede l'impulso fondamentale che portò alla costruzione, nei primi anni '60, delle prime centrali nucleari in Italia. Questo “periodo aureo” della fisica nucleare applicata iniziò a finire nell’agosto del 1963 quando una dura campagna stampa prese a mettere in discussione le gestione di Ippolito che si ritrovò al centro di un “caso” che da mediatico si fece ben presto giuridico e portò, nel marzo del 1964, all'arresto del Segretario Generale del CNEN per irregolarità amministrative. “Il caso Ippolito”, lungi dall’essere solo un processo per un isolato caso di malversazione, di fatto sancì la fine della ricerca e dello sviluppo del nucleare in Italia, facendo piazza pulita non solo dei progetti di nuove centrali atomiche, ma anche di un certo tipo di gestione degli enti pubblici che aveva fatto dell’elasticità amministrativa il proprio punto di forza, laddove in seguito si impose la burocratizzazione e la lottizzazione politica. Nella tesi in esame ho tentato di individuare, all'interno di un campo di ricerca così vario e così ricco di spunti collocati a cavallo di più discipline storiche (storia e filosofia della scienza, dell'economica e dell'industria, della cultura e della politica, delle relazioni internazionali), alcuni snodi focali ed emblematici che permettessero di sviluppare un percorso di indagine su quello che appariva come un meraviglioso tentativo di far recuperare all'Italia il tempo perduto a causa del regime fascista, in termini di sviluppo tecnologico e scientifico, ma anche culturale e politico. Tale tentativo ottenne risultati di rilievo mondiale nel dopoguerra ma andò incontro ad una nuova sconfitta, nei primi anni '60, quando emerse l'incapacità dello Stato di riformare se stesso per tener dietro ai rapidi mutamenti, non solo tecnici, che la tecnologia d'eccellenza pretende per mantenersi tale. Fin dall'inizio ho individuato in Felice Ippolito il trait d'union tra i fatti caratterizzanti le vicende trattate. Interessato alla ricerca nucleare quale geologo esperto in prospezioni minerarie, in seguito venne nominato Segretario Generale del CNRN e si trovò a rivestire un ruolo chiave, emblematico e rappresentativo, all'interno di un complesso ambiente culturale composto da intellettuali, scienziati ed alti funzionari che parteciparono ad una rete di rapporti all'interno della quale si elaborarono delle organiche strategie di sviluppo per il Paese. Ippolito divenne referente e portavoce di una comunità scientifica che si caratterizzava in quegli anni per il suo rapporto estremamente dialettico e consapevole con tutte le componenti della società, dalla classe politica al mondo dell'industria e dell'economica, dal mondo della cultura alle classi subalterne. Per comprendere l'incontro tra Ippolito e la comunità dei fisici, ho ritenuto di iniziare la tesi con un accenno all'esperienza dei “ragazzi di via Panisperna” e di Enrico Fermi, in particolare. La partenza in treno di Fermi per Stoccolma, il 6 dicembre 1938, dove avrebbe ritirato il premio Nobel prima di espatriare negli Stati Uniti (in fuga dalle leggi razziali ma soprattutto dall'incapacità del regime fascista di comprenderne e sostenerne le iniziative), è stata presentata come evento simbolico e metaforico della perdita di un primo “treno per la modernità” da parte dell'Italia. L'attenzione è stata posta soprattutto su chi rimase sulla banchina di quella stazione, ovvero Edoardo Amaldi, che pur con molti dubbi alla fine scelse di rimanere in Italia diventando il punto di riferimento per eccellenza, in virtù del suo carisma scientifico ed umano, della comunità dei fisici italiani nel dopoguerra. In particolare ho messo in evidenza il rafforzarsi in Amaldi di un punto di vista autonomo su quello che doveva essere il rapporto tra la ricerca scientifica ed il mondo della politica e dell'industria. Mentre oltreoceano Fermi delegava al Governo la valutazione etica e la gestione dei risultati del proprio lavoro scientifico, in Italia il suo allievo Amaldi fin dal dopoguerra iniziò a tessere una rete di rapporti, con l'industria e le aziende controllate dallo Stato, caratterizzati da alcuni principi imprescindibili. Quando gli industriali elettrici privati lo chiamarono al CISE, Amaldi pose perentorie condizioni alla propria partecipazione, come la difesa della sua autonomia scientifica, il rifiuto di ogni principio di segretezza, ed il fatto che la ricerca doveva andare a beneficio dell'intera collettività e non a vantaggio di pochi gruppi privati. Dopo aver delineato alcuni elementi della figura di Amaldi, ho concentrato il mio interesse su Ippolito e sui suoi rapporti con l'ambiente culturale napoletano, liberale e meridionalista, di cui anche Francesco Giordani faceva parte. Attraverso la bibliografia e gli archivi dell'ente, ho esaminato la nascita del CNRN sull'asse Ippolito-Giordani-Pietro Campilli (il Ministro dell'Industria che sostenne il progetto) e di seguito l'insorgere delle tensioni con il CISE e l'industria privata. L'obiettivo è stato di mettere in evidenza l'estrema “coerenza” dell'incontro tra i fisici rappresentati da Amaldi e la politica scientifica portata avanti da Ippolito e Giordani, capaci di soddisfarne sia le ambizioni tecnico scientifiche che etiche e politiche. Con un capitolo intermedio, su tematiche di politica nucleare internazionale, ho introdotto il tema dell'iniziatica Atoms for peace, lanciata dal Presidente americano Eisenhower, che prospettava una politica di disarmo atomico fondata sulla socializzazione della tecnologia nucleare ad uso civile. Rinunciando a proporre un inquadramento storiografico e critico complessivo, ho scelto di render conto della rappresentazione offerta da uno dei protagonisti di quegli anni, ovvero il francese Bertrand Goldschmidt, che influenzò grandemente il punto di vista di Ippolito e degli Amici del Mondo (cui Ippolito si legò) e che oggi testimonia in maniera particolarmente efficace il clima di “euforia atomica” che determinò allora fondamentali scelte di politica energetica europea. L'iniziativa Atoms for Peace diede l'occasione ad Ippolito di avviare un'intesa collaborazione con l'ambiente culturale che ruotava attorno alla rivista «Il Mondo» diretta da Mario Pannunzio e che in quel momento si presentava come la fucina, di stampo liberale radicale, dei progetti politici che portarono in seguito al Centrosinistra. Ripercorrendo le pagine della rivista ho messo in evidenza un percorso di progressiva presa di coscienza sulla questione nucleare. Se fino all'iniziativa Atoms for Peace erano considerate solo le applicazioni militari di tale tecnologia, in seguito e anche grazie all'intervento di Ippolito, il dibattito sul nucleare venne connesso alla questione della produzione energetica vista nella prospettiva della lotta contro i monopoli e per la nazionalizzazione del settore. Su questi temi centrali in quella fase politica (sulla nazionalizzazione del settore elettrico si giocò la battaglia fondamentale per il Centrosinistra), Ippolito in particolare, a metà degli anni '50, iniziò a tessere un discorso unitario tra crescente richiesta energetica, sviluppo della tecnologia nucleare e necessaria nazionalizzazione. Coerenti a questa linea iniziarono ad apparire su «Il Mondo» i “Dialoghi plutonici” di Ernesto Rossi che testimoniavano i rapporti sempre più stretti tra Ippolito e la rivista, nel contesto delle vicissitudini politiche che portarono alla nascita del Partito Radicale ed ai convegni degli Amici del Mondo “La lotta contro i monopoli” e “Atomo ed elettricità”. Usando gli atti dei convegni e analizzando i molti articoli in merito apparsi sulla rivista, ho messo in evidenza il processo che portò, a partire dalle posizioni antistataliste sempre sostenute sulle pagine di «Il Mondo» in particolare da Rossi, al definirsi della presa di posizione nazionalizzatrice espressa durante il convegno “La lotta contro i monopoli”. Del seminario “Atomo ed elettricità” ho ritenuto di particolare interesse l'identificazione operata dai relatori tra esigenze tecnico-scientifiche dell'energia nucleare e opzione nazionalizzatrice che portò ad una lettura prettamente politica delle scelte tecniche da operare in materia di filiere tecnologiche. Lettura che, come evidenzieremo, Ippolito non condividerà a favore di un approccio che preferisce le soluzioni particolari alle analisi universali. Atoms for Peace comporta un rilancio generale della politica nucleare italiana anche in termini di “gara atomica” tra ricerca e sviluppo pubblici e privati. In particolare, ho esaminato il crescente clima di ostilità tra il CNRN e l'industria privata (l'Edison in particolare) e le cause che portarono alle dimissioni di Giordani dalla Presidenza del Comitato. In un capitolo titolato “Come Mattei all'Agip” ho delineato le difficoltà istituzionali che dovette affrontare Ippolito da segretario plenipotenziario del CNRN ed il conseguente sviluppo di un modus operandi problematico che ebbe importanti conseguenze nella creazione del “caso” che sarebbe esploso. Tra le molte vicissitudini del CNRN ho seguito soprattutto il processo che portò alla costruzione delle prime centrali atomiche in Italia con particolar attenzione alla collaborazione tra CNRN e Banca Mondiale che portò alla costruzione della centrale di Garigliano e che sintetizzò istanze meridionaliste e nucleariste. Con il capitolo “Dal CNRN al CNEN” ho esaminato il percorso politico che portò alla nascita del CNEN nel contesto delle trattative per il primo Governo di Centrosinistra e della nazionalizzazione dell'energia elettrica. L'obiettivo è stato in particolare mettere in evidenza le tensioni che andarono delineandosi all'interno del nuovo ente elettrico, l'ENEL, tra le posizioni rappresentate dal Direttore Generale Angelini ed il consigliere Ippolito. Negli ultimi due capitoli ho riassunto in modo antologico l'aspetto più ampiamente trattato dalla storiografia esistente sul tema, ovvero il “caso” mediatico e giuridico che prese il nome del Segretario Generale del CNEN e che portò alla sua incarcerazione. Oltre alla fase processuale, ho ricostruito il quadro politico e gli avvenimenti che portarono alla messa in stato di accusa di Ippolito, nell'estate del 1963, ed alla sua incarcerazione l'anno successivo, che ebbero come diretta conseguenza il drastico ridimensionamento dei programmi nucleari del CNEN. Infine ho proposto un'analisi delle ipotesi interpretative date al “caso Ippolito” evidenziando anche alcuni aspetti che, per varie ragioni, non sono stati ancora indagati. In ultima analisi il presente studio tenta di mettere in luce la complessità della materia trattata che, pur prestandosi per molte ragioni alle semplificazioni complottistiche e dietrologiche di stampo giornalistico, risulta incomprensibile senza una contestualizzazione capace di connettere il percorso della fisica nucleare italiana (che a partire dall'esperienza dei “ragazzi di via Panisperna” tende a pensarsi e muoversi come una “comunità” portatrice di propri interessi e ideali), il dibattito filosofico, culturale e tecnico sulle ragioni e sui mezzi dell'intervento dello Stato nell'economia e sul ruolo di intellettuali e scienziati nella società, ed infine la storia politica italiana, europea ed internazionale che portò alla nascita del Centrosinistra.
XXIV Ciclo
1975
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32

Di, Donfrancesco Dario. "La vela, la ruota, il pedale e il vapore. Viaggi, paesaggi adriatici e mezzi di trasporto." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7411.

