Academic literature on the topic 'SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN FINANZA'

Create a spot-on reference in APA, MLA, Chicago, Harvard, and other styles

Select a source type:

Consult the lists of relevant articles, books, theses, conference reports, and other scholarly sources on the topic 'SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN FINANZA.'

Next to every source in the list of references, there is an 'Add to bibliography' button. Press on it, and we will generate automatically the bibliographic reference to the chosen work in the citation style you need: APA, MLA, Harvard, Chicago, Vancouver, etc.

You can also download the full text of the academic publication as pdf and read online its abstract whenever available in the metadata.

Journal articles on the topic "SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN FINANZA"

1

Marcon, Alessandra, and Elvira Pietrobon. "Deconstructing paradigms of Western thought." CRIOS, no. 23 (October 2022): 78–87. http://dx.doi.org/10.3280/crios2022-023008.

Full text
Abstract:
Questo articolo ripercorre le due giornate del seminario Deconstructing paradigms of Western thought organizzato dalla Scuola di Dottorato in Urbanistica IUAV a Venezia nel maggio 2022. L'obiettivo del seminario era quello di esplorare due approcci emergenti che stanno contribuendo a reinterrogare alcuni paradigmi del pensiero occidentale, al fine di evidenziarne le ripercussioni sulla cultura della ricerca e del progetto urbanistici. Alla discussione sono stati invitati a partecipare gli autori di due libri: Sébastien Marot, autore di Taking the country's side, Agriculture and Architecture, e Antonio Di Campli, autore di La differenza amazzonica, Forme ed ecologie della coesistenza. Due prospettive hanno guidato la discussione all'interno dei rispettivi incontri: come fare ricerca e progettazione Beyond Nature and Nurture e cosa significa Decoloniale dal punto di vista dell'urbanistica. Attraverso la recensione del seminario, l'articolo intende riportare la discussione sulla ricerca e il progetto alla loro dimensione politica ed epistemologica attraverso strumenti rinnovati che tengano conto delle attuali condizioni di crisi e le riflessioni critiche che ne scaturiscono.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
2

SCHINDHELM, Virginia Georg. "Gênero, sexualidades e os desafios para educadore(a)s infantis." INTERRITÓRIOS 6, no. 10 (April 14, 2020): 73. http://dx.doi.org/10.33052/inter.v6i10.244894.

Full text
Abstract:
RESUMOO artigo resgata discussões dos trabalhos de mestrado e doutorado em educação sobre gênero, sexualidades e a formação docente para lidar com as questões cotidianas das escolas infantis. Sexualidade e gênero são campos inter-relacionados, todavia suas concepções e práticas se confundem e as tornam difíceis para pensá-las distintamente. Apresenta dados empíricos construídos nas produções acadêmicas com prioridade para narrativas de educadore(a)s sobre seus saberes e experiências vivenciadas nas escolas. Gênero e sexualidades são discutidos como concepções constitutivas da subjetividade, que falam sobre cada sujeito, seu corpo, sua cultura e o contexto social em que está inserido. Os trabalham destacam (a) a importância do tema ser refletido por docentes para desmistificar (des)conhecimentos e (pre)conceitos sexuais experienciados na escola (b) a busca de novas concepções e práticas no exercício da profissão, como alternativas e estratégias que contribuam para melhorias do processo formativo docente e das práticas laboriais de educadore(a)s infantis brasileiro(a)s.Formação docente. Gênero e sexualidades. Educação infantil. Gender, sexuality and the infant educators’ challenge ABSTRACT This article brings back master’s degree and PhD education works about gender, sexuality and teachers’ formation to deal with everyday situation in infant schools. Sexuality and gender are connected fields, although the conceptions and practices mix up and make it difficult to think about them clearly. It presents experimental data made in academical productions choosing educators’ narratives about their experiences in schools. Gender and sexualities are discussed as typical conceptions, which discuss about each person, body, culture and the social context in which he/she is inserted. The work appoints (a) this theme is important to be reflected by educators to make (un)known and prejudices sexual experienced in school clear (b) searching new professional conceptions and practices as possibilities and strategies which help to make the teachers’ learning process and working infant educators’ practices improve.Teachers’ formation. Gender and sexualities. Infant education. Género, sexualidad y desafíos para los educadores de la primera infanciaRESUMEN El artículo recupera las discusiones de los trabajos de maestría y doctorado en educación sobre género, sexualidad y formación docente para abordar los problemas diarios de las escuelas infantiles. La sexualidad y el género son campos interrelacionados, sin embargo, sus conceptos y prácticas se confunden y hacen que sea difícil pensarlos distintamente. Presenta datos empíricos construidos en producciones académicas con prioridad para las narraciones de los maestros sobre sus conocimientos y experiencias en las escuelas. El género y las sexualidades son discutidos como concepciones constitutivas de subjetividad, que hablan sobre cada sujeto, su cuerpo, su cultura y el contexto social en el que se inserta. Los trabajadores destacan (a) la importancia de que los maestros reflejen el tema para desmitificar (des)conocimientos y (pre)conceptos sexuales experimentados en la escuela (b) la búsqueda de nuevas concepciones y prácticas en el ejercicio de la profesión, como alternativas y estrategias que contribuyan para mejorar el proceso de formación del profesorado y las prácticas laborales de los educadores infantiles brasileños. Formación del profesorado.Género y sexualidades. Educación Infantil Genere, sessualità e sfide per gli educatori della prima infancia SINTESE L'articolo riprende le discussioni sul lavoro di master e dottorato nell'educazione su genere, sessualità e formazione degli insegnanti per affrontare le questioni quotidiane delle scuole per bambini. Sessualità e genere sono campi correlati, tuttavia le loro concezioni e pratiche sono confuse e rendono difficile pensarle distintamente. Presenta dati empirici costruiti in produzioni accademiche con priorità per le narrazioni degli insegnanti sulle loro conoscenze ed esperienze vissute nelle scuole. Genere e sessualità sono discussi come concetti costitutivi della soggettività, che parlano di ogni argomento, del suo corpo, della sua cultura e del contesto sociale in cui è inserito. I lavoratori sottolineano (a) l'importanza del tema riflesso dagli insegnanti per demistificare la (non) conoscenza e i concetti (pre) sessuali vissuti a scuola (b) la ricerca di nuovi concetti e pratiche nell'esercizio della professione, come alternative e strategie che contribuiscono per migliorare il processo di formazione degli insegnanti e le pratiche di lavoro degli educatori brasiliani dei bambini. Formazione degli insegnanti.Genere e sessualità. Educazione della prima infanzia.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles

Dissertations / Theses on the topic "SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN FINANZA"

1

Asic, Viktor. "Attività di gestione patrimoniale di una società di gestione del risparmio." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4495.

