Academic literature on the topic 'SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE UMANISTICHE - indirizzo STORICO'

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Dissertations / Theses on the topic "SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE UMANISTICHE - indirizzo STORICO"

1

Diklic, Olga. "AMBIENTI NATURALI, PROGETTI STATALI E PROPOSTE DI RIFORMA NEL TERRITORIO DI TRAÙ DI FINE SETTECENTO E PRIMA METÁ DELL’OTTOCENTO." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/9957.

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Abstract:
2012/2013
Tutt’altro che selvaggio o immodificato era l’ambiente naturale tragurese di fine Settecento e della prima metà dell’ Ottocento. Il territorio ed il suo ambiente in termini ecostorici lo contrassegnavano le economie e le società preindustriali della tarda età moderna e i modelli tradizionali dell’uso della terra. La dimensione che li rendeva “selvaggi” erano i modelli percettivi occidentali di un “barbarico” ed economicamente arretrato “Adriatic empire” e le forme aspre dell’assetto naturale, che nella visione dei contemporanei risultavano indomabili, insufficentemente sfruttate o poco usufruibili. Di conseguenza, a dominare l’area si presentava proprio il fattore naturale, cui conseguentemente era da associarsi la genuinità e la potenzialità dell’area. Risultato di queste visioni del tempo e dello spazio, accompagnate dalle accurate mappature e statistiche statali sul suo assetto e sulle sue potenzialità (eseguite ai fini del consolidamento del potere), era l’apertura ad un’ ulteriore esplorazione delle terre sconosciute della “mythical Illyria” e ad un’ ulteriore modifica dell’ambiente naturale. Un tale rapporto con l’ ambiente naturale ben si inquadrava nella visione antropocentrica dell’ ambiente che rievocava l’utilizzo deliberato ed incondizionato della natura che in età moderna avrebbe trovato la sua articolazione naturale nell’emergere dello stato territoriale e del capitalismo. Questà è un analisi ecostorica che come l’ idea aveva rilevare i diversi aspetti dell’ impatto umano sull’ ambiente naturale in un relativamente breve e transitorio periodo storico, caratterizzante i forti avvenimenti di guerra e modifiche di governi, i nuovi paradigmi di società e politiche, ma ancora non immodificati i rapporti sociali ed economici e gli effetti di accumulata pressione antropica storica sull’ ambiente. In tale contesto sono appunto i diversi elementi dell’ambiente naturale a raccontare di un momento storico segnato da un ambiente naturale fortemente trasformato, ma anche di una lunga storia dell’ impatto umano sull’ ambiente incisa sulla sua parte geografica e fisica così come su quella storica e di evento.
XXV Ciclo
1970
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2

D'Amelio, Diego. "Ritratto di un'élite dirigente. I democristiani di Trieste 1949-1966." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/30670.