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Abstract:
2010/2011
Tra le varie (e non ancora compiutamente classificate o precisate) modalità dell’interazione di un qualsiasi genere o sottogenere letterario con l’atto descrittivo (che spesso agisce sulla rielaborazione stilistico-descrittiva del paesaggio) o con l’eventuale assetto odeporico, è possibile individuare quella relativa agli stimolanti rapporti strutturali e multidisciplinari che queste scritture stabiliscono nell’impianto testuale generale con la presenza e l’azione dei mezzi di trasporto, considerabili nella gran parte dei casi come vere e proprie “scatole socioculturali” e mobili sorgenti visive. Questa interazione, preziosa e atipica, si rivela elemento letterario spesso ingiustamente trascurato nelle analisi critiche delle opere in prosa. L’idea centrale che sta alla base di questo studio è proprio l’applicazione di queste osservazioni all’affascinante conglomerato storico, sociale e letterario formato dall’area delimitata dal Mar Adriatico, con i suoi retaggi storici e socioculturali, qui intesa come territorio geograficamente molto ampio, dai contorni sfumati, non strettamente e acriticamente identificabili con i confini politici o con le rappresentazioni cartografiche delle mappe. Il mezzo di trasporto non è soltanto un elemento di cui la critica odeporica e quella tematica hanno sempre tenuto conto quando si è trattato di meglio delineare e approfondire i diversi filoni, generi e sottogeneri della cosiddetta “letteratura di viaggio”. Esso si inserisce in maniera determinante anche nel rapporto tra paesaggio, visione e rappresentazione letteraria, soprattutto dal punto di vista sociologico o antropologico, entrando non di rado a far parte integrante della fase panoramico-descrittiva adriatica, tramutandosi dunque esso stesso in elemento paesaggistico primario. Questa particolare modalità di interazione tra viaggio, paesaggio e mezzo di trasporto negli orizzonti adriatici o para-adriatici, non essendo definibile come “tema” per le ragioni teoriche che si esporranno nell’introduzione del lavoro, è stata qualificata come “sottomotivo” o “sotto-topos” adriatico, per meglio trasmettere e precisare il senso di originalità del fulcro tematico della tesi e soprattutto perché questa interazione, a mio parere, delinea una modalità adriatico-letteraria talmente soffusa e sfuggente, spesso così faticosamente intuibile nelle sue realizzazioni testuali, da non essere idonea a costituire un’autonoma tipologia di motivo o topos delimitabile con precisione classificatoria o definitoria. I testi-campione che costituiscono il corpus delle opere prese in esame si presentano in un certo senso “trasversali” rispetto a generi e forme, sebbene consistano soprattutto in resoconti odeporici e in produzioni della letteratura di viaggio in senso ampio, anche quella di finzione (e nell’introduzione alla tesi sarà dato conto di questo sdoppiamento definitorio da me prospettato), nonché su romanzi e racconti relativi all’area adriatica, tutti redatti a partire dalle prime decadi del XIX secolo, quando l’invenzione del vapore cominciava a modificare la navigazione, il viaggio e le comunicazioni, man mano che si perfezionavano invenzioni come la vaporiera, il treno, l’automobile, la bicicletta. Il primo capitolo della tesi, quello più corposo, è dedicato alle navi e ai mezzi nautici in generale ed è diviso in tre paragrafi: il primo si concentra sull’alto Adriatico, tenendo conto delle sottocategorie geografiche lagunari e fluviali, partendo dall’analisi di alcune opere di Biagio Marin, per arrivare a Claudio Magris o Emilio Rigatti. Si prosegue con i pochi testi relativi alla zona del medio e basso Adriatico occidentale, per concentrarsi poi su quella orientale, abbracciando un’area che va dal Quarnero all’Albania (compresa una porzione di territorio balcanico) e con estremi cronologici che vanno da alcune “scintille” di Tommaseo o dai resoconti di Mantegazza, fino a testi recenti come quelli di Paolo Rumiz o Hans Kitzmüller. Il secondo capitolo si concentra esclusivamente sui treni e presenta una struttura similare al precedente, con tre paragrafi che analizzano testi che non possono fare a meno di raccontare un Adriatico costiero tutto italiano, non essendo la strada ferrata una prerogativa del versante orientale. Si comincia anche in questo caso con l’Adriatico del nord, fotografato non solo tramite opere otto-novecentesche di una certa fama ma anche, per così dire, “minori”. Lo stesso impianto è utilizzato per il paragrafo dedicato all’area adriatica centro-meridionale, mentre il terzo paragrafo insiste sulla percezione del paesaggio dell’intero litorale italiano, colto nella sua dimensione di continuum geografico e costiero. Il terzo capitolo della tesi opera invece sulle interazioni tra l’area adriatica e i mezzi di trasporto a quattro ruote, a prescindere dalla loro tipologia di trazione o destinazione d’uso. Ad approfondire le interazioni letterarie con il paesaggio e la storia dell’Adriatico saranno dunque le autovetture, le carrozze, le vetture di servizio pubblico e, sorvolando sul cortocircuito tematico, una motocicletta (in viaggio per l’Albania). Il capitolo è diviso in quattro paragrafi, che analizzeranno rispettivamente l’area dell’alto Adriatico, il settore centro meridionale del versante italiano, l’Adriatico “fluviale” italiano con le foci del Po e il versante orientale, tra isole dalmate, area para-balcanica e Albania. Toccherà alla bicicletta chiudere la tesi, con un capitolo, il quarto, interamente dedicato a essa, dalla struttura interna meno articolata rispetto ai precedenti. Un estremo dell’arco cronologico tracciato è rappresentato dalle opere di Alfredo Oriani, l’altro, quello più recente, da cicloviaggiatori contemporanei come Emilio Rigatti o Matteo Scarabelli: è interessante notare come tutte le opere presenti nel quarto capitolo consistano esclusivamente in letteratura odeporica, trattandosi di resoconti inquadrabili nel true travel account, sebbene redatti in forme diverse. Ogni capitolo prevede un breve cappello introduttivo che inquadra la situazione storico-critica di quel mezzo di trasporto nella letteratura e illustra la metodologia adottata per delineare ed esporre il rapporto tra esso e il sottomotivo adriatico oggetto della tesi.
XXIV Ciclo
1975
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33

Bullian, Enrico. "La sicurezza sul lavoro e la navalmeccanica dal secondo dopoguerra a oggi. Il caso del cantiere di Monfalcone." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/10260.

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Abstract:
2011/2012
La tesi ha l’obiettivo di indagare l’evoluzione della gestione della sicurezza sul lavoro nell’Italia del Novecento e in particolare del secondo dopoguerra. L’attenzione viene focalizzata sul caso specifico della navalmeccanica e del Cantiere di Monfalcone, anche in chiave comparata con un approfondimento sul periodo fra gli anni Sessanta e Ottanta. I primi 3 capitoli si occupano della sicurezza sul lavoro in Italia nella seconda metà del Novecento, mentre i capp. 4-6 trattano della salute operaia nel Cantiere di Monfalcone e negli altri stabilimenti navali. In ogni capitolo si affronta il problema in termini riferibili sia agli infortuni sia alle malattie professionali, svolgendo approfondimenti specifici sull’esposizione all’amianto.
XXIV Ciclo
1983
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34

Nuovo, Lorenzo. "La pagina d'arte de "Il Mondo" di Mario Pannunzio (1949-1966)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3633.

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Abstract:
2008/2009
Nel panorama degli studi di storia della critica figurativa del secondo dopoguerra, manca una disamina delle posizioni degli autori della pagina d’arte del periodico romano “Il Mondo” . Studi - raccolte di documenti, indagini sul rapporto tra arte e critica militante in Italia e affondi sulla trasformazione del vocabolario visivo tra anni Quaranta e Cinquanta - che, anche quando hanno centrato la propria attenzione su periodici o giornali non specialistici, hanno sempre finito per tenere fuori fuoco la definizione dei tratti propri della specola sulle arti costituita dal settimanale diretto da Mario Pannunzio. L'analisi delle pagine culturali de “Il Mondo” dimostra l'insufficienza di un ragionamento costruito sulla base di una mera contestualizzazione degli scritti figurativi comparsi nel settimanale nel dibattito critico del secondo Novecento. “Il Mondo” è stato espressione di un clan, della élite raccoltasi a partire dagli anni Trenta attorno a Mario Pannunzio; un gruppo che, in alcuni dei suoi protagonisti e in piena continuità politica e culturale, è poi confluito nell'avventura de “L’Espresso” di Benedetti e Scalfari. Sulla costituzione del gruppo vale la pena di indugiare, resistendo alla tentazione di una distinzione tra questioni prettamente storico-artistiche e culturali in senso generale, o addirittura tra scelte di campo in materia di arti visive e battaglie politiche e civili: sono gli stessi autori della pagina d’arte de “Il Mondo” ad indicare questa strada, in un dibattito che, negli anni dell’immediato dopoguerra, era giocoforza carico di ragioni ideologiche. Obiettivo del presente lavoro è quello di fare luce sulla sintesi operata nell’ambito della redazione del settimanale tra le due componenti salienti del gruppo gravitante attorno a Pannunzio. Serbatoi di uomini e di idee, essenzialmente cultura di fronda per quel che attiene agli autori delle pagine culturali, intellettualità liberaldemocratica per quanto attiene alla definizione della rotta politica, economica e civile del settimanale.
XXII Ciclo
1979
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35

Kovačević, Zorana. "Mediazioni culturali: letteratura e società italiane nell'odeporica serba ed europea tra Ottocento e Novecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10150.