Full text
Abstract:
2009/2010
Riassunto della tesi di dottorato Titolo: “Attività di gestione patrimoniale di una società di gestione del risparmio” Le società di gestione di risparmio costituiscono il “new vehicle” orientato alla gestione per conto di terzi di portafogli mobiliari. Note con l’acronimo di SGR, le società in questione rappresentano un intermediario finanziario che negli ultimi anni ha assunto notevole importanza grazie ai progressi e alle prospettive offerti dalla nuova normativa che disciplina l’intermediazione finanziaria e grazie alle rinnovate esigenze di razionalizzazione dei servizi finanziari. La gestione del risparmio corrisponde all’investimento di milioni di euro in titoli di società quotate in borsa. Il capitale che vi si impiega è alimentato dai risparmi di un’estesa collettività di persone, ma anche da investimenti assicurativi e previdenziali (investimento delle riserve matematiche e tecniche delle imprese di assicurazione, investimento del fondo trattamento fine rapporto, ed altri dipendenti da processi di previdenza sociale). E’ proprio l“asset management” a rappresentare una vasta opportunità di profitto. Dato che sul mercato italiano sono sempre più presenti banche e assicurazioni a capitale estero, il management delle società di gestione di risparmio testimonia anche una sfida sul piano delle tecniche più evolute e competenze sia ai fini della gestione che nell’offerta dei prodotti e servizi finanziari. Nel presente lavoro si è cercato di ricostruire un quadro sufficientemente completo per interpretare il ruolo che una società di gestione del risparmio (SGR) svolge sul mercato del risparmio gestito e del mercato finanziario nel suo insieme, esaminandone la struttura e l’attività di gestione patrimoniale che la caratterizza. Oggetto di questa tesi è, per l’appunto, lo studio dell’attività delle società di gestione del risparmio. Il presente lavoro di tesi si articola in più parti. La prima parte evidenzia il ruolo della società di gestione del risparmio nel sistema finanziario e l’importanza di tale servizio per la stabilità dei mercati finanziari e dell’economia in genere e il ruolo delle istituzioni rilevanti collegate. Tratta anche le principali categorie dei fondi d’investimento: fondi comuni, hedge funds, fondi di fondi, index funds, ETF – exchange traded funds. La seconda parte descrive indici di performance dei portafogli (indici di Jensen, Treynor e Sharpe), asset allocation strategica, rendimento dei portafogli, prodotti e strumenti finanziari (titoli corporate e titoli di stato, azioni), indici di borsa (price, value weighted e unweighted). La terza parte evidenzia in concreto una società di gestione di risparmio italiana, l’attività di gestione patrimoniale per segmento, i fondi pensione aperti come underlying asset, il benchmark quale parametro oggettivo, l’andamento dei mercati finanziari e le prospettive degli stessi. La quarta parte si occupa dell’analisi di portafoglio vs rendimento, con riguardo a fondi pensione aperti, per linea d’investimento, con i rispettivi benchmark e della volatilità dei rendimenti e dei benchmark. L'ultima parte si articola in due fasi: Sintesi dei risultati e conclusioni e testi consultati e bibliografia di riferimento. Oggetto della tesi è dunque lo studio dell'efficienza operativa e della redditività delle società di gestione del risparmio attraverso l'esame di dati professionali. La tesi, in generale, sottolinea la teoria gestionale del portafoglio e gli stili di gestione, valore di capitalizzazione (valore di mercato delle azioni di una società), dati anagrafici dei titoli e oscillazione dei titoli, ed in particolare interpreta i fondi pensione aperti come “underlying asset” delle società di gestione del risparmio. La decisione di sviluppare la gestione del risparmio e la consulenza finanziaria ha assunto una forte valenza strategica per molti intermediari finanziari sia in Italia sia negli altri paesi. Per incrementare stabilmente la redditività nel comparto finanziario è necessario aumentare il valore aggiunto (added value) della propria offerta. La maggior parte dei gestori finanziari continua a porsi l’obiettivo di superare il benchmark di riferimento ma i risultati evidenziano che in molti casi il risultato stesso non è in linea con le aspettative. L’evoluzione nel mondo del risparmio gestito porterà a differenziare in modo più esplicito le gestioni passive (volte a replicare il benchmark di riferimento) dalle gestioni attive (volte al superamento dell’indice puntando sull’attività di stock picking e market timing). E’ presumibile che si possa assistere nei prossimi anni a una più netta differenziazione degli stili di gestione con una più esplicita parametrazione dei costi allo stile di gestione adottato ed ai risultati effettivamente ottenuti. Lo studio svolto ha analizzato il comportamento di fondi pensione aperti come underlying assets delle società di gestione del risparmio. L’importanza dell’asset allocation cresce con la crescita dell’orizzonte operativo (operating time) di riferimento degli investitori. In particolare i fondi pensione dimostrano quanto sia importante la ripartizione iniziale dell’investimento, attribuendo il risultato economico di un investimento su un orizzonte temporale di dieci anni all’asset allocation strategica, stock picking, market timing e altri fattori. È fondamentale ripartire in un modo efficace il capitale tra le varie asset class d’investimento (liquidità, obbligazioni, azioni, fondi comuni d’investimento, ecc). Si devono individuare le categorie di strumenti finanziari che rappresentano combinazioni rischio-rendimento similari e cosi si tende a generare i risultati indipendenti cioè con bassa correlazione. Asset allocation strategica è legata alla condizione soggettiva di chi investe ma asset allocation tattica all’analisi della situazione di mercato attesa. In futuro, lo scopo delle società di gestione del risparmio è di sviluppare l’offerta con innovative strategie di gestione attiva e passiva. Lo studio svolto ha mostrato che la gestione passiva è applicata dai gestori dei fondi comuni d’investimento che hanno come obbiettivo una composizione del portafoglio dei titoli il più possibile in linea con il valore del loro benchmark che è poi un indice di riferimento. Il risultato di questo tipo di gestione è la replica della performance dell’indice di mercato. Una buona gestione passiva è quella che rispetta il benchmark senza aumentare la volatilità del portafoglio. Se la volatilità aumenta, si sopporta un extrarischio che non è motivato dall’extra-rendimento atteso. La gestione attiva è più costosa di quella passiva. Per ottenere una buona gestione attiva è necessario sopportare un extra costo che va a remunerare un team di gestori con superiori skills le cui prestazioni sono ben al di là dei livelli raggiungibili con sofisticati software. Infine, esaminando il problema in oggetto da un osservatorio privilegiato com’è Allianz Spa e Allianz Global Investors SGR e confrontando i rendimenti delle linee d’investimento, nella gestione passiva, con i rispetivi benchmark, possiamo concludere che il successo di una società di gestione del risparmio è legato anche al fatto fi fare parte di un gruppo importante come già sottolineato e di avere un mercato significativo nazionale ed internazionale.
ABSTRACT Asset Management Activities of Investment Management Company (IMCO) The aim of thesis is: To understand and to let understand what is the asset management of investment Management Company? What are management activities in these companies? Organizational model. What are the types of investment funds? Which are the roles of an investment management company? What is the structure of the investments on concrete examples? What is the portfolio composition and what is the net asset value of the investments? What are the benefits for the “small” investors, looking at profitability and volatility of funds and its benchmarks? What is the effectiveness of the investments inside the investment fund? What is the diversification and what are the investment decisions? What is the asset allocation of an investment and what are the main financial instruments used to make an effective portfolio? The following thesis is composed by five chapters; in the first chapter an asset management of an investment company is elaborated, as well as the characteristics of investment funds, costs and valuation of funds. In the second one there is an elaboration of financial products and instruments like government and corporate bonds and stocks, price index and volatility of investments and benchmarks. In the third part there is a presentation of an investment company with the underlying assets, the structure of the investments and the main indicators. In the fourth chapter there is an elaboration of three pension funds, by compartment, as an underlying asset of the investment company. Finally, the last chapter works out the results and the conclusions and, of course, a set of questions for the future elaboration. The identified key words are: asset management, management activities, investment funds, volatility, profitability, pension funds, index, benchmark, price index, traded funds, quotations, expense ratio, transaction costs, Sharpe index, underlying asset, stock market, bond market, net asset value.
XXIII Ciclo
1980
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
2

Mattaloni, Cristian. "Il Centro Commerciale nel contesto della Grande Distribuzione Organizzata: analisi fondamentale e Fair Value." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7451.

Full text
Abstract:
2010/2011
ABSTRACT Il presente studio si sofferma sull’analisi fondamentale delle imprese che usiamo denominare Centri Commerciali e che rientrano nei processi della “Grande Distribuzione Organizzata”. Insieme ad un profilo e ad un inquadramento generale del Centro si metteranno a fuoco i caratteri quali/quantitativi dei fondamentali drivers del valore che caratterizzano il complesso strategico del centro commerciale, vale a dire il suo core business, costruito e posto in azione dagli investitori/fondatori che lo hanno ideato e che hanno pianificato il suo sviluppo. Quanto si dirà da un lato esprimerà una linea guida dei criteri di stima del valore di mercato del complesso strategico del centro commerciale; dall’altro indicherà come l’innegabile forza d’investimento che accompagna la creazione di grandi centri influisca sia sull’assetto delle città, sia sulle loro periferie, sia sull’economia circostante. La straordinaria forza d’investimento immobiliare che presiede all’attivazione dei centri commerciali incide sullo sviluppo micro e macroeconomico dei sistemi sociali e richiama l’esigenza di una rivisitazione del concetto di mercato e di economia di mercato. Invero in termini negoziali occorre considerare l’insieme dei vantaggi e l’insieme degli svantaggi conseguenti alla presenza dei centri commerciali ed alla loro diffusione. Il negoziato economico non può non valutare il rischio del possibile degrado urbanistico delle città, la perdita di valore dei centri storici, il disagio procurato dalla rarefazione dei negozi di vicinato (necessari per gli acquisti da parte di talune fasce sociali), ecc. corrispondenti alla diffusione dei centri commerciali. Ciò significa che la “causa economica” la quale giustifica la legge della domanda e dell’offerta e che è presente quando si debba accettare o respingere l’inserimento di un nuovo centro commerciale deve abbracciare le molte componenti coinvolte configurando un processo che richiede una risposta alla seguente domanda: la scelta di introdurre quel centro commerciale si caratterizza per un’utilità sociale? In una tale prospettiva emerge come l’economia di mercato necessiti di una visione complessiva del sistema dove il concetto di mercato dovrà essere riconsiderato ed esteso. Tale analisi che esula dall’economia del presente lavoro sarà sommariamente evidenziata discutendo del concetto di valore economico totale (VET). L’aspetto segnalato per ultimo va sottolineato. La diffusione dei centri commerciali ed in particolare l'azione della Grande Distribuzione Organizzata influiscono sull'assetto urbano e sociale delle città (negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita sensibile nel nostro Paese di centri commerciali, supermercati, ipermercati, grandi magazzini, discount, ecc. nel mentre hanno chiuso e stanno ulteriormente riducendosi i piccoli esercizi dei centri cittadini). La prima parte della tesi è strutturata in due sezioni. La prima sezione partendo da un’analisi storica dei primi centri, dalle loro origini sino ai giorni nostri, mette in luce il processo di trasformazione economico, sociale e culturale delle città e degli stili di vita dei consumatori, la qual cosa ha inciso notevolmente sull’economia locale e sulla natura dell’indotto che ruota attorno ai centri commerciali. Nella seconda parte della tesi, divisa in più sezioni, a partire da una descrizione degli investimenti (sia immobiliari che finanziari che immateriali) i quali rappresentano gran parte del valore dei centri commerciali ed alimentano i drivers strategici in termini di creazione di valore e di sviluppo, si conduce un’analisi riferita alle diverse tipologie di centri commerciali. Vengono quindi proposti processi di lettura del contesto aziendale fondati sull’uso della cash flow analysis e del discounted cash flow model. L’analisi fondamentale e di valutazione prosegue tenendo conto del raccordo tra valore dei centri commerciali e costi benefici prodotti nella comunità in cui i centri operano, con ciò determinando l’esigenza che la stima del valore dei centri per quanto riferita al gruppo imprenditoriale coinvolga il contesto economico più vasto in cui i centri sono inseriti. Ancora sia consentita una chiosa finale. La presenza dei centri commerciali influisce o può influire sui corretti processi di acquisizione dei tributi da parte dell’Agenzia delle Entrate. La Finanza Locale, nonostante i nuovi processi di trasferimento delle risorse dallo Stato e di autonomia fiscale, non riesce sempre ad assicurare che i tributi erariali che derivano dai consumatori locali (somme enormi) ricadano e si risolvano a beneficio delle stesse comunità in cui quei redditi si generano, in quanto i versamenti delle imposte sul reddito d’impresa, dell’imposta sul valore aggiunto, ecc., dei grandi gruppi della distribuzione avvengono, nella maggior parte dei casi, dove le società della GDO hanno la sede legale. Le Agenzie preposte alla riscossione delle entrate tributarie nei territori interessati (e quindi le regioni e gli altri enti locali interessati) vedono così riconfigurati (secondo i casi ridotti od aumentati) i loro introiti, non di rado dipendenti dal "riscosso" e non dal “prodotto” in quel territorio. A ciò si associa l’eventualità che gli enti locali si dimostrino interessati ad interventi di "finanza di progetto" la quale implica un nuovo rapporto tra pubblico e privato e chiama in causa interessi sociali ed ambientali dei centri urbani e aspetti di responsabilità e solidarietà sociale delle imprese della GDO le quali suppongono analisi e protocolli particolari.
XXIV Ciclo
1975
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
3