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Abstract:
2009/2010
Questa tesi di dottorato si pone l’obiettivo di ricostruire la vicenda e il profilo del ceto dirigente politico-amministrativo espresso dalla Democrazia cristiana di Trieste, dal dopoguerra alla metà degli anni Sessanta. L’élite democristiana viene qui assunta come caso di studio: l’attenzione alla dimensione locale punta a contribuire, più generalmente, all’analisi storiografica rivolta negli ultimi anni alle classi dirigenti repubblicane; al ruolo dei partiti nella transizione tra fascismo e democrazia; al funzionamento dei meccanismi di rappresentanza e di integrazione fra centro e periferia. La tesi presenta linee interpretative e spunti metodologici innovativi, resi possibili da un approccio interdisciplinare che unisce storia e scienze sociali (statistica e sociologia). Il testo è diviso in due sezioni: la prima ripercorre la parabola della DC e del movimento cattolico politico di Trieste, la fase di formazione dei suoi protagonisti, le ragioni del consenso e il progetto di fondo perseguito. La seconda parte definisce in termini sociologici il profilo dell’élite – età, provenienza, studi e professione – considerando nel contempo estrazione sociale, preparazione, canali di reclutamento, fattori di legittimazione, risultati elettorali, schieramenti correntizi, ruolo degli istriani (insieme bacino di consenso e serbatoio di classe dirigente), processi di occupazione del «potere», ricambio politico-generazionale e sviluppo delle carriere. Informazioni dettagliate sono state raccolte su un campione di circa 200 persone, ovvero su coloro i quali diedero forma alla classe dirigente cattolica nell’arco cronologico prescelto. Questi elementi ricoprirono ruoli decisionali – con gradi di responsabilità diversi – nello scudo crociato, nelle realtà elettive e in quelle di nomina politica: la ricerca ha permesso di ricostruirne fisionomia socio-anagrafica, presenze negli enti locali e negli organi di partito, schieramento correntizio e reticoli collaterali. Sui detentori degli incarichi più rilevanti, circa 70 persone, è stata inoltre avviata una più approfondita analisi delle biografie e delle carriere. Le fonti utilizzate sono numerose: archivio provinciale del partito (recentemente messo a disposizione dall’Istituto Sturzo e mai utilizzato sistematicamente prima d’ora), stampa, anagrafe, archivio comunale e diocesano, fondi personali, memorialistica e interviste. La codifica e l’esame dei dati ha consentito di realizzare a supporto dell’esposizione circa 20 tabelle e oltre 70 biografie, contenute in due appendici poste alla fine del volume. Il testo mette in luce il quadro d’insieme del ceto democristiano: la composizione degli organismi elettivi e di partito, le caratteristiche individuali e di gruppo dell’élite, il rapporto tra militanza e ruoli pubblici, il profilo delle correnti e le proporzioni della geografia politica interna, il seguito elettorale, le forme di collateralismo (Azione cattolica, ACLI, sindacato e associazionismo istriano), le biografie e il processo di costruzione della nuova leadership. Particolare attenzione è stata prestata agli aspetti generazionali e correntizi: ciò ha consentito di mettere in connessione età, formazione e progetto politico; valutare il peso specifico delle singole correnti nel partito e negli enti; analizzare i criteri di suddivisione dei vari incarichi e i processi di ricollocamento prodotti dalla nascita di nuove tendenze. Si tratta di un approccio in parte inedito, generalmente non utilizzato in lavori simili a questo, ma allo stesso tempo fondamentale per fornire nuove chiavi di lettura alla storia politica e per avvicinarsi con rigore a un’organizzazione strutturata come la Democrazia cristiana. Il lavoro ha cercato infine, quando possibile, di assumere una prospettiva comparativa, per paragonare il contesto locale ai meccanismi funzionanti a livello nazionale e in altre aree del paese, individuando così uniformità e sfasamenti generazionali e politici. Il metodo utilizzato in questa sede è ormai affinato e potrebbe essere applicato alla DC triestina degli anni successivi, ai diversi partiti del teatro giuliano, a gruppi dirigenti cattolici di altre città oppure al livello nazionale dello scudo crociato e delle istituzioni, su cui le informazioni sono peraltro ben più abbondanti. Il sistema messo a punto permetterebbe infine di essere utilizzato – con gli adattamenti del caso – anche sulle più recenti generazioni politiche. I vantaggi che questi sviluppi promettono per un approccio comparativo sono evidenti. In conclusione, la tesi ricostruisce le vicende e le caratteristiche di un’élite periferica, affermatasi in assenza di una tradizione politico-culturale precedentemente radicata e capace di governare Trieste dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta. Il testo prende in esame la formazione, l’affermazione, i progetti, le scelte e le linee politiche di due differenti generazioni di cattolici, influenzate inevitabilmente dalla peculiare situazione del confine orientale e dalla necessità di ripensare la dimensione del confine, dopo la stagione liberal-nazionale e il fascismo. In un primo momento la Democrazia cristiana si assicurò il consenso, assumendo la responsabilità della «difesa dell’italianità» e dell’anticomunismo, in un territorio sottratto alla sovranità dello Stato, sottoposto ad amministrazione anglo-americana e oggetto di una dura contesa ideologica e statuale. Dopo il 1954 una nuova leva sostituì il ceto dirigente degasperiano, impegnandosi nel superamento dell’emergenza e nella «normalizzazione» della politica, dell’amministrazione, dell’economia e dei rapporti fra italiani e sloveni, nell’ambito del centro-sinistra. La DC giuliana propose insomma una strategia in due tempi, riassunta dalla storiografia con la formula di «cattolicesimo di frontiera»: esso fu impostato nel dopoguerra, venne radicalmente aggiornato dopo il ritorno all’Italia e si concluse alla fine degli anni Settanta, davanti alle reazioni suscitate dal trattato di Osimo. Tale periodo corrispose a importanti evoluzioni del quadro nazionale, con il superamento del centrismo e la maturazione dei fermenti di rinnovamento all’interno del mondo cattolico italiano. L’analisi dei nodi descritti è accompagnata dall’indagine sulle concrete ricadute della svolta politica e generazionale, avvenuta nel 1957, prima nel partito e di riflesso nell’ambito elettivo. L’ascesa della corrente di Iniziativa democratica e poi dell’area «doro-morotea» produssero infatti significative modifiche della linea e del personale politico, che corrisposero peraltro alla costruzione dell’egemonia democristiana nello spazio pubblico, grazie al definitivo controllo degli enti locali, della Regione autonoma a Statuto speciale e all’elezione dei primi deputati nel 1958. L’esame dei meccanismi di occupazione dei principali gangli dell’amministrazione è supportata dai dati statistici raccolti, i quali ben evidenziano le caratteristiche socio-anagrafiche, le reti di relazione e le dinamiche di potere che contraddistinsero il ceto politico democristiano di Trieste.
Introduzione Il panorama 9 Il dialogo fra storia e scienze sociali 14 Costruire le basi per una biografia collettiva 17 Le motivazioni di una proposta metodologica 22 Ringraziamenti 29 Sezione 1 Difesa nazionale e «normalizzazione». Il ceto dirigente cattolico nel dopoguerra triestino Antonio Santin, Edoardo Marzari e la «vecchia guardia»: la preparazione del domani 31 La difesa dell’italianità e la costruzione del consenso 56 Uomini nuovi: «normalizzazione» ed egemonia democristiana 77 Il progetto della terza generazione 104 Sezione 2 Correnti, generazioni e potere nella Democrazia cristiana di Trieste (1949-1966) La Democrazia cristiana, gli altri partiti e la prova del voto 126 Il nuovo corso della DC. Il «cambio della guardia» del maggio 195 140 Le correnti. Composizione e assetto del motore politico democristiano 158 Il Comune e la Provincia. Le ricadute istituzionali del «cambio della guardia» 176 L’«imprenditore politico». La Regione e il parlamento 195 La costruzione dell’egemonia. Gli enti di secondo grado 201 La creazione di un’élite. I processi di ricambio e le carriere 211 Conclusioni 253 Appendice A - Le tabelle 276 Appendice B - Le biografie 300 Abbreviazioni 464
XXII Ciclo
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3

D'ambrosio, Stefano. "Il romanzo storico italiano del XXI secolo. Indagine tipologica e risvolti ideologici." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10143.