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Abstract:
2012/2013
Lo scopo di questo lavoro è rappresentare l’immagine dell’Italia, della sua società, della sua cultura e soprattutto della sua letteratura nell’ambito dell’odeporica serba ed europea dell’Ottocento e del Novecento. Nonostante una sorprendente presenza dell’Italia nella letteratura di viaggio serba, i saggi, le monografie, i libri, le antologie e gli altri testi che ne trattano non sono particolarmente numerosi tanto in lingua serba quanto in quella italiana. Al contrario di ciò che accade per altri viaggiatori stranieri, la presenza di testimonianze scritte dai serbi in visita in Italia è dunque studiata relativamente poco: infatti, considerando la bibliografia generale relativa al viaggio in Italia, colpisce subito una notevole asimmetria e una grande lacuna. La tesi è divisa in due parti. Nella prima, tramite le pagine dei viaggiatori serbi che dell’Italia hanno lasciato testimonianza scritta sono illustrati, privilegiando un taglio cronologico, gli elementi essenziali a un ritratto del Belpaese, fra Ottocento e Novecento. Attraverso cinque capitoli, che corrispondono ad altrettante fasi dello sviluppo dell’odeporica serba, viene messo l’accento sull’immagine dell’Italia, mentre tutte le informazioni fornite sui viaggiatori e le loro opere sono ridotte all’essenziale in quanto maggiormente pertinenti all’ambito della slavistica. L’Italia, soprattutto per le sue bellezze e tradizioni, è senz’altro una meta d’obbligo per chi proviene dalle terre slave. Per quanto riguarda l’area serba, la presenza dell’Italia si può osservare principalmente attraverso la letteratura di viaggio a cui hanno contribuito, in più di due secoli, scrittori curiosi di conoscere questo paese, che fin dai tempi del Grand Tour ha attirato schiere di viaggiatori da tutta Europa. La prima fase dell’odeporica serba sull’Italia si apre poco prima dell’inizio del secolo XIX e dura fino al Romanticismo, che ne costituisce la seconda fase, quando appaiono i notevoli contributi di Petar Petrović Njegoš e soprattutto il libro Lettere dall’Italia di Ljubomir Nenadović, che non rappresenta solo uno spartiacque nel genere, ma senza dubbio anche un passo notevole in tutta la letteratura di viaggio serba. La terza fase, che in qualche modo corrisponde al Realismo, si protrae fino all’apparizione di una generazione nuova che si afferma tra le due guerre mondiali e porta la letteratura di viaggio alla sua epoca d’oro in cui essa, ormai staccata e lontana dalla tradizione precedente, matura completamente. Siccome ripercorrendo le tappe dello sviluppo di questa tradizione risulta che il periodo tra le due guerre è fondamentale in quanto momento in cui avviene un grande cambiamento della poetica del viaggio stesso, si porrà l’accento proprio su questo quarto periodo, chiamato anche Modernismo, che costituisce una fase cruciale per l’odeporica serba. Infine, dopo la seconda guerra mondiale fino alla fine del secolo XX si snodano i decenni che corrispondo all’ultima e conclusiva epoca. A giudicare dai diari, dalle lettere, dai resoconti e da altro materiale riguardante il tema del viaggio, città come Napoli, Roma e Venezia confermano la loro prevedibile centralità in questa mappa, seguite a ruota dalle città toscane e da quelle siciliane. Anche se i viaggiatori serbi privilegiano le zone di cui si ha già una conoscenza dettagliata, soprattutto a partire dalla fine della prima guerra mondiale esse si moltiplicano e l’elenco dei nomi si arricchisce di località meno note. Mentre nelle pubblicazioni dedicate a questo tema, pur inquadrato da differenti angolazioni e metodologie, manca un approccio comparativo, nella tesi, sin dalla fase embrionale, si è cercato di descrivere il mondo dei viaggiatori stranieri che hanno deciso di rendere omaggio all’Italia con i loro scritti, stabilendo paragoni e confronti. Si inizia perciò una rapidissima panoramica sul viaggio raccontato nell’odeporica europea nel periodo che abbraccia l’Ottocento e il Novecento, soprattutto attraverso il più classico dei canoni il cui modello è diventato familiare anche all’odeporica serba. Partendo da Goethe, passando per Gogol’, arrivando a Stendhal, con qualche digressione sui viaggiatori meno conosciuti, si verifica in che modo le stazioni di un pellegrinaggio appassionato, e soprattutto le immagini dell’Italia e della sua cultura si sovrappongono con, o differiscono da, quelle relative ai viaggiatori serbi. Inoltre, all’occorrenza, come termine di paragone, si affronta anche il viaggio degli italiani in Italia. Invece la seconda parte, divisa in cinque capitoli, mostra l’immagine della letteratura italiana nelle testimonianze odeporiche, soprattutto del Novecento, un secolo cruciale per la presenza dell’Italia nella letteratura serba. Per quanto riguarda le preferenze dei viaggiatori, da un lato si nota la passione per i classici come Dante, Petrarca e Tasso, mentre dall’altro si manifesta anche l’interesse per scrittori come Gucciardini, Cecco Angiolieri, Santa Caterina da Siena o Giuseppe Gioachino Belli. Solo qualche sporadica menzione è riservata a D’Annunzio oppure al futurismo italiano. Il baricentro di quasi tutta la seconda parte della tesi è senz’altro il rapporto di Miloš Crnjanski con la letteratura italiana: egli, che ne fu un grande ammiratore e lettore, la affronta anche dal punto di vista critico utilizzando un ricco corpus di fonti che esamina con cura. Il primo capitolo è dedicato al rapporto di Crnjanski con Dante: nel corso del suo pellegrinaggio fiorentino che descrive nel libro L’amore in Toscana, lo scrittore approda a un’attenta lettura della Vita nuova, facendo, secondo consuetudine, alcune annotazioni a margine, grazie alle quali è possibile seguire un filo rosso che accomuna i due letterati, e rintracciare una serie di affinità tematiche che Crnjanski trova tra il suo diario di viaggio e quello che parla del primo amore di Dante. Se si osservano tutti i filoni tematici lungo i quali si dipana la ricezione di Firenze nell’odeporica serba, è evidente che in tale complesso manca un particolare interesse per la figura e l’opera di Dante, che è invece un topos importante affermatosi nella gran parte della produzione letteraria europea che ruota attorno all’Italia. È dunque proprio Miloš Crnjanski a colmare questa lacuna offrendo un piccolo ma piuttosto significativo tributo all’artefice della Commedia. L’immagine che Crnjanski ha di Firenze non consiste nella consueta descrizione della città e dei suoi itinerari, ma secondo la poetica del libro L’amore in Toscana l’idea di omaggiare Dante si realizza con l’inserimento all’interno della sua struttura di un saggio dedicato alla protagonista della Vita nuova intitolato appunto Sulla Beatrice fiorentina. Una lettura approfondita del saggio di Crnjanski rimanda subito alla sua fonte principale: lo studio di Alessandro D’Ancona del 1865 La Beatrice di Dante, le cui considerazioni preliminari sono servite allo scrittore serbo come punto di partenza da cui deriva anche il tono polemico con cui egli talvolta affronta l’argomento. Il secondo capitolo nasce sempre dal contatto con gli scrittori italiani avvenuto durante il pellegrinaggio descritto nell’Amore in Toscana, che mostra la particolare attrazione di Crnjanski per Siena, a cui dedica quasi la metà del libro, riservandole punti di vista e interpretazioni originali. Questo ritratto della città contiene diversi passaggi narrativi interessanti incentrati su alcuni momenti della vita degli scrittori e degli artisti italiani del medioevo tra i quali spicca Cecco Angiolieri, il più rappresentativo di quei poeti detti “giocosi” o “comico-realistici” che fiorirono in Toscana tra la seconda metà del Duecento e l’inizio del Trecento. Per affrontare sia l’universo poetico sia la vita privata del poeta senese Crnjanski si è servito dall’importante contributo di Alessandro D’Ancona intitolato Cecco Angiolieri da Siena, poeta umorista del secolo decimo terzo, del 1874. Per questo motivo, alla fine del capitolo è parso interessante soffermarsi brevemente su due saggi di Luigi Pirandello: Un preteso poeta umorista del secolo XIII e I sonetti di Cecco Angiolieri, scritti con lo scopo di confutare decisamente la tesi, protrattasi per secoli e sostenuta da D’Ancona, secondo cui Cecco sarebbe stato a tutti gli effetti un poeta umorista. Anche se queste pagine di Pirandello sono prive di punti di contatto con quelle dell’Amore in Toscana, esse completano il quadro della critica più antica sulla poesia di Angiolieri, e permettono di mostrare similitudini e differenze con la ricezione che ne ha Crnjanski. Anche nella seconda parte della tesi si privilegia un approccio comparativo, perché studiando i rapporti tra gli scrittori e i viaggiatori serbi e la letteratura italiana incrocia spesso il mondo di altri autori europei che viaggiando in Italia hanno affrontato temi legati alla letteratura del paese che stavano visitando. Così, per esempio, il terzo capitolo, incentrato su Tasso nell’odeporica di Miloš Crnjanski e Marko Car, è corredato da un capello introduttivo nel quale si affronta anche l’interesse per la figura e la vita di Tasso nella letteratura europea. È soprattutto tra Sette e Ottocento che la vicenda drammatica di Tasso offre elementi che entrano perfettamente in sintonia con il gusto del tempo e perciò proprio in quel periodo che egli diventa protagonista di un vero mito letterario, le cui radici, però, risalgono già al Seicento. Ma proprio nel Novecento, quando questa fortuna letteraria e anche figurativa, particolarmente duratura, che ebbe soprattutto echi internazionali, sembra ormai al tramonto, essa, invece, ebbe un suo ulteriore bagliore presso i letterati serbi, che non riuscirono a sottrarsi al fascino della vita di questo poeta, piena di laceranti contrasti che si inquadrano nella situazione politica e religiosa del suo tempo. Frutto di tale interesse sono due contributi non notevoli dal punto di vista della lunghezza, ma interessanti per un’impronta personale, nonostante talvolta si noti una significativa presenza delle letture fatte: si tratta di un capitolo delle Lettere estetiche di Marko Car intitolato Il monastero di Sant’Onofrio - Torquato Tasso - Panorama dal Gianicolo e di quello semplicemente intitolato Tasso parte del libro Presso gli Iperborei di Miloš Crnjanski. Similmente è impostato anche il quarto capitolo intitolato Crnjanski lettore dei sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli nel quale, oltre a approfondire il rapporto tra Miloš Crnjanski e Belli, è riservato un ampio spazio a quei grandi letterati europei che ebbero il merito di diffondere la fama dello scrittore romano oltre frontiera. Toccherà a Ivo Andrić chiudere la tesi, con un capitolo, il quinto, interamente dedicato al rapporto dell’unico vincitore jugoslavo del premio Nobel per la letteratura con la società, la cultura e soprattutto la letteratura italiane, che a più riprese hanno attirato l’attenzione di questo scrittore. Si tratta di un argomento poco indagato nel suo complesso, importante tuttavia per illustrare in che modo nel vasto corpus delle opere di Andrić si integri la passione per il Belpaese. Oltre al rapporto con il fascismo e con la letteratura italiana attraverso alcuni autori classici, un ampio spazio del capitolo è dedicato all’interesse dello scrittore per Francesco Guicciardini la cui vita e opera Andrić affrontò con una solida preparazione e nel cui pensiero riconobbe numerose affinità con il proprio.
XXV Ciclo
1985
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36

Bieker, Chiara Maria. "Letteratura e tradizione classica a Trieste e nella Venezia - Giulia: il fondo Therianò della Biblioteca Civica di Trieste." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4563.

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Abstract:
2009/2010
Il lavoro propone la ricostruzione della biografia, della biblioteca e della personalità di studioso di Dionysios Therianòs (Zante 1834-Trieste 1897). Il primo capitolo, di ricostruzione biografica, apporta contenuti inediti per quanto concerne la storia familiare e i primi anni di formazione del giornalista greco. Nel secondo capitolo, muovendo da una ricognizione completa del registro d’ingresso del lascito librario ora conservato nella Biblioteca Civica “A. Hortis” di Trieste, sono editate per la prima volta tutte le voci relative all’ambito delle lettere classiche, delle quali si dà anche un’analisi biblioteconomica. L’ultimo capitolo suggerisce una valutazione della figura intellettuale di Therianòs attraverso lo studio di tre esempi concreti dell’uso che egli fece di paradigmi della storia della letteratura antica nel contesto dello sviluppo del pensiero socio-politico moderno, relativamente a tre questioni puntuali che impegnavano gli studiosi coevi: le riflessioni attorno alla semantica del termine ‘ellenismo’; il giudizio sulla qualità della letteratura latina; l’atteggiamento nei confronti della letteratura bizantina.
XXIII Ciclo
1981
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37

Zanatta, Elisabetta. "L’antilabe melica tra teorie metriche e performance: Aristofane." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10009.

Full text
Abstract:
2012/2013
Questa tesi concerne lo studio delle antilabai (cambi di interlocutore che incidono sequenze comunemente considerate unitarie dal punto di vista metrico-ritmico) contenute nei mele della produzione aristofanea superstite: un campo d’indagine prima d’ora non esplorato. Gli esempi di tale fenomeno sono stati raccolti attraverso la consultazione di un cospicuo numero di edizioni critiche e studi che hanno per oggetto la metrica dei canti aristofanei. Si tratta di opere in cui la ripartizione in unità discrete delle masse meliche segue i criteri di individuazione dei confini del verso melico, sanciti definitivamente da Böckh nel De metris Pindari (1811), con una palese ricaduta sulla disposizione dei cambi di parte e, in particolare, sull’occorrenza delle antilabai. La disamina di tale materiale bibliografico ha consentito di isolare una quarantina di casi di cambio di interlocutore all’interno di sequenze liriche. Essi scaturiscono dalle diverse opzioni colometriche o dalle differenti interpretazioni metriche adottate dagli studiosi in 27 passi della produzione aristofanea. Talvolta, in relazione a determinate impaginazioni o a una diversa disposizione dei cambi di parte, il fenomeno è del tutto assente presso alcuni interpreti. Delle istanze reperite, solamente 6 vedono la critica concorde sulla colometria e sull’analisi delle successioni metriche contenenti antilabe. Le varie mises en page e distribuzioni delle battute, nonché le eventuali divergenze nelle interpretazioni metriche del medesimo assetto colometrico sono state registrate e quindi illustrate in un commento accluso a ciascun passo comico interessato da scambio antilabico. Nell’ambito del presente lavoro si è inoltre inteso verificare se la presenza di alternanze interlocutive all’interno di sequenze liriche vada esclusivamente ricondotta alle peculiari opzioni colometriche elaborate sulla scorta della teoria böckhiana, o se il fenomeno si rintracci anche nelle impaginazioni che i testimoni antichi e medievali hanno riservato alle masse meliche del teatro aristofaneo. Per tutti gli esempi di antilabe melica rintracciati nelle edizioni e nelle analisi metriche correnti si è pertanto proceduto alla disamina delle colometrie nei due principali codici della tradizione di Aristofane (Ravennas Cl. 429, e Ven. Marc. gr. 474); in un caso (Ra. 241) si è potuto fare riferimento anche a una testimonianza papiracea (P.Berol. inv. 13231 D). Dal raffronto tra i layouts moderni e quelli dei manoscritti sono emerse sia significative analogie che considerevoli differenze nella mise en page delle sequenze interessate da antilabe. Non di rado in R e in V le battute che concorrono a formare una successione interessata da cambio interno di interlocutore sono disposte sullo stesso rigo, una adiacente all’altra, secondo l’uso grafico invalso nelle edizioni contemporanee. Ciò deporrebbe inequivocabilmente a favore dell’occorrenza dell’antilabe in ambito melico anche nelle colometrie manoscritte. Tuttavia, per buona parte delle istanze di questo fenomeno rinvenute presso gli interpreti contemporanei la mise en page che entrambi i codici e il frammento papiraceo mostrano di prediligere è quella che distribuisce su un diverso rigo di scrittura ciascuna singola battuta, che può variare nell’estensione dalla misura del piede a quella del dimetro. In tali casi gli studiosi sono propensi a credere che l’impaginazione manoscritta corrisponda alla pratica di disporre in colonna le porzioni di testo che, separate da un cambio di interlocutore, concorrono alla formazione di una sequenza metrica unitaria incisa da antilabe. Ciononostante, non parrebbe prudente escludere che la ripartizione dei testimoni antichi e medievali risponda invece a criteri metrico-ritmici; in altre parole vi sarebbe la possibilità di intendere l’intervento di ciascun personaggio come un’unità metrica discreta. Pertanto, in questi casi, almeno per quanto attiene alla paradosis, si dovrebbe ipotizzare l’assenza di antilabe. Infine, si è voluto riflettere sui risvolti performativi implicati dalla presenza di cambi di interlocutore all’interno di cola o versi lirici, sequenze che secondo l’opinione invalsa vengono ritenute unitarie sia dal punto di vista metrico che ritmico. Si tratta di una problematica affatto ignorata dai seguaci della teoria böckhiana che nelle analisi metriche di successioni contenenti al loro interno un’alternanza interlocutiva prevedono un’incontrastata azione della sinafia prosodica, anche laddove si verifichi un’antilabe. Tuttavia, a stento, in sua occorrenza, si direbbe ammissibile, almeno sul piano performativo, una liaison tra la sillaba finale di una battuta e la sillaba iniziale di quella successiva, pronunciata da un altro personaggio. Piuttosto invece, nella performance, nel passaggio da un intervento all’altro, si sarebbe verosimilmente verificata un’interruzione nella catena verbale. Pur senza giungere al rifiuto delle letture metriche finora proposte per le sequenze ospitanti al loro interno cambi di parte, nondimeno la loro manifesta discrepanza rispetto all’ambito della messa in scena invita a richiamare l’attenzione sulla necessità di una distinzione tra differenti livelli di analisi: uno che concerna il piano metrico-prosodico, l’altro la performance. La lettura in sinafia prosodica va indubbiamente mantenuta, in quanto imprescindibile per riconoscere le caratteristiche metriche della successione a cui viene applicata. Tuttavia, si potrebbe supporre, sulla base di un principio di verosimiglianza, che essa venga meno nel momento della messa in scena, là dove il testo poetico contenga un’antilabe, in quanto questa parrebbe postulare uno scioglimento del legame prosodico. Tale fenomeno non avrà comunque compromesso, nella prospettiva degli uditori, la percezione del ritmo che doveva caratterizzare, negli intenti del poeta, la sequenza all’interno della quale occorre il cambio di parte.
XXVI Ciclo
1985
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38

Gobet, Andrea. "La socialdemocrazia austriaca e la riflessione politica sul primo dopoguerra italiano (1918-1927)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10011.

