Dissertations / Theses on the topic 'SCIENZE PENALISTICHE'

To see the other types of publications on this topic, follow the link: SCIENZE PENALISTICHE.

Create a spot-on reference in APA, MLA, Chicago, Harvard, and other styles

Select a source type:

Consult the top 33 dissertations / theses for your research on the topic 'SCIENZE PENALISTICHE.'

Next to every source in the list of references, there is an 'Add to bibliography' button. Press on it, and we will generate automatically the bibliographic reference to the chosen work in the citation style you need: APA, MLA, Harvard, Chicago, Vancouver, etc.

You can also download the full text of the academic publication as pdf and read online its abstract whenever available in the metadata.

Browse dissertations / theses on a wide variety of disciplines and organise your bibliography correctly.

1

RANZATTO, FABIANA. "LA RESPONSABILITA' PENALE DEL DIFENSORE: NOVITA' LEGISLATIVE E FATTISPECIE (APPARENTEMENTE) CONSOLIDATE." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2003. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12603.

Full text
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
2

FOLADORE, CHIARA. "IL DELITTO DI AGGIOTTAGGIO BANCARIO." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2004. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12546.

Full text
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
3

GIALUZ, MITJA. "IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE DI FATTO." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2004. http://thesis2.sba.units.it/store/handle/item/12548.