Razzini, Barbara. "Valutazione di start-up. Case study analysis: incubatori di primo miglio, Business Angels e Venture Capital. Metodi di investimento nel capitale di rischio." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4786.

Full text
Abstract:
2009/2010
Incoraggiare l’imprenditoria per uscire dalla crisi. E’ questo uno dei temi di primario rilievo per la ripresa dell’economia mondiale. Questa costituisce l’assumption da cui ha avuto origine il presente lavoro di ricerca attraverso il quale, nella prima parte, si è cercato di capire quali siano gli attori che intervengono nel processo di sviluppo di un’ impresa durante la sua fase di Start-up. Si è voluto analizzare attraverso dei case study quali sono i processi di investimento adottati e come venga ad instaurarsi una correlazione tra le figure individuate. Attraverso interviste specifiche si è, poi, cercato di cogliere quali siano i drivers e i principali fattori di rischio presi in considerazione dai diversi attori che sostengono le imprese nelle loro prime fasi evolutive investendo nel loro capitale di rischio. La seconda parte del lavoro, invece, si rivolge al vero e proprio problema legato alla valutazione delle Start-up, attraverso l’identificazione dei metodi di valutazione tradizionali ed alternativi proposti in letteratura. Si cercherà, per mezzo dell’applicazione di un caso pratico, di identificare quelle che sono le problematiche ed i limiti di tali modelli in relazione alle caratteristiche peculiari delle Start-up e del mercato italiano. Infine proporremo un metodo di valutazione attraverso un modello di rating che per le sue caratteristiche consente di risolvere problemi decisionali caratterizzati da svariati attributi tenendo conto di essi e del loro grado di importanza supportando i “decision maker” (incubatori di primo miglio, business angels, venture capital) nell’effettuare le loro scelte d’investimento in società in fase di Start up.
XXIII Ciclo
1980
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
4

Zorzi, Gianni. "Ottimizzazione di portafogli di ETF nell' approccio di consulenza finanziaria indipendente." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3671.