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Abstract:
2012/2013
La ricerca ha per oggetto la riflessione della socialdemocrazia austriaca sulle vicende politiche del primo dopoguerra italiano, segnate dall’imposizione del regime fascista, e le sue ripercussioni sulla vita della Repubblica austriaca, nell’arco di tempo compreso tra la fine della prima guerra mondiale e il 1927, significativo momento di passaggio nella storia della Prima Repubblica austriaca. Il lavoro ha permesso di osservare le prime fasi dello sviluppo del fascismo italiano attraverso la lente di un Paese straniero, valutandone in questo modo, attraverso il caso di studio rappresentato dal partito socialdemocratico austriaco, la percezione esterna e gli effetti politici al di fuori dell’Italia. Sul piano delle fonti, è stata esaminata principalmente la pubblicistica socialdemocratica dell’epoca, integrando il materiale edito con le fonti d’archivio relative al partito socialdemocratico conservate presso il Verein für Geschichte der Arbeiterbewegung di Vienna. La ricerca ha incluso inoltre l’analisi di una parte ben delimitata delle fonti diplomatiche attinenti al rapporto tra Austria e Italia, vale a dire i materiali delle rappresentanze diplomatiche austriache in Italia, conservati presso l’Österreichisches Staatsarchiv, e gli incartamenti della rappresentanza diplomatica italiana a Vienna dell’Archivio storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri italiano. In entrambi i casi l’attenzione è stata rivolta agli aspetti prettamente politici presenti nella documentazione, con l’obiettivo di recuperare gli elementi fondamentali della comunicazione diplomatica ufficiale, come termine di confronto rispetto alle informazioni e alle interpretazioni offerte dai socialdemocratici austriaci a proposito delle vicende italiane. Dal punto di vista tematico, l’interesse principale ha riguardato il problema della democrazia nel periodo infrabellico, nei suoi aspetti istituzionali e politico-culturali, con particolare attenzione al ruolo dei movimenti socialisti, del fascismo italiano e dei fascismi, della violenza politica e delle diverse forme di pensiero antidemocratico.
XXVI Ciclo
1985
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39

Stopper, Francesca. "Per una storia dell'oreficeria veneziana: le suppellettili liturgiche tra 1680 e 1797." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11125.

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Abstract:
2013/2014
Il presente studio pone l’attenzione sulla stagione barocca e rococò dell’oreficeria veneziana. Si prefissa di tracciare una storia dell’evoluzione dell’oreficeria sacra a Venezia, partendo dall’analisi delle opere a carattere sacro che si conservano nelle chiese della città lagunare. Sulla scorta dell’intreccio tra la ricerca sulle fonti manoscritte, a stampa e sui documenti d’archivio, l’analisi dei punzoni e lo studio diretto dei manufatti (si sono catalogati più di 250 oggetti), si è cercato di descrivere il periodo che dall’affermazione del gusto barocco ha portato al Rococò. A tal fine, si sono esaminate le vicende artistiche di alcuni tra i principali orefici e botteghe, operanti nella lavorazione delle suppellettili liturgiche. Tra questi si ricordano Antonio Bonacina, Pietro Bortoletto, Andrea Zambelli e le botteghe al Coraggio, al Trofeo, al Trionfo di Santa Chiesa e al San Lorenzo Giustinian, di cui è stato possibile riunire un corpus di opere significative. Lo studio ha inoltre approfondito il tema delle interferenze e delle interrelazioni tra le arti. Oltre alle affinità stilistico-formali evidenti dal confronto tra oreficerie, bronzetti e sculture, riconducibili alla diffusione dei medesimi prototipi e alla partecipazione dello stesso sentire artistico, si è fatta luce su più occasioni in cui orefici hanno collaborato con architetti, pittori, scultori e intagliatori nelle commissioni di apparati processionali e di arredi d’altare.
XXVII Ciclo
1984
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40

Crosera, Claudia. "Passione numismatica: editoria, arti e collezionismo a Venezia nel Sei e Settecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3631.

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Abstract:
2008/2009
Il presente lavoro si prefissa lo scopo di indagare i rapporti tra arti ed editoria in Veneto, dal Barocco al Neoclassicismo e di tracciare una storia dell’evoluzione della letteratura illustrata di argomento numismatico, prendendo in esame gli aspetti artistici della produzione, analizzando il contribuito degli artisti (inventori, disegnatori e incisori), dei committenti e degli autori, nei territori della Serenissima. Grazie all’analisi diretta delle opere a stampa, alla lettura delle fonti e allo studio dei carteggi sei e settecenteschi si è riusciti a delineare le forme dell’interesse del collezionismo antiquario veneto per le raccolte di monete e medaglie. Sono stati schedati più di novanta volumi, tra cui si ricordano trattati di numismatica, repertori di ritratti, storie medaglistiche di sovrani, pontefici e dogi e soprattutto cataloghi delle collezioni numismatiche venete. Tra questi ultimi si ricordano i cataloghi di Charles Patin e di Lodovico Moscardo nel Seicento, e nel secolo successivo di Lorenzo Patarol, Antonio Capello, dei Tiepolo, di Scipione Maffei, di Jacopo Muselli, Onorio Arrigoni, Anton Maria Zanetti e Giammaria Mazzuchelli solo per ricordare i più famosi. L’attenzione si è poi soffermata su due casi interessanti: quello della raccolta di medaglie encomiastiche della famiglia Barbarigo, pubblicate nei Numismata virorum illustrium ex Barbadica gente del 1732, opera in folio riccamente illustrata finalizzata a eternare le memorie della nobile stirpe; quello di un progetto incompiuto e rimasto inedito, che risale alla metà del Settecento, e cioè il manoscritto di Giovanni Andrea Giovanelli intitolato Medaglie degli uomini illustri spettanti per lo più allo stato viniziano, che si proponeva di redigere una “storia metallica” di Venezia, riletta attraverso le medaglie dei suoi più illustri protagonisti.
XXII Ciclo
1972
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41

Scopas, Sommer Rossella. "Giacomo Zammattio (Trieste 1855 - 1927) architetto e collezionista." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8593.

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Abstract:
2011/2012
Analisi della collezione dell' architetto Giacomo Zammattio (Trieste 1855- 1955)conservata tuttora nella residenza familiare a Trieste attraverso l'accertamento delle modalità di formazione e la catalogazione delle opere presenti
XXV Ciclo
1958
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42

Moscarda, Oblak Orietta. "Il "potere popolare" in Istria (1945-1953)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11008.