Full text
Abstract:
2002/2003
Inserito nel tessuto codicistico quasi surrettiziamente, nel contesto di una manovra legislativa diretta a rafforzare gli strumenti normativi a «tutela della sicurezza dei cittadini», il «ricorso straordinario per errore materiale o di fatto» costituisce un unicum nella storia legislativa dell'Italia unita. Prima del 2001, non era mai stato previsto - almeno in ambito processuale penale - un mezzo destinato a porre rimedio agli errori della Corte di cassazione, i provvedimenti della quale, in virtù della posizione di vertice attribuita alla suprema istanza giurisdizionale (art. 65 o.g.), erano da sempre considerati assolutamente inoppugnabili. In passato, per la verità, non erano mancati tentativi - mai, peraltro, andati a buon fine - volti a superare la rigidità di tale canone: non nasce certo nel nuovo millennio quell'ansia di giustizia che reclama l'emendabilità degli errori palesi del giudice ultimo. Sennonché, prima del 200 l, il legislatore aveva sempre ritenuto prevalente l'esigenza di tutela del giudicato formale, mantenendo fermo il principio dell'assoluta intangibilità; con la conseguenza che la risposta alle esigenze di equità cui si è fatto cenno finiva per essere affidata esclusivamente ai rimedi pretori individuati dalla Cassazione: da un lato, alla correzione degli errori materiali e, dall'altro, alla revoca delle ordinanze. Si trattava, però, di istituti destinati ad altri fini, di guisa che il loro impiego in chiave impugnatoria implicava notevoli forzature, determinando una prassi comprensibilmente variegata e, ciò che più conta, incerta. In alcuni casi, il supremo Collegio sostituiva le proprie decisioni viziate da errori manifesti, mentre in altri, privilegiando l'istanza di tutela dei valori sottesi all'assoluta inoppugnabilità, rigettava le richieste di "correzione". A mutare il quadro sono intervenute alcune pronunce con cui la Corte costituzionale ha affermato - anzitutto in ambito processuale civile (Corte cast. 17/86 e 36/91 ), poi nell'orbita del rito penale (Corte cost. 395/2000)- la necessità di prevedere rimedi agli errori di fatto in cui incorra la Cassazione. Proprio per adeguare i distinti sistemi processuali alle sollecitazioni della giurisprudenza costituzionale, il legislatore ha introdotto, prima la revocazione delle decisioni della Cassazione civile e, più recentemente, il ricorso straordinario avverso le pronunce adottate dalla Cassazione in sede penale. La disciplina positiva dell'istituto di recente conio risulta- anche a causa delle sue vicende genetiche- per un verso ambigua, sia sul piano dell'inquadramento sistematico del rimedio, sia su quello del vizio censurabile; per altro verso, lacunosa, soprattutto in relazione ai profili procedimentali. Nell'elaborato si è, dunque, analizzato il concorso straordinario per errore di fatto, tentando di far luce su tre snodi cruciali: a) l profili sistematici -+ Da tale punto di vista, dopo aver preso atto dell'irriducibile eterogeneità del ricorso per errore materiale - avente natura stricto sensu correttiva - e del ricorso per errore di fatto, si è verificata la possibilità di ricondurre quest'ultimo alla categoria dogmatica della revoca. L'indagine ha avuto esito negativo e, pertanto, si è approdati ali' assunto secondo cui il mezzo in parola ha natura impugnatoria. A questo punto, si imponeva di specificare se esso appartenga alla species delle impugnazioni ordinarie o a quella dei mezzi straordinari. È sulla scorta di indici testuali e costituzionali, che si è giunti a ritenere che il mezzo de quo si collochi nel novero delle impugnazioni extra ordinem. Sempre valorizzando le direttive desumibili dalla Grzmdnorm, si è tentato di dimostrare che, se di impugnazione straordinaria si tratta, è pur sempre un mezzo dotato di duplice fisionomia. In particolare, nei casi in cui l'errore di fatto abbia condotto a negare al condannato il controllo di legittimità, il ricorso straordinario presenta carattere strettamente rescindente: in sintesi, il rimedio comporta l'annullamento della decisione della Cassazione, la conseguente caducazione del precedente giudicato fondato su di essa e, quindi, la riapertura del processo. Proprio perciò, esso mostra una forma ibrida. Al di fuori delle ipotesi di violazione del diritto al processo di cassazione, invece, il ricorso si atteggia a rimedio rinnovatori o. All'esito di questa prima parte, si sono esaminati i due corollari della natura straordinaria dell'impugnazione: da un canto, la regola secondo cui il mezzo si rivolge esclusivamente ai provvedimenti che definiscono il processo; dall'altro, la norma che ne limita l' operatività alle sole evenienze in cui la decisione viziata abbia concorso a perfezionare la fattispecie del giudicato di condanna. b) La nozione di errore di fatto -+ Con riferimento al vizio denunciabile mercé il ricorso, il codice impiega una locuzione - "errore di fatto" - i confini della quale appaiono piuttosto sfumati. Anzitutto, viene da chiedersi a quale nozione di fatto si riferisca la norma dell'art. 625-bis c.p.p., posto che la Cassazione è notoriamente giudice deputato a sindacare solo la quaestio iuris. Al fine di risolvere il quesito, ci si è brevemente intrattenuti sulla natura della cognizione della suprema Corte. Si è constatato come alla base del giudizio di legittimità si collochino sempre dei fatti: quelli, nella specie, espressi da enunciati relativi alle condotte tenute dalle parti o riguardanti l'attività svolta dal giudice nel corso del processo. Fatti, questi, per lo più rappresentati in documenti - intesi come supporto cartolare, frutto della verbalizzazione- suscettibili di essere interpretati. È qui che è sorto il secondo interrogativo: ci si è chiesti se, ai fini del ricorso straordinario, rilevi unicamente l'errore nella conoscenza immediata del fatto cartolare- ciò che si è ridefinito "errore protocollare"- oppure anche l'errore di interpretazione, di valutazione dello stesso. La tesi restrittiva si è giustificata facendo leva, in particolare, sulla necessità di tutela del giudicato. Appurato dunque che, nel contesto dell'art. 625-bis c.p.p., è destinato a rilevare il solo errore protocollare, si è posto in luce come questo non sia, per così dire, autosufficiente: in tanto risulta censurabile, in quanto si sia effettivamente tradotto nell'invalidità- intesa in senso ampio, come ingiustizia o nullità-- della pronuncia del supremo Collegio. Ne discende che l'errore di fatto si configura, in realtà, come figura complessa, risultante dalla somma di errore protocollare e invalidità, e destinata anch'essa - come l'impugnazione - ad acquisire lineamenti diversi: vero e proprio vizio, quando si traduce nella lesione del diritto al sindacato di legittimità; semplice condizione di ammissibilità di un nuovo giudizio da parte della Cassazione, negli altri casi. c) l profili procedimentali -+ In relazione al modus procedendi, la normativa contenuta nell'art. 625-bis c.p.p. si rivela alquanto lacunosa. Il che suscita molteplici questioni, la soluzione delle quali si è individuata suggerendo l'applicazione, vuoi delle regole generali tese a disciplinare i rimedi aventi natura impugnatoria, vuoi delle norme sul ricorso ordinario per cassazione. Alle disposizioni dettate dal titolo primo del libro nono si è fatto capo per integrare la disciplina sotto il profilo dei soggetti legittimati a impugnare e delle modalità di presentazione del ricorso; mentre, al fine di risolvere i dubbi legati al vaglio preliminare di inammissibilità del ricorso, si è prospettata la necessità di applicare la statuizione dell'art. 61 O c.p.p. Infine, si è affrontato il tema dei provvedimenti conclusivi dell'udienza camerale, destinata all'accertamento dell'errore di fatto: sebbene il codice menzioni genericamente i «provvedimenti necessari per correggere l'errore», ancora una volta, assumerà rilevanza la distinzione tra le fattispecie in cui il ricorso ha natura rescindente e quelle in cui presenta carattere rinnovatorio. Unicamente nelle prime, al termine dell'udienza in camera di consiglio, ove la Corte accerti l'effettiva sussistenza dell'errar facti, dovrà annullare il proprio precedente decisum e rescindere il giudicato di condanna. Nelle altre, invece, potrà rinnovare ~ se del caso, immediatamente ~ il sindacato sulle censure proposte con l'originario ricorso e, solo al termine del giudizio, sarà chiamata eventualmente a porre nel nulla il provvedimento impugnato.
XVI Ciclo
1975
Versione digitalizzata della tesi di dottorato cartacea.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
4