Full text
Abstract:
2008/2009
Quella del consulente finanziario indipendente (Capitolo 1) è una figura professionale di elevato standing sviluppatasi a partire dagli anni ‘70 negli Stati Uniti, paese in cui l’attività è correntemente svolta da decine di migliaia di persone fisiche, iscritte ad associazioni di categoria, provviste di certificazioni anche di notevole spessore, come quella del Certified Financial Planner (CFP). Tale modello di consulenza in assenza di conflitto d’interessi è detto anche “fee-only” in virtù del suo principale tratto distintivo, ovvero che la remunerazione del professionista avviene esclusivamente a cura del cliente-investitore e non dalle società da cui sono promossi i prodotti e servizi finanziari consigliati. Rispetto al modello tradizionale di consulenza (consulenza strumentale alla vendita di prodotti finanziari: commission only), i professionisti del settore hanno dapprima iniziato ad applicare una parcella ai propri clienti (giustificata da un servizio di più ampio respiro: modello fee and commission), e successivamente a retrocedere al cliente le commissioni ricevute per il collocamento dei prodotti, secondo un maggior orientamento al cliente (modello fee offset); il modello fee only rappresenta il culmine del processo evolutivo con l’ampliamento dei contenuti del servizio offerto (da consulenza a pianificazione) e l’assunzione del carattere di piena indipendenza. Secondo l’approccio della MiFID, direttiva europea recepita in Italia nel tardo 2007, il modello fee-only è l’unica forma di consulenza in materia di investimenti che può essere condotta da persone fisiche, con particolari requisiti e secondo determinate regole (Delibera Consob n. 17130 del 12 gennaio 2010). Gli standard di qualità (ISO, 2008) tendono a definire i requisiti minimi nell’erogazione del servizio di pianificazione personale (indipendentemente dalla forma di remunerazione percepita). Questi approcci contribuiscono ad integrare a quelli emersi spontaneamente nella prassi (Sestina, 2000; Kapoor et al., 2004; Armellini et al., 2008) per quanto riguarda le competenze necessarie allo svolgimento dell’attività (tecniche, analitiche, relazionali) e la definizione delle fasi fondamentali del processo di pianificazione finanziaria personale, che in un’ottica integrata prevede: - Una prima fase riguardante gli aspetti preliminari e generali (illustrazione delle informazioni sul consulente e sui servizi offerti; definizione della relazione professionale); - Un’ampia fase relativa all’acquisizione delle informazioni dal cliente, alla verifica delle sue conoscenze ed esperienze in materia di investimenti, e alla definizione dei suoi obiettivi finanziari; l’analisi della situazione economico-finanziaria del cliente va attuata anche attraverso l’utilizzo di prospetti consuntivi e prospettici adattati al contesto (Banca d’Italia, 2009; Cannari et al., 2008; ECB, 2003); la definizione degli obiettivi e della tolleranza al rischio deve tener conto degli aspetti psicologici e di finanza comportamentale (Legrenzi, 2006; Rubaltelli, 2006; Shefrin e Statman, 2000; Motterlini, 2006; 2008); - Una terza fase relativa alla definizione tecnica del piano in un’ottica integrata (combinando vari aspetti di tipo previdenziale, assicurativo e legale), che preveda anche la formulazione dei “consigli” al cliente e la valutazione dell’ “adeguatezza” degli strumenti finanziari, richiesta in particolare dalle norme di legge; - Una quarta fase relativa all’illustrazione e all’implementazione del piano, in cui il consulente affiancherà il cliente (senza, ovviamente, assumere deleghe né detenere somme di denaro); - Una quinta fase di monitoraggio che prevede degli obblighi di rendicontazione nei confronti dei clienti e la ricorsività dell’intero processo di pianificazione sulla base delle esigenze individuate. Non esistono ancora per l’Italia dati ufficiali sul numero di consulenti fee only attualmente in attività, però la crescita dell’interesse verso la professione è testimoniata dalla nascita di alcune associazioni di categoria, che contano su qualche centinaio di iscritti. Alla luce di questi dati l’impatto della consulenza indipendente nelle scelte di investimento delle famiglie italiane può considerarsi comunque molto limitato. Le statistiche per il 2008 (Banca d’Italia, 2009) confermano invece alcune caratteristiche tipiche del sistema finanziario italiano (Capitolo 2): - Oltre il 17% delle attività finanziarie detenute dalle famiglie risultano costituite da investimenti non intermediati in attività produttive, in forma di capitale di rischio, mentre la quota riferita ai mercati azionari risulta vicina al 4%; - Tra le attività a basso profilo di rischio privilegiate dai risparmiatori vi sono quelle destinate alla raccolta degli intermediari (depositi bancari e postali, obbligazioni bancarie); l’investimento in titoli pubblici risulta limitato rispetto al passato; - La “crisi” dei fondi comuni di investimento è evidente per il fatto che le quote detenute non superano il 5% del totale delle attività finanziarie. Nel complesso, l’esposizione delle famiglie verso le attività rischiose risulta limitata e caratterizzata da elevata rischiosità per effetto del modesto ricorso alla delega/diversificazione, come osservato da Barucci (2007). Tale caratteristica è confermata anche dal confronto con l’estero e si può spiegare anche attraverso la mancanza di fiducia nei mercati azionari, che può derivare sia da componenti “oggettive” che da altre “soggettive” (basate su fattori culturali), come osservato anche da Guiso et al. (2007). In generale, in senso dinamico, si rileva una forte influenza delle politiche di offerta delle banche, oltre che dell’andamento dei mercati e dei tassi di interesse, sulle scelte di investimento dei risparmiatori. Se il crollo dei rendimenti dei titoli di stato e l’andamento positivo nei mercati hanno certamente contribuito alla sottoscrizione di quote di fondi comuni nel periodo 1995-1999, in quelli successivi (2000-2005; 2005-2008) si nota un’evidente correlazione negativa tra queste e le riserve tecniche del ramo vita, nonché delle obbligazioni bancarie e di altri depositi, come osservato in (Spaventa, 2008; Banca d’Italia, 2009). Tra il 1999 ed il 2008 il peso dei fondi è sceso dal 16% a meno del 5% con una diminuzione quantificabile in oltre 300 miliardi di euro correnti, dei quali oltre la metà riferibili a flussi di riscatto secondo i dati di Assogestioni (2009). Il deflusso di capitali dai fondi comuni può essere ricondotto ad aspetti specifici quali: - La realizzazione di performance complessivamente negative a fronte di elevati costi di gestione (evidente anche negli studi di Barber et al., 2003; Jain e Wu, 2000; Nanda et al., 2004); nel periodo 1998-2008 l’extra-performance media dei fondi azionari italiani (indici Fideuram) è negativa di oltre 27 punti percentuali, al lordo degli effetti fiscali, rispetto ad un benchmark di azioni dell’Eurozona, mentre i fondi monetari ed obbligazionari cedono circa il 10% ed il 30% rispetto ai relativi benchmark; a risultati simili giungono anche Banca d’Italia (2009), Mediobanca (2009) e Armellini et al. (2008); la media dei Total Expense Ratio oscilla inoltre tra lo 0,74% dei fondi liquidità ed il 2,33% dei fondi azionari, e l’incidenza delle retrocessioni alle reti distributive sul TER è stabile nel tempo e superiore al 70%: viene dunque remunerata l’attività di vendita più che quella di effettiva gestione del patrimonio; - La concentrazione tra attività di asset management e di distribuzione, derivante dal fatto che in Italia le banche, oltre a collocare i prodotti del risparmio gestito, sono proprietarie delle SGR di riferimento: la quota di mercato attribuibile alle SGR indipendenti risulta pari a circa il 6,5% nel 2007, in diminuzione rispetto a quanto osservato tre anni prima; si tratta di un problema riconosciuto dalla stessa Assogestioni (Messori, 2008), e più volte richiamato dal Governatore della Banca d’Italia (Draghi, 2007; 2008); - Il “problema cognitivo”, legato al comportamento non razionale degli investitori, eventualmente non supportati da un servizio di consulenza adeguato (Gualtieri e Petrella, 2006; Spaventa, 2008; Calvet et al., 2007; Legrenzi, 2005; 2006), e che determinerebbe, a livello soggettivo, l’accentuarsi delle performance negative a sfavore degli stessi. Dal punto di vista della consulenza indipendente, nell’analisi dei prodotti del risparmio gestito acquisisce notevole importanza il legame esistente tra commissioni applicate e performance netta (Cesarini e Gualtieri, 2005; Armellini et al., 2008), poiché i costi della gestione dovrebbero in larga parte remunerare il valore aggiunto conferito dagli asset manager, in una filosofia di gestione “attiva”, ovvero che non si limiti alla mera replica di un paniere di attività finanziarie scambiate in un determinato settore/mercato di riferimento (Liera e Beltratti, 2005). Dal momento che ciò molto spesso non avviene, stanno acquisendo sempre maggiore interesse gli Exchange Traded Funds (Capitolo 3), fondi comuni a gestione “passiva” che presentano costi di gestione limitati rispetto a quelli dei fondi, e che sono quotati su mercati regolamentati (Tse, 2008; Lazzara, 2003). Essi rappresentano l’evoluzione degli strumenti di portfolio trading nati alla fine degli anni ’70 nell’America del Nord (Gastineau, 2001). In Italia, le quote di ETF sono state ammesse alla negoziazione nel corso dell’ultimo decennio, in un apposito segmento dedicato di Borsa Italiana (il segmento ETFPlus). Al novembre 2009 risultavano quotati 336 ETF per un patrimonio superiore ai 10 miliardi di euro. Gli ETF sono negoziati in larga parte da investitori al dettaglio poiché il controvalore medio dei contratti risulta vicino a € 25.000 (dati Borsa Italiana). L’offerta di ETF in Italia risulta ampia e diversificata, con il 75% degli ETF di natura azionaria, il 19% di natura obbligazionaria, e la restante parte suddivisa tra liquidità ed indici di commodities. Inoltre, sono presenti anche ETF di tipo “strutturato”, ovvero quelli che, in conformità con la direttiva UCITS III, realizzano strategie di investimento diverse dalla semplice replica passiva di un indice (ad esempio investimento con leva, replica inversa e strategie con opzioni). L’investimento in ETF presenta sostanziali differenze rispetto a quello in fondi comuni al riguardo di una serie di aspetti, e risulta particolarmente interessante dal punto di vista della consulenza indipendente, anche perché nel modello di business degli ETF non è previsto il collocamento diretto dei prodotti, per cui gli investitori normalmente non ricevono alcun tipo di consulenza al riguardo, al di fuori delle attività di comunicazione e di education (comunque non personalizzate) messe in atto direttamente dalle società di gestione. Il compito del consulente, nell’approccio integrato di pianificazione personale, può essere sintetizzato nella risoluzione di un problema di ottimizzazione di portafoglio, tenuto conto delle caratteristiche del cliente soprattutto in termini di capacità e di tolleranza al rischio, nonché dell’orizzonte temporale dell’investimento, nel pieno rispetto del principio di “adeguatezza” introdotto dal legislatore. Le fondamenta teoriche della moderna gestione di portafoglio (Capitolo 4) si devono al modello di ottimizzazione parametrica di Markowitz (1952), modello uniperiodale in cui il rendimento atteso di un portafoglio (così come di una qualunque attività) è definito dalla media della distribuzione dei rendimenti a scadenza dello stesso, ed il rischio è misurato dalla loro varianza. L’evoluzione della teoria del portafoglio e i numerosi contributi provenienti dalla letteratura (non solamente dalle discipline strettamente legate alla finanza dei mercati) hanno messo tuttavia in discussione il concetto di rischio “simmetrico” espresso dalla varianza, che considera alla pari sia i “pericoli” associati ad un investimento, che le “opportunità” che ne derivano. Sulla base del concetto di “downside risk”, strettamente legato alla parte negativa di una distribuzione dei rendimenti, e di maggior intensità emotiva per gli investitori come dimostrato nella teoria del prospetto di Kahnemann e Tversky (1979), si sono proposte misure di rischio specifiche, tese a catturare taluni aspetti associati, ed utilizzabili anche in problemi di ottimizzazione (Chekhlov et al., 2003; Karatzas e Shreve, 1997; Magon-Ismail et al., 2004; Pritsker, 1997; Lucas e Klaasen, 1998). Per la verifica ex-post dell’efficienza dei portafogli attraverso l’analisi delle serie storiche vengono inoltre utilizzati particolari indicatori, detti di risk-adjusted performance (Sharpe, 1966; Treynor, 1965; Sortino e Price, 1994; Jensen, 1969; Modigliani, 1997; Keating e Shadwick, 2002), che sintetizzano in un unico indice una misura di rendimento ed una di rischiosità. Tali misure sono utilizzate in particolar modo nella valutazione dei fondi comuni (Caparrelli e Camerini, 2004; CFS Rating, 