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Abstract:
2012/2013
La tesi si apre con un paragrafo introduttivo, dedicato a delineare per cenni lo scenario della produzione narrativa italiana dell’ultimo decennio sulla base di alcuni studi quantitativi che propongono una classificazione delle opere pubblicate in Italia entro una griglia articolata in cinque classi, fondate su categorie dell’immaginario narrativo. A partire dal quadro che questi studi lasciano intravedere, si prendono le mosse per introdurre la questione del romanzo storico, rendendo ragione di una produzione vasta, stratificata su più livelli, molto differenziata al proprio interno e capace di riscuotere interesse ed apprezzamento da parte del pubblico. Si accenna poi al discrimine cronologico che segna la rinascita del romanzo storico in età contemporanea: esso è dai più collocato sul finire degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Dopo aver passato in rassegna i titoli più significativi dei due decenni successivi, si prende posizione a favore della tesi della continuità tra il romanzo storico classico e la produzione più recente. Essa andrà dunque intesa non come vera e propria rifondazione del romanzo storico, bensì come momento di ritorno in auge dopo un periodo relativamente lungo di minor visibilità e di calo quantitativo. Dopo aver fatto il punto sulle più rilevanti proposte elaborate dalla critica negli ultimi trent’anni, si argomenta a favore di una definizione quanto più possibile ampia ed inclusiva, perché maggiormente funzionale a storicizzare in modo nuovo. Si sottolineano gli svantaggi dell’utilizzo dell’etichetta di ‘romanzo storico’ come categoria applicabile esclusivamente alla produzione ottocentesca e dell’introduzione di nuove etichette volte ad enfatizzare la natura irriducibile della produzione più recente alla formula e all’ideologia del romanzo storico classico. Si esplicita infine il significato che all’interno della ricerca si attribuirà all’etichetta di ‘romanzo storico’, specificando che esso è in larga misura fondato sulla definizione proposta da Vittorio Spinazzola. L’adozione di una definizione ampia ed inclusiva comporta la necessità di individuare all’interno del genere ‘romanzo storico’ alcune subcategorie dotate di una propria specifica coerenza. Per questa ragione si affronta sommariamente il nodo teorico del genere. Ci si sofferma in particolare sulle teorie elaborate in ambito semiotico ed ermeneutico, che costituiscono la cornice teorica di riferimento della ricerca. La finalità della ricerca è duplice: da un lato analizzare la fisionomia assunta dal romanzo storico contemporaneo, individuando morfologie ricorrenti, il loro rapporto con la produzione del recente passato e con la struttura del romanzo storico classico; dall’altro sondarne i risvolti ideologici per verificare se la produzione contemporanea possa essere considerata espressione di ‘impegno’. Si prende in considerazione una campionatura significativa di romanzi storici italiani editi nel decennio 2001-2010. Essi vengono organizzati in quattro subcategorie che presentano caratteristiche strutturali omogenee. In un primo filone i personaggi storici – tutti di primo piano – occupano il centro della scena narrativa e il vertice della gerarchia sociale; essi detengono il potere, da soli o in concorrenza con altri. L’epoca rappresentata coincide sempre con un potenziale bivio della storia. La rappresentazione dei fattori economici, sociali, culturali che concorrono a determinare i processi storici è del tutto marginale: la storia appare il frutto di decisioni personali, assunte nel chiuso dei palazzi e calate dall’alto sul popolo, il quale ne è il destinatario passivo. La narrazione è condotta attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, che entra in contatto con i potenti influenzandone il comportamento. Egli non appartiene al mondo del potere: per questo può raccontarlo con uno sguardo affidabile e distanziato. Dalla sua prospettiva la storia gli appare un gioco di potere, l’esito di un complotto permanente che rimane celato alle masse perché la verità è sistematicamente censurata e falsificata. Romanzi analizzati: Nella variante morfologica di romanzi storici ‘al femminile’ il livello della grande storia, intesa come insieme degli eventi rilevanti sul piano politico-militare, rimane sullo sfondo o è del tutto ignorato; oggetto di interesse è, al contrario, la rappresentazione, in un tempo e in un luogo qualunque, di un assetto sociale ingiusto e discriminatorio nei confronti delle donne, che condanna il genere femminile in quanto tale ad una condizione di marginalità ed irrilevanza universalmente condivisa e accettata, in quanto ritenuta naturale ed immutabile. Questo filone si incarica di rintracciare nel passato esempi di eroine precorritrici dei tempi, portatrici di una moderna energia e sensibilità, capaci di sfidare le convenzioni sociali, la sensibilità e la cultura della loro epoca. Si tratta dunque di una tipologia finalizzata a gratificare un pubblico incline a rappresentare se stesso quale esponente o sostenitore di un modello di femminilità dinamico e moderno, che consapevolmente persegue, con un atteggiamento percepito come una forma di militanza, un modello sociale in cui la piena parità di diritti ed opportunità sia effettivamente compiuta. L’aggregato morfologico del romanzo storico-esistenziale sceglie di concentrare l’ottica narrativa sulla