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Abstract:
2013/2014
Studiare la costruzione del “potere popolare” da parte del nascente regime comunista jugoslavo in una realtà complessa come quella istriana, nel periodo che va dal 1945 al 1953, è la finalità della ricerca che viene qui presentata. Per far ciò, l’attenzione viene rivolta al complesso dei cambiamenti politici, sociali ed economici introdotti nell’area istriana con il passaggio all’amministrazione jugoslava, che coincise con l’instaurazione e l’organizzazione di un nuovo potere politico e civile. Si è preferito quindi evitare una ricostruzione particolareggiata dell’instaurazione del regime comunista in Istria e in Croazia/Jugoslavia, per concentrarsi piuttosto sull’esame di alcuni importanti centri del potere jugoslavo allo scopo di coglierne le caratteristiche principali e di proporre un quadro d’assieme circa la politica attuata nei confronti della popolazione istriana, sia quella italiana che quella croata, nel periodo compreso fra il 1945 e il 1953. Quattro sono i capitoli che compongono l’elaborato finale. Il primo capitolo, "La presa del potere" analizza i capisaldi del nuovo sistema comunista jugoslavo e del potere popolare, ovvero le strutture informative, quelle militari e giudiziarie nella regione istriana. Il periodo ottobre 1943 - maggio 1945, che corrisponde al periodo della guerra effettiva in Istria e dell’occupazione tedesca, viene trattato in questo capitolo, in riferimento all’origine e allo sviluppo delle strutture militari, informative e giudiziarie, specie per quanto concerne lo sviluppo e gli obiettivi della resistenza croata e italiana sul territorio istriano, il programma di liberazione nazionale croata-slovena e gli atti di annessione dell’Istria alla Jugoslavia, così come il programma di rivoluzione jugoslava con la violenza degli infoibamenti da parte del MPL jugoslavo e l’istituzione dei comitati popolari di liberazione, visti quali nuovi organismi del potere popolare. Il secondo capitolo, "Il nuovo ordine", prende in esame la struttura che rappresentò il vero centro del potere nel sistema jugoslavo, ovvero il partito comunista croato. Dopo aver delineato il ruolo del PCC in Istria e in Croazia, viene rappresentata la sua organizzazione e la struttura sociale e nazionale della classe politica a livello distrettuale e regionale nel periodo 1945-48. All’interno della politica del Fronte popolare, sono presi in esame i rapporti che il partito comunista sviluppò nel dopoguerra con i principali gruppi di alleanza, vale a dire i con i narodnjaci, il basso clero croato e quella che dopo l’annessione diventò minoranza italiana. Nel terzo capitolo, dal titolo "L’organizzazione del potere civile", vengono innanzitutto tracciati i principi di costruzione del potere popolare e i suoi organi rappresentativi i quali, alla base della scala territoriale-amministrativa, erano costituiti dai comitati popolari. Tuttavia, si evidenzia come la reale influenza politica fosse concentrata nelle organizzazioni politiche e nei loro organi dirigenti, dove le decisioni venivano prese all’interno delle organizzazioni medesime e, attraverso diversi organi di “trasmissione”, venivano poi riportate agli organi statali e all’amministrazione statale. Si passa poi sinteticamente a spiegare l’origine e lo sviluppo dei comitati popolari nella regione istriana, la legge e le sue diverse integrazioni che li regolarono. Ne viene evidenziato il ruolo di strumenti esecutivi della politica del partito comunista, risultando sin dall’inizio subordinati alla volontà e agli indirizzi del partito. E proprio attraverso le elezioni di tali organi del potere locale, che in Istria si tennero nel 1945, nel 1949, nel 1950 e nel 1952, il partito profuse il massimo sforzo per raggiungere il controllo e la maggioranza nella loro composizione politica. Nell’ambito dell’operato delle nuove autorità popolari regionali, si osserva l’elasticità dei confini tra interventi politici e amministrativi, evidenziando il potere d’intervento del Comitato regionale del PCC, che aveva l’autorità di bloccare e di censurare qualsiasi provvedimento operativo attuato dal massimo organo popolare istriano, il CPL regionale, che non fosse in linea con i principi e con i tatticismi del partito. In questo senso, si discute anche quanto il rapporto gerarchico tra istituzioni politiche e amministrative si riflettesse sulle persone che ricoprivano tali funzioni e, soprattutto, sulle modalità di attuazione delle misure a livello periferico. L’accentramento del processo decisionale a Zagabria, rispettivamente a Belgrado, assieme alla rigida imposizione dall’alto come metodo di lavoro, rappresentarono alcuni dei motivi che portarono a giudizi negativi da parte dei fori superiori all’istanze politiche inferiori (regionale, distrettuale, cittadino). Nell’ambito delle nuove autorità popolari regionali, viene evidenziata la figura di Dušan Diminić, uno dei primi dirigenti ad essere ritirato dall’Istria, prima dello scioglimento delle strutture regionali del partito e di quelle popolari (1947) e che, per le sue posizioni politiche vicine a Đilas, fu espulso dal partito agli inizi degli anni Cinquanta. Il quarto capitolo, "Consolidamento e omologazione politica e nazionale (1948-1953)", sviluppa il periodo della vera e propria fase di consolidamento del nuovo potere, quando l’Istria divenne territorio jugoslavo a tutti gli effetti, con l’introduzione di tutte le leggi jugoslave, comprese quelle repubblicane e federali. A livello politico-istituzionale, tale fase fu segnata dallo scioglimento della struttura regionale del partito e di quella politico-amministrativa precedente, per unire amministrativamente e politicamente il territorio istriano alla regione di Fiume e del Litorale croato. Era questo il segnale evidente di un processo di inclusione dell’Istria alla Croazia/Jugoslavia e di omologazione politica e nazionale, con la creazione di un nuovo centro politico ed economico di riferimento per l’Istria (Fiume), nonché la costituzione di un Ministero per i territori neoliberati a livello federale, che aveva il compito di gestire tale processo. L’istituzione ebbe anche il compito di progettare nuove direttrici d’intervento dello stato ed una serie di misure di breve e lungo periodo, per ricostruire un sistema economico in grado di assicurare uno standard di vita soddisfacente alla popolazione contadina, dal momento che agli occhi delle autorità regionali le pessime condizioni di vita rappresentavano il fattore scatenante che aveva portato la popolazione istriana a fuggire clandestinamente dalla penisola e a richiedere l’opzione per la cittadinanza italiana. Il ricorso alla mobilitazione forzata della manodopera, sia per il lavoro nelle miniere dell’Arsia, che per la costruzione della ferrovia Lupogliano-Stallie, con il prelievo della popolazione anche da parte della polizia, produsse un rifiuto e un netto distacco della popolazione nei confronti delle autorità e del partito, non soltanto nelle cittadine lungo la costa, ma anche e soprattutto nelle zone interne, ritenute dalle autorità espressamente croate, come nei distretti di Pinguente e di Pisino. L’organo esecutivo del Ministero (Direzione generale), che aveva sede a Volosca, svolse un ruolo di coordinamento tra il governo repubblicano/federale e i comitati popolari di base anche in fatto di opzioni per la cittadinanza italiana. Gli eventi più importanti di tale periodo furono infatti la rottura della Jugoslavia con il Cominform e la massa delle opzioni a favore della cittadinanza italiana. Il quarto capitolo esamina le durissime reazioni della autorità popolari nei confronti di questi due contemporanei fenomeni: reazioni che colpirono le varie componenti nazionali residenti sul territorio, ma le cui conseguenze negative risultarono evidenti soprattutto nei confronti di quella italiana. Strettamente connesso alle opzioni respinte fu il fenomeno delle fughe clandestine, che si manifestò via mare, in particolare dalle isole del Quarnero, ma di frequente anche via terra. Le fughe clandestine, ma anche il semplice sospetto di fuga, oppure il favoreggiamento, furono perseguiti con solerte impegno dalla polizia jugoslava, in quanto considerate reati di massima gravità, con pene che potevano arrivare a dieci anni di lavori forzati. Il problema delle opzioni è poi correlato alla questione del Cominform, che esplose in tutta la sua gravità proprio in quel periodo. La rottura con Mosca nel 1948 portò qui alla frattura definitiva fra i comunisti italiani e il comunismo jugoslavo. Nei confronti dei “cominformisti” le autorità jugoslave avviarono una violenta epurazione, che lasciò ai comunisti italiani schieratisi con Stalin la sola via dell’emigrazione, attraverso la richiesta d'opzione quale possibilità di scampare ai processi, alle condanne al “lavoro socialmente utile” e alla deportazione nel campo di prigionia dell’Isola Calva (Goli Otok). Man mano che i dirigenti jugoslavi ampliarono il terreno dello scontro, ritenendolo non più solo questione di partito, ma attacco alla sovranità nazionale, la repressione anticominformista toccò anche tutti coloro che esprimevano una posizione critica sulle dure condizioni economiche del paese o facevano resistenza nei confronti della politica degli ammassi e delle cooperative agricole; indipendentemente dalla nazionalità, ne furono coinvolti tutti i contadini che rifiutavano o che chiedevano di uscire dalle cooperative agricole, che dal 1949 avevano registrato uno sviluppo forzato con la politica della collettivizzazione delle campagne. E’ da rilevare infine la doppiezza dell’atteggiamento assunto dalle autorità che, da una parte cercarono di contenere l’esodo, mettendo in campo misure repressive per ostacolarlo che si rivelarono errate e controproducenti, e dall’altra, invece, lo favorivano attuando una politica che era chiaramente volta a espellere una componente nazionale la cui presenza avrebbe potuto, in futuro, mettere in discussione i nuovi confini.
XXIV Ciclo
1966
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43

Cavazza, Elisa. "Equivocations of Nature: Naess, Latour, Nāgārjuna." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11099.

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Abstract:
2013/2014
This work brings together quite heterogeneous sources for reasons, which at first glance seem marginal. For example, without delving too deeply into Naess’ problems Latour uses his constructs to sweep them aside. Another example is how Naess makes multiple references to Nāgārjuna’s emptiness of own-nature in order to illustrate his relationism. Nevertheless, there are more important structural and philosophical reasons for bringing these three together. These are collected around two primary research points. Firstly, we want to offer an articulation of relationism for ecology, its scope and the difficulties it faces. These span between the problem of the concept of nature and the problem of representation. Beginning with Naess’ ecosophy, we can secure a better grasp of the problems environmentalism faces when it makes use of an organicistic and interrelated image of nature. Relationism attempts to posit the overcoming of the subject/object dichotomy as it is structured in the representation of nature, but eventually finds itself trapped in the same premises. Naess’s problems are, nevertheless, more radical. Overcoming the subject/object and human/nature dualisms is not just a matter of integrating the two poles into a greater whole. The problems opened in relationism are intrinsic to the concept of nature as otherness to humanity, which underlies both managerial environmentalist approaches and ecological attempts to bridge the dualistic gap. Issues of continuity and difference, belonging and otherness emerge when the nature/humanity axis is articulated. The humanity/nature fracture is most tragic in the political tension between ecological naturalism and culturalist critique. The difficulties of environmentalism emerge as equivocations caused by the a priori framework of nature as otherness to humanity. Latour’s idea of the end of nature is a political-ecological solution to the problem of representation. The nature/culture framework is only one way to represent the common world of humans and nonhumans. It is possible to reopen the political work of composition of the common world, bringing the sciences (both humanities and hard sciences) to give scientific and political representation to phenomena such as climate change or species extinction. A second research focus shifts from the political dimension and looks at subjectivity as the main difficulty in the problem of representation. Nāgārjuna’s concept of emptiness [śūnyatā] proves to be a powerful insight into the tension between a radically relative reality and the attachment of the subject’s view to a “nature of things.”
Questo lavoro raccoglie fonti piuttosto eterogenee, che apparentemente dialogano in modo marginale. Latour rigetta bruscamente la posizione di Naess come prova della coerenza della propria ecologia politica; Naess scivola spesso in veloci riferimenti a Nāgārjuna e alla “vacuità di natura propria di tutti gli enti” per rinforzare il proprio relazionismo come visione alternativa della natura. Tuttavia ci sono ragioni filosofiche e strutturali più profonde che giustificano questo inusuale accostamento. Queste ragioni ruotano intorno a due principali obiettivi di ricerca. In primo luogo, tentiamo di offrire un’articolazione della portata e dei problemi che interessano un pensiero ecologico della relazione con la natura. I quesiti aperti dal relazionismo e le sue difficoltà si muovono nello spazio che si apre tra il concetto di natura come altro dall’uomo e il problema della rappresentazione. Una filosofia della relazione con la natura in un tutto organico tenta di riprendersi dalla rottura modernista della rottura tra soggetto e oggetto. In fondo, però, auspicare un cambio di visione del mondo in direzione ecosofica lascia il pensiero intrappolato nelle stesse strutture che caratterizzano la dicotomia uomo/natura. I problemi dell’ecosofia di Naess sono strutturali, non solo del suo pensiero, ma di molto ambientalismo. Il superamento della frattura tra oggetto e soggetto non si consegue semplicemente integrando i due poli in un tutto più grande. I problemi aperti dal relazionismo di Naess sono intrinseci al concetto di natura come altro dell’uomo, anche in senso ambientale. Tale concetto è alla base di buona parte della produzione eco-filosofica, sia che si tratti di approcci manageriali, sia quando il tentativo va in direzione di un superamento della frattura dualistica. L’articolazione dell’asse uomo-natura nell’ambientalismo apre problemi di continuità e differenza, di appartenenza e alterità. La frattura uomo/natura si mostra in tutta la sua tragicità nella tensione politica tra un naturalismo ecologista e la critica culturale di una natura sempre “natura,” sempre rappresentata. Le difficoltà in cui incorrono la maggior parte dei movimenti ambientalisti sono quindi provocate dagli equivoci strutturali di una natura ogni volta pensata come altro dell’uomo. La “fine della natura” per Latour si presenta come una soluzione politico-ecologica al problema della rappresentazione. Lo schema natura/cultura è solo uno dei modi, per Latour, per rappresentare il mondo comune di umani e nonumani. È possibile riaprire il lavoro politico di composizione del mondo comune, portando le scienze (sia “dure,” che dello spirito) a dare rappresentazione scientifica e politica a fenomeni quali i cambiamenti climatici o l’estinzione delle specie. Il secondo obiettivo di ricerca slitta invece dalla dimensione politica e passa a guardare la soggettività come il maggiore ostacolo nel problema della rappresentazione. Il concetto di vacuità [śūnyatā] in Nāgārjuna si dimostra uno strumento potente per lavorare sulla tensione tra una realtà radicalmente relativa e l’attaccamento del soggetto alla visione di una “natura delle cose.”
Diese Arbeit verknüpft recht heterogene Argumentationsansätze, die auf den ersten Blick nur geringfügig miteinander verbunden zu sein scheinen. Beispielsweise nutzt Latour seinen Ansatz, um Naess’ Probleme beiseite zu drängen, ohne sich genauer auf sie einzulassen. Ein anderes Beispiel ist, wie Naess vielfach auf Nāgārjunas Leerheit der wahren Natur verweist, um seinen Relationismus zu illustrieren. Dennoch gibt es wichtigere strukturelle und philosophische Gründe, diese drei zusammenzubringen. Sie drehen sich um zwei wesentliche Forschungsinteressen. Zunächst wollen wir den Relationismus in der Ökologie rekonstruieren, seine Reichweite und die Schwierigkeiten, mit denen er zu kämpfen hat. Diese reichen vom Problem des Naturbegriffs bis zum Problem der Repräsentation (und Vorstellung). Ausgehend von Naess’ ecosophy, können wir die Probleme, vor die sich der Umweltphilosophiegedanke gestellt sieht, wenn er sich auf ein organizistisches oder interrelationales Naturbild stützt, besser verstehen. Der Relationismus versucht die Subjekt-Objekt-Dichotomie, wie sie in der Repräsentation der Natur eingearbeitet ist, zu überwinden, aber läuft möglicherweise in die Falle derselben Prämissen. Naess’ Probleme sind gleichwohl radikaler. Den Subjekt/Objekt- wie den Mensch/Natur-Dualismus überwindet man nicht einfach dadurch, dass man die beiden Pole in ein größeres Ganzes integriert. Die Probleme, die sich aus dem Relationismus ergeben, sind wesentlich mit dem Begriff der Natur als das gegenüber dem Menschen Andere verknüpft; mit diesem Naturbegriff arbeiten sowohl der betriebswirtschaftliche Umweltschützer wie die ökologischen Ansätze, um den Graben des Dualismus zu überwinden. Themen wie Kontinuität und Differenz, Zugehörigkeit und Andersheit tauchen auf, wenn die Natur/Mensch-Achse artikuliert wird. Der Bruch zwischen Mensch und Natur ist im politischen Spannungsfeld zwischen ökologischem Naturalismus und kulturalistischer Kritik besonders tragisch. Die Schwierigkeiten der Umweltphilosophiebewegung entwickeln sich aus Mehrdeutigkeiten, die a priori durch das Grundverständnis der Natur als Andersheit gegenüber dem Menschen bedingt sind. Latour’s Idee eines Endzwecks der Natur löst das Problem der Repräsentation auf politisch-ökologischem Weg. Der Natur-Kultur-Rahmen ist nur eine Möglichkeit, die gemeinsame Welt von Menschen und Nichtmenschen zu repräsentieren. Es ist möglich, die politische Arbeit des Aufbaus der gemeinsamen Welt neu anzugehen, wobei die Wissenschaften (sowohl Geisteswissenschaften als auch „harte“ Wissenschaften) eingebracht werden, um Phänomene wie den Klimawandel oder das Artensterben wissenschaftlich und politisch zu repräsentieren. Ein zweiter Focus der Untersuchungen wendet sich von der politischen Dimension hin zur Subjektivität, der Hauptschwierigkeit innerhalb des Problems der Repräsentation. Nāgārjuna’s Konzept der Leerheit [śūnyatā] gewährleistet einen tiefen Einblick in die Spannung zwischen einer radikal relativen Realität und der Bindung der Sicht des Subjekts an eine „Natur der Dinge“.
XXVII Ciclo
1982
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44

Manenti, Luca Giuseppe. "Massoneria e irredentismo. Il Circolo Garibaldi di Trieste tra Ottocento e Novecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10012.