2009; Lipper, 2009) ed in generale delle gestioni patrimoniali, e si differenziano l’una dall’altra in particolare per la misura di rischio considerata (Eling e Schuhmacher, 2007; Pedersen e Rudholm-Alfvin, 2003). In generale, ci si aspetta che un qualunque indice di risk-adjusted performance, calcolato per qualunque coppia di portafogli distinti, assuma un valore maggiore per quello che tra i due risulta preferibile. Il modello di Markowitz, oltre che sul concetto di rischio “simmetrico”, si fonda su alcune rilevanti semplificazioni del problema come quella che gli investitori non sostengono dei costi nel momento in cui essi debbono concludere le transazioni di acquisto e di vendita delle attività incluse nel portafoglio. Nel problema specifico introdotto in questa ricerca, la presenza dei costi di transazione di vario genere (Capitolo 5) può influire negativamente sull’efficienza gestionale del portafoglio, producendo effetti indesiderati e determinando la potenziale irrazionalità delle soluzioni. In particolare, all’investimento in ETF si devono associare i costi di negoziazione degli ordini (nella pratica spesso variabili con dei limiti minimi e massimi) e gli spread denaro/lettera (costi lineari rispetto al controvalore negoziato), che come per tutti i titoli quotati variano sia nello “spazio” (da ETF ad ETF) che nel “tempo” (in funzione soprattutto della volatilità degli indici sottostanti). Il problema si complica ulteriormente (Maringer, 2005) con l’introduzione di alcuni vincoli, per esempio sulla cardinalità e sulla composizione del portafoglio, tesi primariamente a riflettere le esigenze specifiche dell’investitore. A questo punto l’ottimizzazione del portafoglio non può essere risolta dalle tecniche tradizionali (basate ad esempio sull’MPT di Markowitz), ed è necessario ricorrere a metodi alternativi (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005; Satchell e Scowcroft, 2003). Nel corso degli ultimi decenni si sono sviluppate ed hanno assunto sempre maggior rilevanza le tecniche di ottimizzazione euristica, metodi di ricerca (con scopi generali) che derivano le soluzioni ricercando iterativamente e testando le soluzioni migliorate, finché non viene soddisfatto un determinato criterio di convergenza. Gli algoritmi di ottimizzazione euristica si differenziano per una determinata serie di aspetti (Maringer, 2005; Silver, 2002; Winker e Gilli, 2004), ma un tratto comune frequentemente riscontrato è che essi traggono ispirazione da processi riscontrabili in natura, legati ad esempio alla fisica ed alla biologia (in particolare all’evoluzione degli esseri viventi, oppure al comportamento di gruppi di animali alla ricerca di nutrizione). In questa tesi si è scelto di fare particolare riferimento al metodo Particle Swarm Optimization (Kennedy ed Eberhart, 1995; Hernandez et al., 2007; Brits et al., 2002), tecnica basata sulle popolazioni largamente utilizzata, che si ispira al comportamento degli stormi di uccelli o dei banchi di pesci. Questi gruppi di animali rappresentano organizzazioni sociali il cui comportamento complessivo si fonda su una sorta di comunicazione e di cooperazione tra i propri membri. La scelta del PSO è stata effettuata anche in base al fatto che in letteratura l’applicazione di questa tecnica ai problemi di ottimizzazione del portafoglio è limitata a pochi contributi di recente divulgazione (Fischer e Roerhl, 2005; Kendall e Su, 2005; Thomaidis et al., 2008; Cura, 2009), pur essendo stata applicata con successo ad una serie di problemi finanziari (Gao et al., 2006; Nemortaite, 2007; Nemortaite et al., 2004; 2005) Sulla base delle considerazioni espresse finora e nell’obiettivo principale di verificare la concreta possibilità di sviluppo di un metodo efficace e coerente di ottimizzazione di portafogli di ETF, specifico per l’attività di consulenza indipendente, si è proceduto (Capitolo 6) adattando un algoritmo euristico basato sul Particle Swarm (Kaucic, 2010), con l’introduzione di: - Vincoli di cardinalità (minima e massima) del portafoglio e di peso (minimo e massimo) definiti per ciascun asset (generalizzando gli approcci di Gilli et al., 2006; Cura, 2009); - Una soglia di downside risk definita da una misura di Value-at-Risk coerente con l’orizzonte temporale di investimento, per rappresentare i vincoli di capacità ed attitudine al rischio (direttiva MiFID, UNI ISO, 2009); - Funzione obiettivo basata sulla massimizzazione di una misura di risk-adjusted performance basata sull’Expected Shortfall (similmente a Krink e Paterlini, 2009; in parte anche a Bertelli e Linguanti, 2008); - Considerazione di tutti i costi di transazione legati all’investimento in ETF (costi fissi e costi proporzionali diversi per ogni asset), adattando l’approccio di (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005). I test si sono eseguiti con l’utilizzo di serie storiche e parametri realistici (incluse le statistiche sui bid/ask spread pubblicate da Borsa Italiana ed i TER minimi riscontrabili sul mercato) riferiti ad 89 ETF effettivamente negoziabili sul segmento di Borsa dedicato, con l’obiettivo di valutare: - la coerenza delle soluzioni rispetto alle condizioni poste; - l’impatto dei costi di transazione ed il trade-off con la frequenza di revisione del portafoglio; - la performance ex-post corretta per il rischio (in particolar modo al confronto di investimenti alternativi); - l’applicabilità a portafogli di dimensioni ridotte e con vincoli stringenti; - la coerenza rispetto alla soglia di rischiosità e all’orizzonte temporale definiti. Nel primo test si è simulata la gestione di un portafoglio di € 100.000 nel periodo di tre anni tra dicembre 2006 e dicembre 2009 per un investitore con elevata propensione al rischio ed orizzonte temporale pari al termine del periodo di gestione, restringendo la cardinalità del portafoglio ad un minimo di 5 ed un massimo di 10 asset. La strategia prevedeva una revisione mensile con progressiva riduzione sia della tolleranza al rischio che dell’orizzonte temporale dell’investimento. All’approssimarsi della “scadenza” dell’investimento l’algoritmo di ottimizzazione, in modo coerente rispetto alle ipotesi, ha privilegiato maggiormente gli ETF di tipo obbligazionario ed ha man mano ridotto le attività di effettivo intervento (negoziazione di titoli) per via della conseguente maggiore incidenza dei costi di transazione sui rendimenti attesi. Ciononostante, la performance ex-post della strategia è risultata non soddisfacente, primariamente a causa di un elevato expense ratio annuo (ulteriore rispetto ai TER degli ETF selezionati), superiore al 4% (oltre il 6,5% solo nel primo anno), dovuto all’elevata frequenza di revisione. Il test è stato ricondotto una seconda volta riducendo la frequenza di revisione a trimestrale, con conseguente riduzione dell’expense ratio di circa il 2,5% annuo. Il trade-off tra periodicità di revisione e costi di transazione ha migliorato in questo caso la performance ex-post ad eccezione dei momenti di particolare “turbolenza” dei mercati, quando cioè i benefici della revisione del portafoglio risultano con maggiore probabilità superiori ai costi che ne derivano. Sulla base delle stesse ipotesi, nella strategia si è introdotta pertanto un’ulteriore variante basata su un indice di volatilità implicita, ai fini di intensificare la revisione del portafoglio nei periodi di maggior “stress” dei mercati, riducendo nel contempo la soglia di rischio accettabile. La strategia così modificata si è rivelata in questo caso preferibile anche nei momenti di accentuata volatilità, migliorando ulteriormente la performance a termine di quasi 6 punti percentuali. Risultati migliori si sono riscontrati riducendo ulteriormente la frequenza di revisione programmata, mantenendo nel contempo il meccanismo di “controllo” introdotto in precedenza (nel tentativo cioè di limitare gli interventi al necessario). Per rendere inoltre comparabile la strategia proposta con altre alternative di investimento (quali ETF basati su indici globali e l’indice Fideuram della media dei fondi comuni italiani azionari) si è infine condotto nuovamente il test sulla base delle ipotesi precedenti, ad eccezione di quelle riguardanti orizzonte temporale e livello di rischio tollerato, mantenute costanti per tutto il periodo di osservazione, peraltro ampliato a 4,5 anni (giugno 2005-dicembre 2009). Dal punto di vista della performance, il test produce un extra-rendimento netto medio annuo dell’1% rispetto all’ETF MSCI World e del 3,2% rispetto alla media dei fondi azionari. La volatilità annualizzata, inoltre, risulta notevolmente inferiore a quella dell’ETF azionario globale, ed inferiore, seppur di poco, a quella della media dei fondi. Gli indicatori di downside risk confermano nel complesso la minore rischiosità attribuibile alla strategia proposta, con risultati notevoli soprattutto in termini di Maximum Drawdown e di VaR 95% a 1 e a 10 giorni. Considerando il sottoperiodo di due anni tra il dicembre 2005 ed il dicembre 2007 al fine di garantire un’opportunità di confronto per indici classici di risk-adjusted performance (altrimenti impossibile per via degli extra-rendimenti negativi rispetto al free-risk), la strategia risulta ex-post preferibile (secondo l’indice di Sharpe) a quella di 77 alternative (ETF e media dei fondi) ma inferiore rispetto a quella di altri 13 ETF, risultando perciò non efficiente in senso “classico”. Nella seconda serie di test la strategia proposta ha confermato i risultati soddisfacenti rispetto ai fondi comuni pur riducendo la ricchezza del portafoglio iniziale e limitando l’universo degli asset investibili così come la cardinalità di portafoglio. Infine, nella terza serie di test si è mantenuto stabile l’istante temporale dell’ottimizzazione, facendo variare nel contempo orizzonte temporale e soglia di rischiosità tollerata. Il risultato delle 28 elaborazioni, valutato in termini di asset allocation (ed in particolare del peso ottimo della componente obbligazionaria suggerito dall’algoritmo) mostra la coerenza dell’output rispetto alle condizioni iniziali fissate per ipotesi, considerata anche alla luce dei vincoli imposti. In definitiva, i risultati dei test empirici appaiono soddisfacenti, con la dovuta cautela, e pur rimandando a futuri approfondimenti l’analisi particolareggiata di taluni aspetti, si è osservato che: - L’algoritmo ha prodotto risultati coerenti con le ipotesi assunte, in particolare per quanto attiene alle soglie di tolleranza al rischio e all’orizzonte dell’investimento; - Le strategie formulate hanno prodotto delle performance ex-post elevate in termini di rischio/rendimento rispetto ad investimenti alternativi comparabili (nonostante non si siano introdotte particolari metodologie di previsione per le serie storiche); - Il risultato precedente è confermato anche in presenza di portafogli di dimensioni ridotte, con vincoli particolarmente ristretti sulla cardinalità del portafoglio e con ridotti interventi di riallocazione delle risorse. Il processo di formulazione delle ipotesi, ed in particolare dei parametri relativi ai vincoli, risulta facilmente adattabile alle esigenze specifiche del processo di consulenza. In generale, l’impostazione soddisfa da un lato i requisiti normativi individuati dal Regolamento Consob in tema di consulenza in materia di investimenti, nonché l’approccio proposto dagli standard di qualità, e si colloca facilmente nella fase di definizione tecnica del piano (di cui il consulente è responsabile). L’applicazione degli strumenti richiede in ogni caso la massima sensibilità ed expertise da parte del consulente stesso nell’adattare i parametri del problema alle diverse fattispecie. La congruenza della parte tecnica con il servizio di consulenza finanziaria si fonda anche sulle caratteristiche di: - Ridotta complessità delle attività di negoziazione titoli e di gestione del portafoglio che le strategie proposte implicano; - Vasta accessibilità degli asset considerati; - Scalabilità ed adattabilità delle soluzioni anche nei casi di portafogli di minori dimensioni; - Corretta e completa considerazione dei costi di negoziazione. Se gli opportuni approfondimenti e verifiche confermeranno i risultati empirici ottenuti nella presente ricerca, l’impianto potrà essere ulteriormente sviluppato e migliorato per esempio attraverso: - l’implementazione di un solido ed efficace metodo di previsioni sulle serie storiche; - l’introduzione di elementi di stress testing (ad esempio su variazioni nella correlazione tra gli asset); - l’introduzione di ulteriori vincoli per permettere di introdurre alcuni elementi di formulazione a priori dell’asset allocation strategica desiderata (approccio top-down); - la considerazione di attività finanziarie diverse dagli ETF, sia per perfezionare i rendimenti della parte “non rischiosa” che gli aspetti di natura fiscale, legati in particolar modo alla gestione del credito d’imposta.
XXII Ciclo
1979
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
5