microstoria, incaricandosi di raccontare piccole vicende private, personali o familiari, che si sviluppano sullo sfondo di una Storia incombente e minacciosa. Si tratta di un modo di affrontare la rappresentazione del passato che sembra perseguire programmaticamente la scomparsa della dialettica tra macro e microstoria. Il filone storico-esistenziale non si preoccupa di spiegare la Storia: i romanzi ad esso riconducibili sono accomunati dalla scelta di dare della storia una rappresentazione emotiva, in base alla quale essa appare una manifestazione sensibile del male. Il lettore di questi romanzi vede nella storia un’unica insensata carneficina: non distingue, non contestualizza, perché ha già un’idea precostituita della storia. La storia è l’attualizzazione del male che è inscritto nell’animo umano, è l’esito manifesto di un peccato originale. I romanzi storici postmoderni – quarta variante tipologica – non intendono divulgare conoscenza storica, né utilizzare il passato come metafora del presente, ma indagare la possibilità stessa di fare storia. Il rapporto diretto, aproblematico tra fatto storico e discorso storiografico viene incrinato. I quesiti posti da questi romanzi sono di natura epistemologica: vengono indagate le relazioni che si instaurano tra documento storico e narrazione su di esso fondata, viene esplicitata la natura equivoca delle fonti ed instillato il dubbio sulla loro neutralità, viene smascherato il quoziente di arbitrarietà di qualsiasi narrazione storiografica, è denunciata l’inevitabile compromissione con il potere di ogni discorso sul passato. Questi romanzi non appaiono focalizzati sulla ricostruzione di un determinato periodo storico, né sulla comprensione del passato sulla base di una logica di antecedenza/conseguenza, bensì su questioni che travalicano i limiti di un orizzonte temporale limitato per porsi in termini astorici e metastorici: più che condurre una riflessione sulla storia, riguardo alla quale postulano l’impossibilità di una conoscenza oggettiva di qualunque tipo, conducono una riflessione sulla storiografia, erodendo il confine che la separa dall’invenzione letteraria, confine percepito come infondato e artificiale. In una cornice narrativa di secondo grado, che funge da metanarrazione, viene inscenato il processo di elaborazione del discorso storiografico: si fornisce qui una rappresentazione drammatizzata del lavoro dello storico, servendosi di un personaggio che, per ragioni narrative, cerca di ricostruire il passato e di riappropriarsene, ma si trova paralizzato in una congerie di dati e di testimonianze, autentiche o fasulle, fra loro non armonizzabili, che conducono ad altrettanti vicoli ciechi Il quinto filone, dedicandosi alla ricostruzione della cultura, dell’immaginario, della sensibilità e della percezione della realtà proprie di un’epoca trascorsa, coniuga un’estrema fedeltà al dato storico con la produzione di un effetto di straniamento, che va nella direzione opposta rispetto all’esito mimetico tipico del romanzo storico. In questo aggregato testuale la narrazione è condotta attraverso il punto di vista di un narratore che condivide i parametri di una cultura estinta, totalmente estranea all’orizzonte culturale del presente, oppure di una cultura che, pur prossima alla nostra, presenti modelli cognitivi così lontani da quelli attivi nel presente, da produrre una sistematica infrazione dei parametri di verosimiglianza comunemente accettati. Il tentativo di riportare in vita il passato per mezzo della più fedele adesione ad una visione del mondo ormai tramontata sfocia paradossalmente in un effetto di irrealtà, che spalanca le porte del romance e conduce in territori affini a quelli della fiaba e del mito. Di fronte a questo modo di rappresentare la realtà e narrare la storia, assolutamente realistico dal punto di vista del narratore, ma totalmente spiazzante per il lettore radicato in un tempo e in una cultura diversi, si produce quell’esitazione di cui parla Todorov riguardo al fantastico, la cui radice consiste nella scoperta e nell’esplicitazione dell’irriducibile alterità del passato rispetto alla fisionomia del presente. L’obiettivo di questi romanzi non è però trasportare il lettore in una dimensione fantastica, bensì di spingerlo ad assumere consapevolezza degli schemi mentali che guidavano popoli lontani nello spazio e nel tempo: cioè dare una spiegazione razionale (la relatività storica delle civiltà umane) ad un iniziale effetto di esitazione o spaesamento. I risultati a cui si è pervenuti restituiscono un’immagine complessa dello scenario letterario di inizio millennio, che conferma solo parzialmente le due ipotesi sulle quali si era aperta e per le quali si rinvia al capitolo terzo. Per quanto riguarda la morfologia assunta dal romanzo storico nel periodo considerato, non trova riscontro l’assunto dell’affermazione di una struttura radicalmente nuova: accanto ad alcuni tratti di originalità, la maggior parte dei romanzi storici analizzati ripropone e contamina paradigmi consolidati. Riguardo al tema dell’impegno, l’analisi dei testi non pare evidenziare una linea di tendenza statisticamente rilevante: si può parlare di un impiego del passato con finalità di battaglia politica in un numero non significativo di casi; si tratta inoltre di un impegno non di rado viziato da un atteggiamento narcisistico e populistico.
XXV Ciclo
1975
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4