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Abstract:
2012/2013
La ricerca si occupa del Circolo Garibaldi di Trieste, associazione irredentista di stampo massonico sviluppatasi in Italia, a Trieste e in alcuni centri del Litorale adriatico tra Ottocento e Novecento. La puntuale analisi biografica dei soci e lo studio dei loro rapporti con società democratiche, leghe lavorative, comitati di reduci, circoli anti-clericali e logge massoniche, offrono insieme una mappatura esauriente dell'irredentismo sul territorio della penisola sinora assente nel panorama storiografico.
This thesis constitutes an in-depth survey of the history and activities of the Circolo Garibaldi di Trieste, an irredentist association strictly connected to freemasonry, which was born in Trieste and spread across Italy between the end of the Nineteenth and the Twentieth century. The research takes into account members' biographies as well as their relationships with lodges and patriotic associations of various kinds. Furthermore, the research maps for the first time the Italian irredentist movement on the whole, offering an original contribution to the study of contemporary Italian history.
XXVI Ciclo
1974
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45

Fiorillo, Matilde. "I segni nel PHerc. 1004 (Filodemo, Retorica, VII libro)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8549.

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Abstract:
2011/2012
La tesi pubblica i risultati del censimento dei segni critici presenti nel papiro ercolanese 1004, contenente il settimo libro della Retorica di Filodemo di Gadara. L’introduzione è dedicata a una riflessione sull’importanza filologica e documentaria dei segni attestati nei papiri greco-egizi ed ercolanesi, a cui ha fatto da contraltare, per lungo tempo, la scarsa attenzione degli studiosi, il cui interesse primario era lo studio critico del testo tramandato. Il capitolo I offre una presentazione a tutto tondo del PHerc. 1004: del papiro viene offerta una descrizione tecnica (dimensioni del rotolo, tipologia libraria, paleografia) e contenutistica (struttura del libro e organizzazione del contenuto), a cui si accompagna una rassegna dei principali studi di cui il rotolo è stato oggetto negli oltre duecento anni trascorsi dalla data del suo svolgimento a oggi. Il capitolo II riassume i risultati del censimento dei segni in due serie di tabelle: la prima, denominata ‘tabella per colonna’, presenta i dati organizzati in ordine topografico progressivo, a partire dai frammenti fino all’ultima colonna del rotolo; la seconda serie di tabelle, invece, ordina i risultati ‘per segno’, in modo da offrire uno strumento di consultazione più rapido a chi sia interessato a una ricognizione dei segni presenti nel papiro in base alla loro tipologia. Il capitolo III espone in maniera discorsiva i risultati della ricerca: per ogni tipologia di segno riscontrata (paragraphos, spatium, paragraphos associata a spatium, diplé obelismene, stigmai, segni di correzione) vengono offerti una rapida descrizione e, successivamente, una casistica delle occorrenze più significative. Il testo delle colonne prese in esame per illustrare il valore dei segni è stato sempre controllato autopticamente, con l’ausilio delle immagini multispettrali; nel caso in cui l’autopsia abbia dato risultati diversi rispetto alle edizioni di riferimento, se ne è dato conto nell’apparato critico che accompagna alcune colonne. Le conclusioni, infine, riassumono in un’ottica complessiva i dati emersi dal censimento. La maggior parte dei segni è stata rilevata per la prima volta nel corso di questa ricerca: il miglioramento è stato possibile anche grazie all’impiego delle immagini multispettrali, che hanno permesso di evidenziare con maggiore chiarezza tracce di scrittura prima invisibili a causa della carbonizzazione subita dal rotolo e dello sbiadimento subito dall’inchiostro. I risultati emersi dallo studio consentono di identificare il PHerc. 1004 come un prodotto librario di buona qualità, destinato alla consultazione da parte di Filodemo stesso e dei suoi seguaci riuniti nel circolo epicureo di Ercolano.
XXV Ciclo
1985
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46

Milanko, Sandra. "Bontempelli, l'avanguardia, il pubblico: dal futurismo alla pittura metafisica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10152.

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Abstract:
2012/2013
Lo scopo di questo lavoro è affrontare la produzione letteraria e pubblicistica di Massimo Bontempelli degli anni Venti illustrando le fasi del suo sviluppo artistico il cui risultato finale sono stati la tendenza artistica chiamata «novecentismo» e uno stile e una poetica letteraria denominati realismo magico. Siccome il processo delle sue teorizzazioni poetiche e della loro realizzazione in sede letteraria coincidono con il suo crescente successo in quanto scrittore e organizzatore culturale, l'analisi della gran maggioranza della sua narrativa degli anni Venti rivela i fattori specifici che hanno contribuito al suo successo presso diverse comunità di lettori degli anni Venti. Uno di questi fattori è lo stretto connubio tra letteratura e giornalismo segnato nei primi decenni del Novecento non solo dai romanzi d'appendice, ma dallo sviluppo della terza pagina che proprio in questi anni vive il suo periodo d'oro. Nel caso di Bontempelli queste tendenze si traducono non solo in continue collaborazioni strettamente editoriali e giornalistiche, ma anche nella pubblicazione di numerosi racconti degli anni Venti prima sui giornali e solo dopo in volume – un procedimento che Bontempelli chiama «prova d'appendice», poiché per lui il successo presso il pubblico largo ed eterogeneo dei quotidiani costituisce una specie di indicatore del potenziale successo dei racconti radunati e offerti ai lettori in volume. Infatti, una delle innovazioni del novecentismo letterario di Bontempelli è l'imperativo di creare una letteratura «popolare», cioè una letteratura rivolta ad un largo pubblico di non intenditori, godibile e divertente, ma altamente letteraria. Un altro fattore strettamente legato al nesso letteratura-giornalismo è la serialità della produzione letteraria, che Bontempelli raggiunge non solo attraverso la continua pubblicazione delle sue opere sui giornali e in volume (il che lo rende uno dei più prolifici scrittori italiani del Novecento), ma dalla presenza e dalla continua costruzione del narratore autodiegetico Massimo, che si presenta tra l'altro come autore fittizio dei racconti in cui compare. Ricco di elementi autobiografici al punto di essere considerato dalla critica un alter ego dello stesso scrittore, l'evoluzione dell'autore-narratore-protagonista Massimo riflette fedelmente quella della poetica letteraria di Bontempelli, specialmente nel suo rapportarsi con il fantastico. Questi e altri parametri della poetica bontempelliana discussi in questo lavoro sono frutto sia del suo netto rifiuto dei canoni letterari ottocenteschi e dei loro rimodellamenti nel primo Novecento che del suo distacco e del successivo rinnegamento delle avanguardie storiche, innanzitutto del futurismo. Quest'ultimo, insieme al neoclassicismo carducciano che lo precede e alle teorizzazioni metafisiche che lo succedono rappresenta correnti artistiche che hanno avuto la maggior influenza sulla produzione letteraria e teorica di Bontempelli, contribuendo in maniera significativa alla formulazione della sua poetica. Perciò ho ritenuto necessario ricostruire in modo più approfondito le dinamiche dei rapporti che Bontempelli ha stabilito con ognuna di esse cercando di evidenziare i numerosi aspetti che finora sono stati sottovalutati o del tutto ignorati dalla critica bontempelliana. Questo risulta più evidente proprio nel suo rapporto con il futurismo, fino a una decina di anni fa poco indagato e perciò spesso erroneamente definito come uno di netta adesione, senza distinguere i due momenti più significativi del movimento: quello strettamente marinettiano dei primi anni del lancio, e quello successivo, detto“fiorentino”, e organizzato intorno alla rivista fiorentina «L'Italia Futurista». Perciò i primi due capitoli sono dedicati a queste due espressioni del movimento futurista e indagano i modi in cui si colloca la produzione letteraria e giornalistica di Bontempelli del periodo. Quello che unisce lo scrittore con il futurismo strettamente marinettiano è il rifiuto della letteratura passatista e delle influenze straniere nonché la necessità di un totale rinnovamento artistico, ma nonostante ciò Bontempelli non adotta mai le idee principali del futurismo né sul piano formale e contenutistico, né quello ideologico. Questa posizione viene illustrata non solo dai suoi articoli interventisti inseriti nei volumi Dallo Stelvio al mare (1915) e Meditazioni intorno alla guerra d'Italia e d'Europa (1917), ma anche dalla sua prima rappresentazione di stampo avanguardista La guardia alla luna (1916) in cui vengono messi in questione sia gli stilemi del teatro borghese ottocentesco che la stessa ideologia futurista rappresentata dal motto Uccidiamo il chiaro di luna!, che nella rappresentazione di Bontempelli viene esasperato e portato all'assurdo. Ciò che risulta dalle mie ricerche è che l'avvicinamento di Bontempelli al futurismo è dovuto piuttosto al secondo momento del movimento segnato dalla formazione della pattuglia azzurra, ovvero da scrittori neofuturisti come Emilio Settimelli, Mario Carli, Bruno Corra e Arnaldo Ginna. Come viene evidenziato nel corso del lavoro i principali punti d'incontro tra la redazione de «L'Italia Futurista» e Bontempelli sono il versante magico-occultista (fino a quel punto presente nel movimento marinettiano soltanto marginalmente), la figura dell'uomo deificato basata sulle letture di Nietzsche e Weininger, la rivelazione di lati nascosti della realtà quotidiana e le innovazioni della scienza e cinematografia futurista esposte nei rispettivi manifesti. La sua vicinanza al momento fiorentino del movimento viene confermata non solo dalla pubblicazione della sua poesia Lussuria sul loro giornale, ma dagli stessi contatti personali che Bontempelli stabilisce con loro in quel periodo, come testimoniano le due lettere inedite scritte da Bontempelli a Settimelli nel 1917 la cui trascrizione si trova nell'appendice. Perciò sono più propensa a considerare l'esperienza futurista di Bontempelli non come una netta adesione, ma piuttosto come un avvicinamento che avrebbe tuttavia lasciato una profonda traccia nella sua produzione successiva. Nonostante il netto distacco ufficiale dal futurismo a partire dal 1919, Bontempelli continuerà a confrontarsi con il futurismo adottando alcuni suoi procedimenti e soluzioni formali con l'intento nello stesso tempo parodico e rinnovatore, come illustrato nei primi racconti del dopoguerra radunati nel volume La vita intensa. Esso insieme a La vita operosa costituisce un dittico che non solo segna il distacco dal futurismo e dai diversi generi narrativi della letteratura passatista, ma offre un'autentica e suggestiva immagine dell'Italia postbellica problematizzando la crisi dello scrittore-intellettuale. Nel terzo capitolo ho dedicato un ampio spazio all'analisi narratologica del narratore autodiegetico Massimo che compare per la prima volta proprio in questi racconti e che sarà una continua presenza nei racconti successivi analizzati in questo lavoro. È grazie anche a quest'analisi dettagliata del narratore-protagonista che si riesce a ricostruire la presenza di una terza vita, la vita «misteriosa», che prende molti spunti dalle mode esoterico-occultiste e dalla stessa pattuglia azzurra non solo per deriderli, ma anche per riproporre la possibilità di rivelare gli aspetti nascosti, strani e insoliti, ma sempre reali della vita quotidiana. Nel quarto capitolo viene esaminata quella che può essere considerata la fase «metafisica» di Bontempelli in quanto le tre opere prese in considerazione, Viaggi e scoperte. Ultime avventure, La scacchiera davanti allo specchio ed Eva ultima, rivelano l'applicazione, o meglio, il riciclaggio delle teorizzazioni metafisiche, parallelamente agli articoli del volume La donna del Nadir e del reportage di viaggio sotto il titolo Lettere da due mari e Visita ai vinti. Si tratta di quello stesso procedimento che Bontempelli aveva applicato alle teorizzazioni del movimento futurista, rifiutando da una parte le idee che non erano adatte ai tempi moderni né portatrici di un autentico rinnovamento artistico, e riproponendo, dall'altra, quelle che erano consone alle sue. Il suo rapporto con le teorizzazioni della pittura metafisica non è segnato solo dalla reinterpretazione della figura del manichino e delle marionette, ma soprattutto dalla figura dell'artista inteso come mago moderno e, di conseguenza, anche dall'immedesimazione dell'arte con la magia. Accanto all'ironia, il mezzo artistico principale diventa l'immaginazione che lo avvicina ancora di più al mondo fantastico. Infatti, quello che risulta dall'analisi di questi racconti che Bontempelli definiva «d'evasione», è una continua oscillazione (o esitazione, per dirla con Todorov,) tra il reale e l'immaginario. Nel suo rifiuto e riuso dell'immaginario della letteratura fantastica ottocentesca, Bontempelli si rifà spesso ad alcuni suoi parametri principali, per cui la terminologia todoroviana, basata sull'analisi dello stesso corpus, risulta la più adatta per analizzare questi e successivi racconti, che similmente riproducono in chiave parodica alcuni elementi del fantastico ottocentesco. L'avvicinamento al fantastico viene illustrato in modo esemplare proprio dalla ulteriore costruzione del narratore-protagonista Massimo che diventa sempre più complesso senza rinunciare alle sue caratteristiche principali. Egli rimane fedele alla sua funzione di autore fittizio e narratore degli eventi che sono successi a lui in quanto protagonista o che gli sono stati raccontati da altri (come in Eva ultima) e quindi li riferisce a sua volta in quanto scrittore e giornalista. Nella prima parte dell'ultimo capitolo, in cui si riassumono anche le conclusioni di questo lavoro, vengono esposte le teorizzazioni di Bontempelli sulla figura dello scrittore e sul suo rapporto con il pubblico nonché le nozioni principali della poetica bontempelliana come il novecentismo e il realismo magico. Anche se la loro elaborazione e le ulteriori spiegazioni si protraggono fino agli articoli degli anni Trenta, la loro prima realizzazione compiuta si trova innanzitutto in un altro dittico del periodo: La donna dei miei sogni e altre storie d'oggi (1926) e Donna nel sole e altri idilli (1928). Dopo la trasformazione soggettiva della realtà quotidiana delle due Vite e l'esitazione tra il reale e l'immaginario delle opere d'evasione, con questi racconti Bontempelli finalmente raggiunge la sfera del fantastico; un evento soprannaturale, come prescritto dalla tradizione del fantastico ottocentesco, infrange le leggi naturali, ma nel caso di Bontempelli l'avvenimento soprannaturale, dopo l'iniziale stupore e la trasgressione, viene normalizzato e incorporato nel paradigma di realtà che di conseguenza viene modificato. Perciò l'irruzione e l'integrazione dell'evento sovrannaturale nel paradigma di realtà compongono quello che nel caso dei racconti magicorealisti di Bontempelli ho chiamato il «fantastico quotidiano». Questi racconti segnano infine la maturazione del narratore-protagonista Massimo che si rivela finalmente un mago moderno novecentista, dotato di poteri sovrannaturali con cui non solo sconvolge e domina le leggi naturali, ma scopre quello che Bontempelli chiama il senso magico della vita quotidiana. La sua indole magica viene confermata ulteriormente nell'ultima raccolta in cui egli compare da autore-narratore-protagonista, strutturata come la sua autobiografia fittizia, Mia vita morte e miracoli (1931). La raccolta è il risultato del montaggio dei racconti scritti tra il 1923 e il 1929, ma si tratta di un procedimento che Bontempelli applica a tutta la serie di volumi che egli pubblica nel corso degli anni Venti, costruendo un macrotesto o un insieme di sister-text, il cui unificatore principale è proprio la presenza di Massimo. Questo montaggio viene particolarmente intensificato negli anni Trenta in occasione del lancio della collezione «Racconti di Massimo Bontempelli» presso l'editore Mondadori che ripropone tutti i racconti in questione e introduce le modifiche più notevoli rispetto alle prime edizioni. Che il dialogo di Bontempelli con il futurismo continui anche nella seconda metà degli anni Venti lo confermano non solo la sua produzione teatrale del periodo (Nostra Dea e Minnie la candida), frequentazioni e collaborazioni con singoli esponenti del movimento e le stesse polemiche sull'arte, sulla figura dell'artista e sul valore delle avanguardie, ma lo stesso narratore-protagonista Massimo interpretabile alla fine della sua evoluzione come la versione novecentista dell'uomo deificato. Quello che lo accomuna con l'Uomo-Dio di Papini e Prezzolini, l'Uomo moltiplicato di Marinetti, l'Uomo occultista di Corra e il mago moderno di Ginna e di Savinio, è il continuo insistere sulla forza performativa della volontà e sul dominio del mondo inteso come sconvolgimento delle leggi naturali nonché la rivelazione dei nuovi aspetti misteriosi della realtà più banale. Quello che distingue l'uomo deificato di Bontempelli da quelli precedenti è una palese ironia e demistificazione di quei luoghi comuni legati al clima esoterico-occultista che nelle opere della pattuglia azzurra era ancora funzionante. Anche dietro l'applicazione della differenziazione weiningeriana tra il maschile e il femminile, della retorica della virilità e del gusto dell'avventura è ravvisabile un trattamento ironico e parodiante dell'immaginario futurista. A questo procedimento si potrebbe aggiungere anche il continuo insistere di Bontempelli sull'autobiografismo e sull'automitizzazione che erano tipici della maggior parte della produzione futurista, soprattutto di quella di Marinetti, Corra, Ginna o Carli. Se nelle loro opere questi due elementi tendono a cancellare il tradizionale limite tra la realtà e la finzione raggiungendo l'ideale futurista del connubio arte-vita, nelle opere narrative di Bontempelli lo stesso connubio viene tematizzato solo per rivelare la futilità di questi elementi nel loro impiego futurista e per ripristinare la distinzione tra la realtà e la finzione riconfermando la natura artificiale e fittizia dell'opera d'arte.
XXVI Ciclo
1986
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47