Vittorioso, Gianluca. "Energie rinnovabili: approcci valutativi ed analisi comparata delle società quotate operanti nel settore." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4498.

Full text
Abstract:
2009/2010
Con il presente lavoro si propone di descrivere lo stato dell’arte del settore delle energie rinnovabili ed effettuare un'analisi delle società quotate operanti nel settore delle rinnovabili.
XXIII Ciclo
1972
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
6

Bagna, Emanuel. "Intangibili e valore nelle banche." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3668.

Full text
Abstract:
2008/2009
Il lavoro si propone di introdurre un criterio di valutazione delle banche commerciali. Il modello proposto si fonda sul criterio del residual income e permette di enucleare il valore dei beni intangibili di una banca.
XXII Ciclo
1978
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
7

Giannozzi, Alessandro. "Fair value disclosure, rischio di liquidità e rendimenti azioneri. Un'analisi empirica sulle imprese europee finanziarie e non finanziarie." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4496.

Full text
Abstract:
2009/2010
Gli anni 2007-2010 hanno visto il verificarsi di sconvolgimenti economici i quali hanno segnato profondamente i mercati finanziari globali, provocato il fallimento di numerosi istituti bancari, e diffuso tra gli investitori il timore di una depressione della portata analoga a quella del 1929. Tali eventi hanno dato inizio ad un acceso dibattito inerente la regulation dei mercati finanziari e del sistema bancario e gli interventi necessari a garantire la stabilità finanziaria. In tale contesto, alcuni studiosi hanno fortemente criticato la valutazione delle attività e delle passività secondo il principio del Fair Value. Il presente studio ha l’intento di indagare un particolare aspetto della Fair Value Accounting: la valutazione degli strumenti finanziari secondo il criterio del Fair Value e la loro separazione in tre differenti livelli di liquidità. I principi contabili internazionali, infatti, impongono di evidenziare separatamente gli assets e le passività valutate al fair value sulla base di tre metodologie: quoted market prices (mark to market), valuation techniques - market observable input, valuation techniques - non observable input. Tali metodologie considerano l’utilizzo di prezzi di mercato quotati su mercati con un alto numero di contrattazioni (cd. mark to market o livello 1), l’uso di transazioni simili e recenti o di strumenti finanziari analoghi quotati su mercati attivi (cd. livello 2) e, infine, il ricorso a modelli finanziari nei quali non si necessita di prezzi di mercato (cd. mark to model o livello 3). L’obiettivo specifico del presente lavoro è quello di verificare se il fair value informa gli investitori sul rischio di liquidità delle imprese europee finanziarie e non finanziarie e, di conseguenza, se le informazioni sul rischio di liquidità sono utili per gli investitori. Analizzeremo le reazioni degli investitori di fronte a N key-crisis events (liquidity contracting events e liquidity expanding events) avvenuti nel corso della recente crisi finanziaria con lo scopo di verificare se tali reazioni sono condizionate dai tre livelli di liquidity risk disclosure previsti dalla fair value accounting. Questo approccio consente di valutare la rilevanza che le risk information, insite nella fair value hierarchy, hanno sul valore di mercato delle imprese e fornisce indicazioni ai regulators circa l’utilità della fair value disclosure. L’analisi empirica è stata condotta su 313 imprese finanziarie e non finanziarie facenti parte dell’Indice Eurostoxx. Si è analizzata la reazione degli investitori, misurata attraverso i rendimenti azionari (Abnormal Return), in occasione di determinati eventi espansivi e restrittivi della liquidità a livello macroeconomico. La relazione tra gli Abnormal Return, quale variabile dipendente, e i tre livelli del fair value disclosure, quali variabili indipendenti, è stata indagata attraverso l’utilizzo di metodologie econometriche quali la regressione OLS, la regressione OLS con effetti fissi e, quale metodo di controllo, la regressione Partial Least Squares.
XXIII Ciclo
1980
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
8

Dilek, Pinar. "Il rating delle imprese nel settore agroalimentare." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7408.

Full text
Abstract:
2010/2011
The thesis represents a study of financial and economic aspects of agri-food sector together with ratings assigned to companies, in particular to understand the features of the sector in Italy, a deep comparison between Italian companies with the ones in France- Spain and eventually Friuli-Venezia Giulia. The analysis is conducted, in detail, through a study of macroeconomic overview including the sector’s general overview, structural features, and impacts on economies of countries (first at the European Union base, followed by country base). In order to highlight current situation and future development of the agri-food sector; sector’s impact on economies and rural development, structural features of the sector, mid-term perspectives, European policies for the sector are analyzed with details. Same study is realized for France, Italy and finally for Spain. A basic conceptual structure is identified for modelling credit risk in agri-food sector. Various methodologies and components of several credit risk models applied in rating evaluation are analyzed in relation to credit risk in the agri-food sector. The core and features of the models are exhibited and furthermore a comparison of the models based on daily business examples and academic studies is realized. Taking into account features of companies that comprise the sector, the difficulties faced by the academicians, analysts and business profiles who are willing to comprehend financial and economic behaviours of the sector; a model so-called “Multi Objective Rating Evaluation- MORE Model” is selected to be the most applicable for evaluating the companies within the sector and assessing a rating to each company. “MORE” is deemed the most appropriate, since the data requirements of the model can be fulfilled by the available data and features of the model are suitable for defining credit risk in agri-food sector. The model is tested on several macro geographic regions many times, especially during the global economic downturn; the results prove that model is quite accurate in distinguishing healthy companies between bankrupt companies; and deteriorating the ratings towards bankruptcy date. The model is applied to Italian agriculture companies in order to understand economic behaviour of companies by segregating the panel for size, economic scale, solvency, liquidity, profitability. This analysis is also carried out for the companies in Spain and France which is chosen on purpose since the government of the mentioned countries gave the same amount of importance to the sector in terms of economic, cultural and historical aspect, representing the “competitors” within the European Union. During the statistical studies, same data source is used for the three countries. The evaluation is followed with a local comparison of Italian companies and Friuli Venezia Giulian companies including a deep financial and economic analysis and a rating evaluation. The analysis is based on a data set which is derived from financial statements of the companies (between 2008 and 2010) in the geographical locations mentioned and thanks to this a trend analysis and a comparative analysis are easily conducted. The study shows that results of model’s application can be extremely important in comprehending the trend of the sector within three years, the impacts of global financial crisis on companies in terms of various financial and economic aspects.
Questa tesi rappresenta lo studio del settore agroalimentare, osservandolo dal punto di vista economico e finanziario. In particolare saranno studiate le aziende appartenenti, in Italia, Spagna e Francia, al settore in esame, conducendo anche un’analisi del rating delle singole aziende, studiando quindi in dettaglio i particolari punti di forza e debolezza del settore nei tre diversi Stati. L’analisi è stata condotta partendo dallo studio macroeconomico all’interno dell’Unione Europea, andando poi in dettaglio, sempre da un punto di vista macroeconomico, dei singoli Stati. Lo scopo dello studio macroeconomico era il comprendere al meglio quali siano, in Europa, le visioni sul settore agroalimentare e come queste visioni si riflettano nelle singole realtà nazionali. Il passaggio successivo è lo studio dei modelli di rating, cercando di comprendere quale fosse il più efficiente per lo studio delle singole aziende al fine di determinare, con un diverso approccio rispetto a quello macroeconomico, i punti di forza e debolezza del settore in esame rispetto i tre Stati esaminati. Il modello di rating che è stato scelto è denominato MORE (Multi Objective Rating Evaluation) e si diversifica e caratterizza per la capacità di rendere comparabili diverse realtà quali aziende che operano in diversi Stati. Il modello di rating MORE, prima di essere utilizzato nello studio del settore agroalimentare, è stato anche testato nella sua capacità di predizione del default; questo test è stato effettuato sia in ambiato extranazionale, sia studiando il comportamento del modello rispetto le aziende fallite durante l’ultima crisi economica. Si è quindi andati in dettaglio nello studio delle singole aziende apprtenenti il settore in esame (nel triennio 2008-2010), andando a deteminarne le caratteristiche di dimensione, solvibilità, liquidità, redditività e in, per concludere, rating. Lo studio è stato condotto confrontando Italia (anche con la regione Friuli Venezia Giulia), Francia e Spagna. Lo studio ha così dimostrato come sia assolutamente interessante condurre, parallelamente allo studio macroeconomico di un determinato settore, anche lo studio delle singole imprese, successivamente agglomerate come panel. In questo modo è possibile quindi arricchire le informazioni ricavate, ottenendo un quadro più chiaro ed esaustivo, del settore in esame.
XXIV Ciclo
1979
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
9