Dato, Gaetano. "L'uso delle memorie: il caso di Trieste, confine culturale e ideologico nel cuore dell'Europa 1945-1965." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8647.

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Abstract:
2011/2012
I studied the relationships between politics and religion around the sites of memory in North Adriatic border region in late modern age. This means that I have discovered how the National tradition developed in German and Austrian culture in 19th century, synthetically defined by G. Mosse’s category Nationalization of the Masses, became a foundamental paradigm both in Italian and Slovenian civil religions of the region, until the second half of 20th century. Using both Italian and Slovenian sources, I am trying to analyze the relation of Italian and Slovenian border society with their history and memory, and how these influences had affected public opinion and collective conscience.
XXV Ciclo
1981
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5

Bencich, Marco. "Protagonisti e correnti del sionismo italiano fra Otto e Novecento." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10010.

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Abstract:
2012/2013
Questo lavoro ha avuto come oggetto di studio l'attività del movimento sionista nella penisola italiana tra Otto e Novecento, e più nello specifico sono stati analizzati il processo di diffusione della sua ideologia e i suoi maggiori esponenti a livello nazionale. Nel contempo è stato esaminato il particolare ruolo propagandistico della stampa ebraica attraverso un continuo confronto delle differenti opinioni e posizioni delle singole riviste sioniste e filo-sioniste italiane riguardo ad alcune delle principali questioni messe in campo dal movimento ebraico di rinascita nazionale. I periodici sono stati altresì utilizzati per esaminare quelle che furono le reazioni dei sionisti italiani di fronte ai maggiori eventi che toccarono direttamente o indirettamente la comunità ebraica (italiana e internazionale) tra Otto e Novecento. Un lavoro dunque sulle idee e gli atteggiamenti, sulle polemiche e le contraddizioni, che contraddistinsero il sionismo italiano tra la fine dell'Ottocento e il primo ventennio del Novecento. Il periodo esaminato è senz'altro fra i più interessanti, ma difficili e convulsi, della storia ebraica italiana. All'inizio del Novecento l'ebraismo italiano era immerso nel clima liberale dell'epoca post-emancipazionista: in gran parte della popolazione ebraica l'uscita dai ghetti fu intesa e vissuta come libertà da se stessi, ovvero dal mondo ebraico. La conseguenza più evidente di questa nuova condizione dell'ebraismo italiano fu la disgregazione del concetto unitario e globale della vita ebraica e la sua riduzione ad un mero fenomeno religioso, ovvero di coscienza personale. Il movimento sionista ebbe il merito di mettere a nudo le contraddizioni che erano emerse all'interno delle Comunità italiane in seguito ai processi di emancipazione e integrazione. Nella ricerca si sono impiegate e confrontate tre differenti tipologie di fonti: pubblicazioni a stampa (articoli e opuscoli), lettere private e documenti ufficiali della Federazione Sionistica Italiana e dei vari Circoli locali (corrispondenza del Presidente della Federazione, verbali, volantini di propaganda). Il lavoro si articola in otto capitoli, di cui i primi quattro sono organizzati in prevalenza su base tematica mentre gli ultimi seguono lo sviluppo prettamente cronologico del sionismo italiano. Il primo capitolo ha carattere introduttivo: vi presento una problematizzazione storiografica sulla questione dell'identità ebraica dopo l'emancipazione. Il secondo capitolo contiene uno studio sui periodici sionisti e filo-sionisti in lingua italiana, la fonte principale di questo lavoro, e i loro principi ispiratori, che per molti versi furono dissimili gli uni dagli altri; nel terzo cerco invece di estrinsecare le varie declinazioni che il concetto di «sionismo» assunse nelle riflessioni dei sionisti italiani. I capitoli dal quarto all'ottavo analizzano lo sviluppo del sionismo italiano fino alla prima Guerra Mondiale, con particolare attenzione ai suoi rapporti con il movimento internazionale (capitolo IV) e le conseguenze che su di esso ebbero i conflitti bellici dello Stato italiano (capitolo VIII); uno dei punti nodali del presente lavoro è rappresentato dall'ascesa e crisi dell'attivismo sionista in Italia (capitoli V e VI).
XXV Ciclo
1981
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6

Delogu, Giulia. "Trieste «di tesori e virtù sede gioconda» Dall’Arcadia Romano-Sonziaca alla Società di Minerva: una storia poetica." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11002.

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7

Miklic, Vanja. "Le Comunità greca e illirica di Trieste: dalla separazione ecclesiastica alla collaborazione economica (XVIII - XIX secolo)." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10079.

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Abstract:
2012/2013
Nel XVIII secolo, in seguito alla dichiarazione del Porto franco, Trieste si trasformò in una città-porto cosmopolita. Le nuove comunità etnico-religiose, e in particolar modo i greci, gli illirici e gli ebrei usufruirono della favorevole politica economica, dei privilegi commerciali ma soprattutto dell’alto livello di tolleranza religiosa garantiti dal governo asburgico. Questo atteggiamento imperiale contribuì a consolidare la fiducia delle comunità immigrate nel governo centrale, e a diminuire la sensazione di estraneità favorendo la loro integrazione. I greci e gli illirici parteciparono attivamente allo sviluppo di tutti i rami dell’economia triestina. Si occuparono prevalentemente del commercio al minuto e all’ingrosso monopolizzando quasi esclusivamente il commercio con il Levante grazie alla creazione delle reti intra-famigliari basate sulla fiducia, reputazione e reciprocità. I greci furono più propensi verso il settore commerciale mentre il settore armatoriale rappresentava il punto di forza degli illirici. Come conseguenza diretta dell’aumento dei commerci marittimi con il Levante, dello sviluppo del settore armatoriale e dell’accumulo di capitale, sorsero le prime società assicurative. Anche in questo settore l’intensa collaborazione greco-illirica, condusse all’accentramento del potere nelle mani dell’élite commerciale ortodossa. Il benessere economico dei greci e degli illirici, risultato delle fiorenti attività imprenditoriali, si concretizzò anche in cultura, mecenatismo e possesso immobiliare.
In the eighteenth century, following the declaration of the Free Port, Trieste became a cosmopolitan port-city. The new ethno-religious communities, and especially the Greeks, the Illyrians and the Jews took advantage of the favorable economic policy, trade privileges, and especially the high level of religious tolerance guaranteed by the Habsburg government. This imperial attitude helped to consolidate the trust of immigrant communities in the central government, and reduce the feeling of alienation by fostering their integration. The Greeks and Illyrians participated actively in the development of all branches of the economy of Trieste. They were involved mainly in retail trade and wholesale almost exclusively monopolizing trade with the Levant through the creation of intra-family networks based on trust, reputation and reciprocity. The Greeks were more prone to the commercial sector while the Illyrians were more prone to the shipping. As a direct result of increased maritime trade with the Levant, the development of the shipping sector and the accumulation of capital, first insurance companies were founded. The intense Greek-Illyrian collaboration, in this sector resulted with the centralization of power by the Orthodox commercial élite. The economic prosperity of the Greeks and Illyrians as result of the flourishing business activities, found its expression in culture, patronage and real estate possession.
XXV Ciclo
1983
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8

Bullian, Enrico. "La sicurezza sul lavoro e la navalmeccanica dal secondo dopoguerra a oggi. Il caso del cantiere di Monfalcone." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/10260.