Quinci, Carla. "Translators in the Making: An Empirical Longitudinal Study on Translation Competence and its Development." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/11577/3353174.

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Abstract:
A partire dalla seconda metà del XX secolo, la ricerca sulla competenza traduttiva ha conosciuto un forte sviluppo, che portato all’individuazione di abilità specifiche ai fini della traduzione. La competenza traduttiva viene generalmente concepita come un’abilità non innata (Shreve, 1997, p. 121) e distinta dalla competenza bilingue (PACTE 2002, p.44–45); quest’ultima, nella sua forma embrionale, rimane una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo di una competenza traduttiva di tipo professionale (Englund Dimitrova 2005, p. 12). Fatte salve queste premesse, la natura e la struttura della competenza traduttiva rimangono ancora da definire. Nel tentativo di individuarne le componenti, la ricerca ha prodotto un’ampia varietà di termini e concetti simili e spesso sovrapponibili. Dalla metà degli anni ’80, un significativo contributo allo studio della competenza traduttiva è giunto dalla ricerca empirica, grazie alla quale è stato possibile sviluppare e testare alcuni dei modelli e delle definizioni proposti (ad es., PACTE 2003; Göpferich 2009). Gli studi empirici sulla competenza traduttiva hanno generalmente adottato un approccio orientato al processo, ovvero volto a individuare le caratteristiche comportamentali e procedurali di traduttori più o meno esperti che potessero essere associate a determinati livelli di qualità del testo tradotto. Allo scopo di fornire un approccio complementare a quello appena citato, è stato progettato uno studio empirico volto ad indagare la traduzione principalmente come testo tradotto, ma anche, in seconda battuta, come processo. Obiettivo principale dell’analisi è osservare se traduttori con livelli di competenza ed esperienza simili producono traduzioni con caratteristiche simili e/o seguono gli stessi modelli procedurali, così da definire la competenza in base alle tendenze eventualmente emerse dall’analisi sia del testo, sia del processo traduttivo. A questo scopo, l’indagine ha monitorato per tre anni la performance traduttiva di un campione di traduttori professionisti e di studenti dei corsi di Laurea triennale e magistrale in traduzione presso l’Università di Trieste. Sono state svolte in tutto sei prove di traduzione (due per anno accademico), che consistevano nella traduzione di un testo non specialistico dall’inglese all’italiano (la lingua madre dei partecipanti), seguita dalla compilazione di un questionario sul processo traduttivo. Lo studio ha adottato un approccio sincronico e diacronico principalmente di tipo descrittivo e rivolto all’analisi lessicale e sintattica del testo tradotto e dei dati relativi ai tempi di consegna e agli aspetti procedurali analizzati attraverso le risposte al questionario. È stata inoltre svolta un’analisi qualitativa delle traduzioni basata sulla valutazione dell’accettabilità del testo tradotto e degli errori di traduzione, così da associare le tendenze individuate nell’analisi descrittiva a specifici livelli di qualità. I risultati dell’indagine hanno permesso di tracciare il profilo di tre stadi nel processo di sviluppo della competenza traduttiva (‘principiante’, ‘intermedio’ e ‘professionista’) e di sviluppare delle linee guida per docenti e studenti che possono aiutare a prevedere e prevenire errori procedurali e ad accelerare il processo di apprendimento.
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48

Quinci, Carla. "Translators in the Making: An Empirical Longitudinal Study on Translation Competence and its Development." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/10986.

Full text
Abstract:
2013/2014
ABSTRACT. In the last few decades, research on translation competence (TC) has been quite productive and fostered the conceptualisation and analysis of translation-specific skills. TC is generally assumed to be a non-innate ability (Shreve 1997, 121), which is “qualitatively different from bilingual competence” (PACTE 2002, 44–45) and, as a “basic translation ability[,] is a necessary condition, but no guarantee, for further development of a (professional) competence as a translator” (Englund Dimitrova 2005, 12). However, apart from these agreed-on assumptions, the definition and modelling of TC still remain open questions and have resulted in a wide variety of concurrent (near-synonymic) terms and conceptual frameworks aiming to identify the essential constitutive components of such competence. From the mid-1980s, empirical studies have considerably contributed to the investigation of TC and, in some cases, led to the development of empirically validated definitions and models (e.g. PACTE 2003; Göpferich 2009). However, most empirical analyses focus on the translation process, i.e. the behavioural and procedural features of (un)experienced translators, and aim to identify possible patterns which might be conductive to high (or poor) translation quality. To provide a complementary perspective to this approach, an empirical longitudinal study was designed which is mainly product-oriented but also encompasses process-related data. The aim of the study is to observe whether different levels of competence reflect on different linguistic patterns and common procedural practices, which might be used to define TC and the stages of its development. The study monitored the performances of a sample of professional translators and BA- and MA-level translation trainees, who carried out six translation tasks over a three-year period. Each translation task involved the translation of a non-specialist English source text into the participants’ L1 (i.e. Italian) as well as the compilation of a post-task questionnaire inquiring on their translation processes. The synchronic and diachronic analysis of data mainly adopted a descriptive perspective which considered both product-related data, i.e. mainly lexical and syntactical features, and the process-related data concerning delivery time and the participants’ responses to the post-task questionnaires. Moreover, the assessment of translation acceptability and errors allowed for the association of specific descriptive trends with the different levels of translation quality which have been identified. The findings led to the profiling of three different stages in the acquisition of TC (i.e. novice, intermediate, and professional translator) and to the development of training guidelines, for both translation trainers and trainees, which may help anticipating and preventing possible unsuccessful behaviours and speeding up the learning process.
RIASSUNTO. A partire dalla seconda metà del XX secolo, la ricerca sulla competenza traduttiva ha conosciuto un forte sviluppo, che portato all’individuazione di abilità specifiche ai fini della traduzione. La competenza traduttiva viene generalmente concepita come un’abilità non innata (Shreve, 1997, p. 121) e distinta dalla competenza bilingue (PACTE 2002, p.44–45); quest’ultima, nella sua forma embrionale, rimane una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo di una competenza traduttiva di tipo professionale (Englund Dimitrova 2005, p. 12). Fatte salve queste premesse, la natura e la struttura della competenza traduttiva rimangono ancora da definire. Nel tentativo di individuarne le componenti, la ricerca ha prodotto un’ampia varietà di termini e concetti simili e spesso sovrapponibili. Dalla metà degli anni ’80, un significativo contributo allo studio della competenza traduttiva è giunto dalla ricerca empirica, grazie alla quale è stato possibile sviluppare e testare alcuni dei modelli e delle definizioni proposti (ad es., PACTE 2003; Göpferich 2009). Gli studi empirici sulla competenza traduttiva hanno generalmente adottato un approccio orientato al processo, ovvero volto a individuare le caratteristiche comportamentali e procedurali di traduttori più o meno esperti che potessero essere associate a determinati livelli di qualità del testo tradotto. Allo scopo di fornire un approccio complementare a quello appena citato, è stato progettato uno studio empirico volto ad indagare la traduzione principalmente come testo tradotto, ma anche, in seconda battuta, come processo. Obiettivo principale dell’analisi è osservare se traduttori con livelli di competenza ed esperienza simili producono traduzioni con caratteristiche simili e/o seguono gli stessi modelli procedurali, così da definire la competenza in base alle tendenze eventualmente emerse dall’analisi sia del testo, sia del processo traduttivo. A questo scopo, l’indagine ha monitorato per tre anni la performance traduttiva di un campione di traduttori professionisti e di studenti dei corsi di Laurea triennale e magistrale in traduzione presso l’Università di Trieste. Sono state svolte in tutto sei prove di traduzione (due per anno accademico), che consistevano nella traduzione di un testo non specialistico dall’inglese all’italiano (la lingua madre dei partecipanti), seguita dalla compilazione di un questionario sul processo traduttivo. Lo studio ha adottato un approccio sincronico e diacronico principalmente di tipo descrittivo e rivolto all’analisi lessicale e sintattica del testo tradotto e dei dati relativi ai tempi di consegna e agli aspetti procedurali analizzati attraverso le risposte al questionario. È stata inoltre svolta un’analisi qualitativa delle traduzioni basata sulla valutazione dell’accettabilità del testo tradotto e degli errori di traduzione, così da associare le tendenze individuate nell’analisi descrittiva a specifici livelli di qualità. I risultati dell’indagine hanno permesso di tracciare il profilo di tre stadi nel processo di sviluppo della competenza traduttiva (‘principiante’, ‘intermedio’ e ‘professionista’) e di sviluppare delle linee guida per docenti e studenti che possono aiutare a prevedere e prevenire errori procedurali e ad accelerare il processo di apprendimento.
XXVII Ciclo
1985
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49