Cappelletto, Roberta. "La mappa logistica nello studio delle bolle speculative." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8558.

Full text
Abstract:
2011/2012
Oggi il mercato finanziario sta diventando parte integrante del nostro mondo: si parla sempre di più di borsa e di azioni e sempre più persone hanno a che fare con questa realtà. Questa evoluzione ha sicuramente dei lati positivi dovuti al supporto che l’espansione del mercato finanziario dà all’economia reale, c’è anche però un rovescio della medaglia che consiste nelle situazioni “pericolose” dovute ai comportamenti irrazionali dei possessori di titoli conseguenti a dure crisi che colpiscono il sistema. Questi comportamenti non del tutto razionali sono dovuti all’inesperienza di una parte di quelle persone che operano sul mercato, che possono essere trascinati dall’entusiasmo o dal terrore che gira attorno a questo mondo. Azioni che alle volte possono essere alimentate dalle informazioni distribuite dai media. Questa condotta congiunta a motivi di natura reale può portare a situazioni molto dannose, che diventano però redditizie per chi riesce a carpirle, che si possono verificare nel mercato finanziario: le bolle speculative. Con bolla speculativa si intende il sentiero esplosivo che si forma nel prezzo di un bene e che lo porta, progressivamente sempre più distante dai valori compatibili con le fondamentali economiche dello stesso, dove con fondamentali economiche ci si riferisce a quelle particolari ragioni economiche che sottostanno al movimento di un prezzo. Quando le quotazioni di Borsa capitalizzano aspettative impossibili da misurare di possono formare bolle speculative, destinate a scoppiare , dato che non tutte le iniziative prese dagli investitori avranno successo. Il fenomeno delle bolle speculative solitamente viene visto come un’anomalia di mercato legata più alla componente psicologica che a quella razionale. Di solito un nuovo oggetto di investimento suscita molto interesse, o si verifica un rinnovato interesse per qualcosa di già esistente e consolidato, che già in partenza raccoglie in sé la componente speculativa. Viene quindi messo in risalto il grado di elevata diffusione del bene oggetto di speculazione. La gran parte delle volte sono, infatti, coinvolti beni di utilizzo comune e caratterizzati da un elevato grado si pervasività. Quello che porta le bolle speculative a svilupparsi sono quindi l’interesse per un nuovo oggetto di investimento collegato ad una componente speculativa, l’entrata nel mercato è spinta dalle aspettative di guadagno, senza preoccuparsi delle ragioni che hanno portato i primi rialzi, il tutto porta ad un effetto positivo secondario dovuto all’affacciarsi di investitori inesperti sul mercato. Di conseguenza ci saranno nuove società che vogliono sfruttare le occasioni offerte da questa euforia del mercato e un eccessivo sfruttamento della leva finanziaria. Tutto questo porta ad un abbassamento della liquidità presente nel sistema economico e ad un contestuale aumento dei tassi d’interesse e all’incapacità di pagare debiti e rendite. Questa situazione porta l’economia in una fase di ristrettezza finanziaria e quando l’unica via di uscita per pagare i debiti è la vendita, scoppia la bolla speculativa e si assiste quindi ad un’inversione di tendenza dei prezzi, che porta a grosse perdite per tutti coloro che possiedono quelle determinate azioni nel loro portafoglio. La possibilità di descrivere con sufficiente sicurezza il percorso che conduce dalla formazione alla fine di una bolla speculativa è supportata dalla casta casistica riscontrabile nella storia. La teoria delle bolle speculative è infatti fondata sulla rilevazione e sull’analisi di quanto accaduto nei secoli passati fino ad oggi, a intervalli più o meno regolari, nell’economia. Nel corso della storia di sono verificati diversi casi di bolle speculative. Il caso più incredibile fu quello dei tulipani nell’Olanda del 1600, la cosiddetta “Tulipomania”, la passione che il popolo nutriva per questi fiori e l’incertezza che circondava il loro colore portò a credere che acquistarne fosse un buon investimento. Molte altre ondate speculative si sono susseguite nei secoli successivi, da quella della Compagnia dei Mari del Sud nel 1700 alle ferrovie inglesi nel 1800. Ma quella che più di ogni altra ha lasciato un segno indelebile nella storia e nell’economia è il crack di Wall Street nel 1929, con la grande depressione che la seguì. Tra le altre ondate speculative con ripercussioni a livello globale, vanno ricordate quelle dei junk bond americani, la grande bolla immobiliare giapponese degli anni Ottanta e l’ondata speculativa che ha investito il mercato dei titoli tecnologici alla fine degli anni Novanta. Quest’ultima ha rappresentato uno dei casi più limpidi di valutazione irrazionale dei prezzi delle azioni. L’avvento di internet, con tutte le sue implicazioni, ha fatto presagire agli operatori del settore la possibilità di ottenere profitti altissimi, tanto da far parlare di New Economy. È arrivata poi la bolla causata dall’incremento dei prezzi degli immobili, cresciuta a causa dei crediti concessi dalle banche a soggetti che non avevano reddito sufficiente per restituire il mutuo, il quale fondava la sua garanzia sulla sola crescita del valore dell’immobile. A questa bolla si è poi sovrapposta quella del petrolio e delle materie prime, legata all’aumentata domanda di questi prodotti. Si cercherà in questo lavoro di analizzare i comportamenti anomali dei mercati finanziari, con particolare attenzione agli eventi speculativi, evidenziando i limiti della teoria dell’efficienza, studiando da vicino il fenomeno delle bolle speculative, intese come effetti di diverse patologie del mercato e dell’economia in generale. Analizzando i moventi della speculazione alla luce di tutti i fattori che sono alla base dei principali tipi di deviazione dalla teoria di funzionamento del mercato. Effettuando una stima econometria si cercherà di capire se esiste una correlazione tra le bolle speculative ed il rapporto prezzi/utili che possa essere riscontrato nelle diverse occasioni in cui si sono presentate delle bolle nel corso della storia economica recente.
XXIV Ciclo
1983
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
10

Principi, Silvia. "Il ruolo dell’investimento istituzionale nel capitale di rischio delle family business: review empirica internazionale e caso italiano." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7856.