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Abstract:
2011/2012
La tesi ha l’obiettivo di indagare l’evoluzione della gestione della sicurezza sul lavoro nell’Italia del Novecento e in particolare del secondo dopoguerra. L’attenzione viene focalizzata sul caso specifico della navalmeccanica e del Cantiere di Monfalcone, anche in chiave comparata con un approfondimento sul periodo fra gli anni Sessanta e Ottanta. I primi 3 capitoli si occupano della sicurezza sul lavoro in Italia nella seconda metà del Novecento, mentre i capp. 4-6 trattano della salute operaia nel Cantiere di Monfalcone e negli altri stabilimenti navali. In ogni capitolo si affronta il problema in termini riferibili sia agli infortuni sia alle malattie professionali, svolgendo approfondimenti specifici sull’esposizione all’amianto.
XXIV Ciclo
1983
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9

Stopper, Francesca. "Per una storia dell'oreficeria veneziana: le suppellettili liturgiche tra 1680 e 1797." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/11125.

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Abstract:
2013/2014
Il presente studio pone l’attenzione sulla stagione barocca e rococò dell’oreficeria veneziana. Si prefissa di tracciare una storia dell’evoluzione dell’oreficeria sacra a Venezia, partendo dall’analisi delle opere a carattere sacro che si conservano nelle chiese della città lagunare. Sulla scorta dell’intreccio tra la ricerca sulle fonti manoscritte, a stampa e sui documenti d’archivio, l’analisi dei punzoni e lo studio diretto dei manufatti (si sono catalogati più di 250 oggetti), si è cercato di descrivere il periodo che dall’affermazione del gusto barocco ha portato al Rococò. A tal fine, si sono esaminate le vicende artistiche di alcuni tra i principali orefici e botteghe, operanti nella lavorazione delle suppellettili liturgiche. Tra questi si ricordano Antonio Bonacina, Pietro Bortoletto, Andrea Zambelli e le botteghe al Coraggio, al Trofeo, al Trionfo di Santa Chiesa e al San Lorenzo Giustinian, di cui è stato possibile riunire un corpus di opere significative. Lo studio ha inoltre approfondito il tema delle interferenze e delle interrelazioni tra le arti. Oltre alle affinità stilistico-formali evidenti dal confronto tra oreficerie, bronzetti e sculture, riconducibili alla diffusione dei medesimi prototipi e alla partecipazione dello stesso sentire artistico, si è fatta luce su più occasioni in cui orefici hanno collaborato con architetti, pittori, scultori e intagliatori nelle commissioni di apparati processionali e di arredi d’altare.
XXVII Ciclo
1984
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10

Londero, Igor. "Felice Ippolito intellettuale e grand commis - La ricerca nucleare in Italia dal dopoguerra al primo centrosinistra." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8618.