Redaelli, Davide. "I veterani delle milizie urbane in Italia e nelle province di lingua latina. Indagine storico-epigrafica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11103.

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Abstract:
2013/2014
Le coorti pretorie, le coorti urbane e gli equites singulares Augusti costituivano i corpi d'élite dell'esercito romano per via di un reclutamento selezionato e di un trattamento privilegiato rispetto alle altre unità. Lo studio si propone di indagare il fenomeno del veteranato di queste tre formazioni in un arco di tempo che va da Augusto all'ascesa di Diocleziano e in uno spazio che copre l'Italia, con l'esclusione di Roma e del suo suburbio fino al X miglio, e le province di lingua latina. L'indagine si basa sull'esame della documentazione epigrafica nella quale lo status di veterano di uno o più personaggi menzionati nel testo è sicuro e l'appartenenza ad uno dei tre corpi analizzati è certa o molto probabile. Il lavoro si divide in due parti: nella prima vi è un commento ad ogni singola testimonianza, nella seconda vengono svolte considerazioni di carattere generale sui veterani delle milizie urbane. Tali considerazioni scaturiscono da una visione complessiva della documentazione. Si vuole tentare in questo modo di rispondere a interrogativi riguardanti i rapporti sociali e l'integrazione di questi veterani nelle comunità scelte come residenza dopo il congedo, la loro partecipazione alla vita civica e le attività economiche cui si dedicavano. Una particolare attenzione è rivolta a riconoscere quanti veterani decidevano di rientrare in patria o di stabilirsi in località diverse da quelle natie e le motivazioni che guidavano tale scelta, la loro provenienza e la loro estrazione sociale.
Due to a preferential treatment and special recruitment among the military units, praetorian guard, urban cohorts and equites singulares Augusti were the élite troops of ancient roman army. This research aims to investigate the social and material life of the veterans of this élite troops, in a period of time included between Augustan age and Diocletian rise. It also considers a territory including Italy, except Rome and its suburbs until the tenth mile, and latin speaking provinces. This work is based on an epigraphic documentation in wich the veteran status of one or more subjects is proven and the belonging to one of the three élite corps is certain or probable. The research is divided into two parts. In the first part an analysis and a description is made for each documentary source. In the second part, general considerations are expressed about the veterans of urban militias. These considerations stem from an accurate documentation overview. The purpose is to answer questions regarding the integration and social relations between veterans and the community chosen to live with after the disbandment or, for example, the activities and the role of a veteran in civic and economical life. Specific attention is also paid to the territorial origin, social background and about the choice, made by a veteran, to return home or settle elsewhere after the service.
XXVII Ciclo
1986
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50

Marra, Emiliano. "Storia e contro-storia.Ucronie italiane: un panorama critico." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11001.

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Abstract:
2013/2014
Lo scopo della ricerca è tracciare un panorama approfondito delle narrazioni ucroniche pure prodotte in ambito italiano. Si intende per ucronia pura un testo letterario – lungo o breve – incentrato su un’ipotesi retrospettiva che proponga uno svolgimento alternativo a un fatto storico consolidato: l’aggettivo pura vuole specificare le narrazione di storia alternativa la cui divergenza non sia dovuta a dispositivi finzionali altri, quali il viaggio nel tempo e gli universi paralleli. Di conseguenza, l’elaborato si focalizzerà solo sui testi allostorici ambientati in un universo ucronico indipendente e autosufficiente: tenendo ben presente questo limite, saranno delineati alcuni confronti sia con i testi ucronici “spuri”, sia con la produzione storiografica controfattuale. Se lo stato degli studi sull’ucronia è piuttosto frammentario ed è stato affrontato dal dibattito accademico solo negli ultimi trent’anni1, questo atteggiamento narrativo è invece piuttosto antico e ha subito diverse trasformazioni nel corso della sua storia: la speculazione controfattuale, infatti, dopo essere nata agli albori della storiografia, all’interno delle opere di Erodoto e Livio, è restata una possibilità assolutamente minoritaria all’interno della letteratura occidentale, se non altro fino allo sviluppo delle narrazioni utopiche in epoca moderna. Dopo una fase che è stata definita da molti come “protoucronica” e che ha attraversato tutto il XIX secolo, con la nascita della moderna fantascienza l’ucronia ne diventa un sottogenere, perlomeno fino alla fine della Guerra Fredda, dopo cui ha guadagnato nuovamente una certa autonomia. La prima parte della ricerca è focalizzata nell’indagine delle opere protoucroniche prodotte in ambito italiano e chiude con l’analisi del primo romanzo propriamente ucronico scritto in lingua italiana, ossia Benito I imperatore di Marco Ramperti. Partendo dai testi critici degli anni Ottanta2, ho inizialmente analizzato nel suo contesto la prima ipotesi controfattuale esplicita della storia, ovvero quella inserita da Lorenzo Pignotti nella sua Storia della Toscana sino al principato. Mi sono poi concentrato su un gruppo di opere a cavallo fra XIX e XX secolo le cui caratteristiche potevano risultare di un certo interesse nel tentativo di tracciare alcuni precursori della narrativa fantastorica italiana e il rapporto che spesso intrattiene con un immaginario reazionario. Inoltre, ho inserito un paragrafo che esamina la ricezione dell’opera di Renouvier in Italia e la squalifica di Croce nei confronti delle ipotesi controfattuali nella storiografia: il punto di contatto è il filosofo di Adriano Tilgher, allievo di Croce che aderirà al fascismo e con cui polemizzerà proprio sull’antistoricismo di Renouvier. Tilgher, infatti, sarà il primo autore italiano a utilizzare esplicitamente il calco ucronia, traslato dal francese uchronie, e l’interesse di Evola nei confronti della sua filosofia rappresenterà un importante punto di contatto fra il problema delle ipotesi controfattuali nella storiografia e nella narrativa e l’interesse proficuo fra la destra italiana radicale e spiritualista e l’ucronia Questa sezione dell’elaborato termina perciò con l’analisi del primo romanzo ucronico italiano, ovvero Benito I Imperatore di Marco Ramperti, la cui stesura e pubblicazione si colloca all’interno del contesto storico del primo attivismo neofascista italiano e dello scontro fra i vertici del MSI e i giovani reduci di Salò vicini al Ragguppamento Giovanili (con i quali si schiera Ramperti, nonostante la differenza di età). L’edizione del romanzo sarà infatti di poco precedente al processo contro i FAR (e Julius Evola) che determinerà un’importante battuta di arresto in questo primo movimentismo neofascista. Nella seconda parte dell’elaborato si propone l’esame del periodo che va dalla pubblicazione di Benito I all’edizione dell’antologia di racconti ucronici Fantafascismo! curata da Gianfranco de Turris. La prima sezione analizza tre singolari romanzi ucronici totalmente slegati sia dagli ambiti della destra radicale che da quelli della nicchia fantascientifica, ma anche dotati di una notevole indipendenza dai modelli stranieri. Si tratta di Asse pigliatutto di Lucio Ceva, Aprire il fuoco di Luciano Bianciardi e la principale opera ucronica italiana, ovvero Contro-passato prossimo di Guido Morselli. Dopo un paragrafo introduttivo in cui si illustrano i motivi per cui si potrebbero indicarli come testi canonici di una linea indipendente e prettamente italiana di narrativa ucronica, la trattazione prosegue con l’analisi di Aprire il fuoco, romanzo che non presenta le caratteristiche dell’ucronia pura, ma che risulta una tappa fondamentale nella cronologia della fantastoria italiana, soprattutto per la sua grande originalità. Successivamente, si cerca di mettere in comparazione Contro-passato prossimo con l’ucronia più rappresentativa in ambito anglosassone, ovvero The Man in the High Castle di Phili K. Dick, in modo da far emergere, attraverso il raffronto fra queste due opere esemplari, alcune caratteristiche comuni alle ucronie mature. La seconda sezione di questa parte, invece, ricostruisce sinteticamente la storia del dibattito su fantascienza e fascismo all’interno delle riveste di settore italiane e il ruolo di questa querelle nella compilazione dell’antologia di racconti ucronici ad ambientazione fascista, uscita con la curatela di Gianfranco de Turris per i tipi di Settimo Sigillo nel 1999. In questa raccolta, infatti si trova il racconto da cui scaturirà la saga ucronica italiana di maggior successo, ovvero quella di Occidente di Mario Farneti, la cui pubblicazione fomenterà nuovamente la polemica sulla letteratura fantastica neofascista, anche grazie a un articolo di Valerio Evangelisti su Monde Diplomatique. Dopo l’analisi della saga di Occidente, la seconda parte chiude con una rassegna delle altre pubblicazioni ucroniche italiane degli anni Novanta. La terza parte esamina la situazione della narrativa ucronica italiana negli anni Duemila e offre una breve rassegna delle tendenze attuali. In essa sono affrontate le varie forme di ucronia fantafascista slegate dall’ambiente della destra radicale (o in aperta polemica con esso), come i due romanzi di Giampietro Stocco ambientati in un’Italia in cui il regime è sopravvissuto fino agli anni Sessanta e l’Epopea fantastorica italiana di Enrico Brizzi, ovvero la saga che rappresenta forse l’esito più interessante, da un punto di vista letterario, della narrativa ucronica italiana dopo Contro-passato prossimo. Nella saga allostorica di Brizzi, infatti, il fascismo vittorioso viene rappresentato non tanto nella sua brutalità – come nei romanzi di Stocco – quanto in relazione con i suoi aspetti grotteschi. Inoltre, per certi versi, il primo romanzo del ciclo, L’inattesa piega degli eventi, oltre a rappresentare un raro caso di narrativa sportiva italiana, cerca di innestarsi nell’esile tracciato delle opere storiche e letterarie italiane che cercano di rileggere in un’ottica post-coloniale il passato imperialista del nostro paese. Oltre a questi due cicli, sono analizzate le altre antologie ucroniche curate da de Turris e da altri e pubblicate sulla scia del successo di Occidente. La conclusione di questa parte e dell’intera ricerca si concentra sugli ultimi anni, segnati dall’esaurimento del filone fantafascista (allineato o meno agli ambienti della destra sociale) e dalla comparsa dei primi esempi di steampunk italiano, una sorta di sottogenere fantastorico del fantasy, privo delle ambizioni della letteratura ucronica, di cui sembra semmai una versione depotenziata. In chiusura della ricerca è stata inserita un’appendice in cui sono schematizzate tutte le narrazioni ucroniche pure considerate, con i loro punti di divergenza e alcune proposte personali di catalogazione tassonomica dei testi.
XXVII Ciclo
1981
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