Full text
Abstract:
2010/2011
L’obiettivo della tesi di dottorato è duplice: a. offrire un quadro sinottico della letteratura empirica internazionale sul ruolo dell’investimento istituzionale nel family business (FB), ponendo particolare attenzione al fenomeno dell’investimento da parte dei fondi di private equity (PE); b. verificare empiricamente su un campione di imprese familiari italiane qual è stato il ruolo nel periodo 2001-2010 del PE in termini di governance, struttura finanziaria e perfomance. La tesi si giustifica per l’esiguità degli studi italiani nel filone di studi inquadrato, per altro, sono studi focalizzati solo su alcuni aspetti e che non hanno periodi di indagine abbastanza recenti. Un’ulteriore giustificazione è da ricercarsi nelle peculiarità del mercato italiano sia in termini di caratteristiche delle imprese che di mercato del private equity.
La struttura industriale italiana è caratterizzata da un largo numero di imprese di dimensione medio-piccola per anni ritenuta una delle ragioni del successo economico dell’Italia; inoltre, il mercato dei capitali Italiano è sottodimensionato, sia in termini di capitalizzazione media che di numero di contrattazioni, rispetto a quello degli Stati Uniti, ma anche di altri Paesi europei. La combinazione dei due aspetti è ritenuto da più parti la causa di restrizioni finanziarie che possono limitare gli investimenti delle imprese e, in ultimo, la loro crescita. Non mancano, però, studi che evidenziano come causa della ridotta dimensione la riluttanza del proprietario che spesso è anche manager a condividere il controllo con membri non familiari. L’essere impresa familiare accentua tali criticità, ad esempio, poiché tradizionalmente sono imprese con scarsa capacità nel ricorso al finanziamento e all’apertura del capitale ad esterni non familiari, ridotta propensione innovativa e natura ereditaria dei ruoli di governance. Tali aspetti e punti deboli sono da relazionarsi anche ai molteplici bisogni di un patrimonio complesso come quello familiare, fatto di componenti tangibili ed intangibili: l’esigenza principale dell’impresa familiare è proteggere e gestire il capitale da rischi ed incertezze per assicurare continuità e sviluppo. Ciò conferma il notevole impatto della struttura istituzionale e proprietaria delle imprese all’accesso ai finanziamenti e soprattutto alle caratteristiche dello stesso debito bancario continua ad essere ritenuta la più importante fonte di finanziamento esterno per le imprese familiari (Sandri, Bigelli, Mengoli, 2001; Monteforte e La Rocca, 2003; Guiso, 2003; Sapienza, 1997; Venanzi, 2003, 2005; Nardi, 2008; Chiesa et al., 2009).
L’investimento istituzionale si può inquadrare quale valida alternativa all’indebitamento poichè ritenuto da più parti in grado di sopperire alle debolezze di quest’ultimo. In questo periodo più che mai il PE appare una valida alternativa: gli effetti della crisi che ha colpito i mercati finanziari si stanno manifestando nell’economia finanziaria e reale portando, tra le altre conseguenze, il fenomeno del credit crunch, come dimostrano le numerose e diffuse testimonianze imprenditoriali, che lamentano la lenta ed inesorabile riduzione degli affidamenti da parte delle banche, un più difficile utilizzo delle linee di credito in essere e l'impossibilità di avere nuove assegnazioni di fidi e finanziamenti. Il dibattito nella letteratura internazionale è molto vivo in considerazione sia della crescente diffusione del fenomeno del PE sia delle conclusioni non univoche raggiunte in merito al ruolo svolto da tali investitori ed agli effetti prodotti sulle imprese target. La letteratura accademica sembra essere orientata all’impatto positivo degli investitori istituzionali per le imprese e il tessuto imprenditoriale dei vari paesi, anche se ciò non può essere generalizzabile. Gli studi internazionali (tra i più recenti si citano Harris, Siegel, Wright, 2005; Strömberg, 2008; Wright, Amess, Weir, Girma, 2009; Wright, Bacon, Amess, 2009; Wright, Jackson, Frobisher, 2010), infatti, sono in prevalenza di origine anglosassone e si basano quindi su assunti e considerazioni di base differenti rispetto al contesto italiano e/o europeo: i differenti sistemi e condizioni istituzionali, economici e di governance non permettono a priori l’estensione dei risultati anche nel nostro Paese, considerando oltretutto l’ulteriore peculiarità italiana inerente il grande sviluppo di piccole e medie imprese, in prevalenza di natura familiare.
Oltre a tali motivazioni, la necessità di ulteriori sviluppi nella ricerca circa l’investimento istituzionale è anche avvalorata dal fatto che in Italia la letteratura è piuttosto scarna di lavori empirici. Recentemente il tema è tornato all’attenzione degli studiosi e diversi sono i contributi, anche se in prevalenza di natura teorica, che ampliano tale argomento (si citano tra gli altri le pubblicazioni dell’AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital; Bollazzi e Soldati, 2005; Gervasoni e Bollazzi, 2007; Bronzetti e Sicoli, 2008; Covello e La Rocca, 2008; Buttignon et al., 2009; Conca, 2009; Fidanza, 2010; Conca, 2007, 2011). Comunque la diffusione e lo sviluppo della letteratura a livello italiano appaiono ancora lontani dai livelli raggiunti nei principali paesi europei ed anglosassoni, a maggior ragione per quanto riguarda l’ambito del family business. Nell’attuale contesto italiano si ha che, da un lato, le imprese, soprattutto quelle a carattere familiare, cominciano ad apprezzare in maniera positiva l’apporto di risorse, finanziarie e non, da parte degli investitori istituzionali e sono disposte ad allentare le forme di potere che per lungo tempo le hanno caratterizzate. Dall’altro lato si nota, però, uno scarso sviluppo di contributi empirici che, essendo ancora poco numerosi, non permettono un’analisi approfondita ed un quadro chiaro circa l’effetto dell’investimento istituzionale nel capitale di rischio delle imprese italiane in generale e delle imprese familiari in particolare. Carenza evidente soprattutto a fronte del fatto che le FB costituiscono un target di primaria importanza per gli operatori istituzionali rappresentando circa l’85% delle operazioni in capitali per lo sviluppo (fonte PEM; Gervasoni e Bollazzi, 2007). La precedente letteratura empirica italiana (Buttignon et al., 2005; Gervasoni e Bollazzi, 2007; Buttignon et al., 2009) sembra confermare l’impatto positivo dell’investimento istituzionale nell’ambito delle imprese familiari, supportando la tesi che i PE sono in grado di generare sviluppo e reddito nelle FB, anche se con risultati piuttosto differenziati.
Il presente lavoro di dottorato contribuisce a colmare la lacuna presente nell’ambito delle ricerche sull’impatto degli investitori istituzionali nelle imprese familiari e trova giustificazione, oltre che per l’ampliamento degli studi sul tema, anche nell’analisi dello stato attuale del fenomeno in Italia. Infatti i lavori italiani precedenti si fermano, come ultimo anno di acquisizione, al 2004 ovvero l’ultimo anno analizzato in cui avviene il deal è il 2004 ed il periodo di indagine post deal si ferma al 2006. La tesi si struttura in due parti. La prima parte più teorica e descrittiva contiene una review degli studi italiani ed internazionali distinti rispetto ai due seguenti temi di studi: - la corporate governance - si analizza soprattutto la concentrazione proprietaria e la proprietà manageriale, l’impatto non univoco sulla performance e gli effetti della struttura proprietaria sui diversi processi di governance e tematiche d’impresa, e successivamente la corporate governance e struttura finanziaria nelle imprese familiari (capitolo 1); - l’investimento istituzionale nel capitale di rischio - si illustra inizialmente definizione, modalità di intervento, classificazioni e motivazioni (capitolo 2) e poi si analizzano i legami tra investitori istituzionali e corporate governance e tra questi e la performance (capitolo 3). La seconda parte (capitolo 4) è dedicata all’analisi empirica. L’indagine è stata condotta su un campione di 65 imprese familiari italiane e di 35 imprese non familiari selezionate tra le imprese target di PE negli anni 2004, 2005, 2006 e 2007. Inoltre, per avere un quadro più completo del fenomeno italiano, è stato selezionato ed analizzato anche un campione di 72 imprese familiari comparabili non oggetto di PE. Gli obiettivi sono far emergere lo stato attuale del fenomeno dell’investimento istituzionale ed il trend delle operazioni negli ultimi anni, quali sono le caratteristiche delle target e le modalità di intervento, l’influenza che i PE hanno sulla corporate governance e l’impatto sui più importanti indicatori di perfomance operativa ed economica.
Da quanto è emerso nella presente indagine, appare confermarsi le ipotesi originariamente fatte, circa l’esistenza di differenze tra le strutture di corporate governance adottate dalle FB oggetto di PE e quelle presenti nelle FB comparabili. In particolare si può confermare sia l’ipotesi 1, in cui si afferma che le FB target adottano differenti strutture di corporate governance rispetto alle imprese familiari non oggetto di PE, che l’ipotesi 1a, ovvero le proxy delle caratteristiche del CdA assumono livelli più alti/bassi tra FB target e FB comparabili. L’ipotesi 2 (le imprese familiari target si comportano diversamente dalle imprese target non familiari), invece, non può essere confermata in tutte le variabili di governance in quanto le imprese familiari target non si comportano sempre diversamente dalle imprese target non familiari. In riferimento al turnover dell’AD, nel presente lavoro non si possono confermare le ipotesi testate. L’ipotesi 3 (il free cash flow precedente l’ingresso del PE è correlato positivamente con la probabilità di turnover dell’amministratore delegato dopo il deal) non può essere supportata in quanto il coefficiente di regressione relativo al free cash flow non risulta significativo. I risultati non supportano l’ipotesi 4 (il leverage precedente l’ingresso del PE è correlato negativamente con la probabilità di turnover dell’amministratore delegato dopo il deal), infatti il coefficiente di regressione positivo non conferma l’ipotizzata correlazione negativa tra il leverage precedente l’ingresso del PE e la probabilità di turnover dell’amministratore delegato dopo il deal. Per quanto riguarda l’analisi dell’impatto del PE sulla performance delle imprese target ed in particolare delle family business, in seguito all’ingresso dell’investitore istituzionale si registra una prevalente diminuzione di alcune variabili di performance, mentre vi è un miglioramento della performance sotto il profilo occupazionale, in quanto l’occupazione migliora con l’entrata del PE. Come prevedibile, in quanto imprese oggetto di investimento istituzionale, vi è un incremento del leverage (D/E ratio) e dell’equity. Dal confronto con le imprese non familiari target si evince che nelle FB gli effetti del PE sono più accentuati, mentre dal confronto con le imprese familiari non oggetto di PE emergono delle differenze tra i valori medi dei due sottocampioni.
XXIV Ciclo
1984
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
We offer discounts on all premium plans for authors whose works are included in thematic literature selections. Contact us to get a unique promo code!

To the bibliography