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Abstract:
2011/2012
Lo studio della fisica nucleare in Italia ebbe il suo mito fondativo nelle vicende dei “ragazzi di via Panisperna”, dal nome della via romana in cui sorgevano i laboratori diretti da Enrico Fermi. Dopo aver raggiunto la fama mondiale (in particolare con il Nobel per la fisica di Fermi nel 1938), il gruppo fu disperso a causa della politica (sia razziale che scientifica) del regime fascista. Mentre Fermi ed altri, espatriati in America, davano il proprio determinante contributo alla realizzazione della bomba atomica, in Italia rimase il solo Edoardo Amaldi che, nel dopoguerra, si trovò ad essere, nel Paese e fuori, un fondamentale punto di riferimento per la fisica italiana. Nell’immediato dopoguerra, a fronte di un sostanziale disinteresse del Governo italiano in materia di ricerca, furono le industrie elettriche private a muovere i primi passi verso la ricerca e lo sviluppo della tecnologia nucleare, concedendo il proprio appoggio ad alcuni giovani ricercatori del Politecnico di Milano che diedero vita al CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze). Parallelamente, la “comunità dei fisici” iniziava a ritagliarsi un proprio spazio autonomo di manovra. Nel 1951 i gruppi universitari che si occupavano di fisica fondamentale diedero vita all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) mentre l'anno successivo, non senza attriti con il CISE, il Ministero dell'Industria appoggiò la creazione del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN), incaricato di promuovere e occuparsi della fisica nucleare applicata. Alla presidenza fu nominato Francesco Giordani, chimico napoletano legato all'IRI ed agli ambienti del neo meridionalismo. Il Comitato, che solo nel 1960 fu mutato in CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) ottenendo la necessaria personalità giuridica, dovette costantemente far fronte alle difficoltà derivanti dalla propria fragilità istituzionale e dalle continue tensioni con l'industria elettrica privata. Ciononostante, sotto la guida del suo Segretario Generale Felice Ippolito, riuscì a dar vita ad importanti realizzazioni (come il Sincrotrone di Frascati o il Centro di ricerche nucleari di Ispra) e diede l'impulso fondamentale che portò alla costruzione, nei primi anni '60, delle prime centrali nucleari in Italia. Questo “periodo aureo” della fisica nucleare applicata iniziò a finire nell’agosto del 1963 quando una dura campagna stampa prese a mettere in discussione le gestione di Ippolito che si ritrovò al centro di un “caso” che da mediatico si fece ben presto giuridico e portò, nel marzo del 1964, all'arresto del Segretario Generale del CNEN per irregolarità amministrative. “Il caso Ippolito”, lungi dall’essere solo un processo per un isolato caso di malversazione, di fatto sancì la fine della ricerca e dello sviluppo del nucleare in Italia, facendo piazza pulita non solo dei progetti di nuove centrali atomiche, ma anche di un certo tipo di gestione degli enti pubblici che aveva fatto dell’elasticità amministrativa il proprio punto di forza, laddove in seguito si impose la burocratizzazione e la lottizzazione politica. Nella tesi in esame ho tentato di individuare, all'interno di un campo di ricerca così vario e così ricco di spunti collocati a cavallo di più discipline storiche (storia e filosofia della scienza, dell'economica e dell'industria, della cultura e della politica, delle relazioni internazionali), alcuni snodi focali ed emblematici che permettessero di sviluppare un percorso di indagine su quello che appariva come un meraviglioso tentativo di far recuperare all'Italia il tempo perduto a causa del regime fascista, in termini di sviluppo tecnologico e scientifico, ma anche culturale e politico. Tale tentativo ottenne risultati di rilievo mondiale nel dopoguerra ma andò incontro ad una nuova sconfitta, nei primi anni '60, quando emerse l'incapacità dello Stato di riformare se stesso per tener dietro ai rapidi mutamenti, non solo tecnici, che la tecnologia d'eccellenza pretende per mantenersi tale. Fin dall'inizio ho individuato in Felice Ippolito il trait d'union tra i fatti caratterizzanti le vicende trattate. Interessato alla ricerca nucleare quale geologo esperto in prospezioni minerarie, in seguito venne nominato Segretario Generale del CNRN e si trovò a rivestire un ruolo chiave, emblematico e rappresentativo, all'interno di un complesso ambiente culturale composto da intellettuali, scienziati ed alti funzionari che parteciparono ad una rete di rapporti all'interno della quale si elaborarono delle organiche strategie di sviluppo per il Paese. Ippolito divenne referente e portavoce di una comunità scientifica che si caratterizzava in quegli anni per il suo rapporto estremamente dialettico e consapevole con tutte le componenti della società, dalla classe politica al mondo dell'industria e dell'economica, dal mondo della cultura alle classi subalterne. Per comprendere l'incontro tra Ippolito e la comunità dei fisici, ho ritenuto di iniziare la tesi con un accenno all'esperienza dei “ragazzi di via Panisperna” e di Enrico Fermi, in particolare. La partenza in treno di Fermi per Stoccolma, il 6 dicembre 1938, dove avrebbe ritirato il premio Nobel prima di espatriare negli Stati Uniti (in fuga dalle leggi razziali ma soprattutto dall'incapacità del regime fascista di comprenderne e sostenerne le iniziative), è stata presentata come evento simbolico e metaforico della perdita di un primo “treno per la modernità” da parte dell'Italia. L'attenzione è stata posta soprattutto su chi rimase sulla banchina di quella stazione, ovvero Edoardo Amaldi, che pur con molti dubbi alla fine scelse di rimanere in Italia diventando il punto di riferimento per eccellenza, in virtù del suo carisma scientifico ed umano, della comunità dei fisici italiani nel dopoguerra. In particolare ho messo in evidenza il rafforzarsi in Amaldi di un punto di vista autonomo su quello che doveva essere il rapporto tra la ricerca scientifica ed il mondo della politica e dell'industria. Mentre oltreoceano Fermi delegava al Governo la valutazione etica e la gestione dei risultati del proprio lavoro scientifico, in Italia il suo allievo Amaldi fin dal dopoguerra iniziò a tessere una rete di rapporti, con l'industria e le aziende controllate dallo Stato, caratterizzati da alcuni principi imprescindibili. Quando gli industriali elettrici privati lo chiamarono al CISE, Amaldi pose perentorie condizioni alla propria partecipazione, come la difesa della sua autonomia scientifica, il rifiuto di ogni principio di segretezza, ed il fatto che la ricerca doveva andare a beneficio dell'intera collettività e non a vantaggio di pochi gruppi privati. Dopo aver delineato alcuni elementi della figura di Amaldi, ho concentrato il mio interesse su Ippolito e sui suoi rapporti con l'ambiente culturale napoletano, liberale e meridionalista, di cui anche Francesco Giordani faceva parte. Attraverso la bibliografia e gli archivi dell'ente, ho esaminato la nascita del CNRN sull'asse Ippolito-Giordani-Pietro Campilli (il Ministro dell'Industria che sostenne il progetto) e di seguito l'insorgere delle tensioni con il CISE e l'industria privata. L'obiettivo è stato di mettere in evidenza l'estrema “coerenza” dell'incontro tra i fisici rappresentati da Amaldi e la politica scientifica portata avanti da Ippolito e Giordani, capaci di soddisfarne sia le ambizioni tecnico scientifiche che etiche e politiche. Con un capitolo intermedio, su tematiche di politica nucleare internazionale, ho introdotto il tema dell'iniziatica Atoms for peace, lanciata dal Presidente americano Eisenhower, che prospettava una politica di disarmo atomico fondata sulla socializzazione della tecnologia nucleare ad uso civile. Rinunciando a proporre un inquadramento storiografico e critico complessivo, ho scelto di render conto della rappresentazione offerta da uno dei protagonisti di quegli anni, ovvero il francese Bertrand Goldschmidt, che influenzò grandemente il punto di vista di Ippolito e degli Amici del Mondo (cui Ippolito si legò) e che oggi testimonia in maniera particolarmente efficace il clima di “euforia atomica” che determinò allora fondamentali scelte di politica energetica europea. L'iniziativa Atoms for Peace diede l'occasione ad Ippolito di avviare un'intesa collaborazione con l'ambiente culturale che ruotava attorno alla rivista «Il Mondo» diretta da Mario Pannunzio e che in quel momento si presentava come la fucina, di stampo liberale radicale, dei progetti politici che portarono in seguito al Centrosinistra. Ripercorrendo le pagine della rivista ho messo in evidenza un percorso di progressiva presa di coscienza sulla questione nucleare. Se fino all'iniziativa Atoms for Peace erano considerate solo le applicazioni militari di tale tecnologia, in seguito e anche grazie all'intervento di Ippolito, il dibattito sul nucleare venne connesso alla questione della produzione energetica vista nella prospettiva della lotta contro i monopoli e per la nazionalizzazione del settore. Su questi temi centrali in quella fase politica (sulla nazionalizzazione del settore elettrico si giocò la battaglia fondamentale per il Centrosinistra), Ippolito in particolare, a metà degli anni '50, iniziò a tessere un discorso unitario tra crescente richiesta energetica, sviluppo della tecnologia nucleare e necessaria nazionalizzazione. Coerenti a questa linea iniziarono ad apparire su «Il Mondo» i “Dialoghi plutonici” di Ernesto Rossi che testimoniavano i rapporti sempre più stretti tra Ippolito e la rivista, nel contesto delle vicissitudini politiche che portarono alla nascita del Partito Radicale ed ai convegni degli Amici del Mondo “La lotta contro i monopoli” e “Atomo ed elettricità”. Usando gli atti dei convegni e analizzando i molti articoli in merito apparsi sulla rivista, ho messo in evidenza il processo che portò, a partire dalle posizioni antistataliste sempre sostenute sulle pagine di «Il Mondo» in particolare da Rossi, al definirsi della presa di posizione nazionalizzatrice espressa durante il convegno “La lotta contro i monopoli”. Del seminario “Atomo ed elettricità” ho ritenuto di particolare interesse l'identificazione operata dai relatori tra esigenze tecnico-scientifiche dell'energia nucleare e opzione nazionalizzatrice che portò ad una lettura prettamente politica delle scelte tecniche da operare in materia di filiere tecnologiche. Lettura che, come evidenzieremo, Ippolito non condividerà a favore di un approccio che preferisce le soluzioni particolari alle analisi universali. Atoms for Peace comporta un rilancio generale della politica nucleare italiana anche in termini di “gara atomica” tra ricerca e sviluppo pubblici e privati. In particolare, ho esaminato il crescente clima di ostilità tra il CNRN e l'industria privata (l'Edison in particolare) e le cause che portarono alle dimissioni di Giordani dalla Presidenza del Comitato. In un capitolo titolato “Come Mattei all'Agip” ho delineato le difficoltà istituzionali che dovette affrontare Ippolito da segretario plenipotenziario del CNRN ed il conseguente sviluppo di un modus operandi problematico che ebbe importanti conseguenze nella creazione del “caso” che sarebbe esploso. Tra le molte vicissitudini del CNRN ho seguito soprattutto il processo che portò alla costruzione delle prime centrali atomiche in Italia con particolar attenzione alla collaborazione tra CNRN e Banca Mondiale che portò alla costruzione della centrale di Garigliano e che sintetizzò istanze meridionaliste e nucleariste. Con il capitolo “Dal CNRN al CNEN” ho esaminato il percorso politico che portò alla nascita del CNEN nel contesto delle trattative per il primo Governo di Centrosinistra e della nazionalizzazione dell'energia elettrica. L'obiettivo è stato in particolare mettere in evidenza le tensioni che andarono delineandosi all'interno del nuovo ente elettrico, l'ENEL, tra le posizioni rappresentate dal Direttore Generale Angelini ed il consigliere Ippolito. Negli ultimi due capitoli ho riassunto in modo antologico l'aspetto più ampiamente trattato dalla storiografia esistente sul tema, ovvero il “caso” mediatico e giuridico che prese il nome del Segretario Generale del CNEN e che portò alla sua incarcerazione. Oltre alla fase processuale, ho ricostruito il quadro politico e gli avvenimenti che portarono alla messa in stato di accusa di Ippolito, nell'estate del 1963, ed alla sua incarcerazione l'anno successivo, che ebbero come diretta conseguenza il drastico ridimensionamento dei programmi nucleari del CNEN. Infine ho proposto un'analisi delle ipotesi interpretative date al “caso Ippolito” evidenziando anche alcuni aspetti che, per varie ragioni, non sono stati ancora indagati. In ultima analisi il presente studio tenta di mettere in luce la complessità della materia trattata che, pur prestandosi per molte ragioni alle semplificazioni complottistiche e dietrologiche di stampo giornalistico, risulta incomprensibile senza una contestualizzazione capace di connettere il percorso della fisica nucleare italiana (che a partire dall'esperienza dei “ragazzi di via Panisperna” tende a pensarsi e muoversi come una “comunità” portatrice di propri interessi e ideali), il dibattito filosofico, culturale e tecnico sulle ragioni e sui mezzi dell'intervento dello Stato nell'economia e sul ruolo di intellettuali e scienziati nella società, ed infine la storia politica italiana, europea ed internazionale che portò alla nascita del Centrosinistra.
XXIV Ciclo
1975
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