Tagliani, Ida. "DIRITTO ALL'INFORMAZIONE SULL'ACCUSA E PROCESSO PENALE." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3079.

Full text
Abstract:
2007/2008
E’ rintracciabile, nell’attuale sistema processualpenalistico, un paradigma del diritto alla “informazione sull’accusa”, quale consacrato nell’art. 111 comma III Cost.? La risposta a simile quesito – cui si propone di giungere la presente ricerca – impone di saggiare gli istituti funzionali, nella fase investigativa, a concretizzare tale diritto alla luce del connotati del “giusto processo”, mediante un duplice percorso che, per un verso, esplora la possibilità di reductio ad unum dell’apparato informativo e, per altro verso, ne sonda il grado di effettività. L'opera si articola nelle tre parti di seguito illustrate. La prima sezione è dedicata alla definizione del concetto di “diritto all’informazione sull’accusa” nella teoria delle fonti. Il primo capitolo è dedicato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al Patto internazionale sui diritti civili e politici che, per primi, hanno configurato una organico modello di fair trial, ove il diritto all’informazione sull’accusa partecipa della duplice natura di precipitato del diritto di difesa e presupposto per l’esercizio, all’interno del processo, delle singole facoltà difensive. A fronte della laconica previsione dell’art. 6 § 3 lett. a CEDU – che, al pari dell’omologa disposizione contenuta nell’art. 14 § 3 lett. a ICCPR si risolve in una mera enunciazione dei caratteri della comunicazione –, si impone la ricostruzione del paradigma informativo attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di Strasburgo affronta la tematica senza atteggiamenti preconcetti e sviluppa un modello di informazione, per un verso, dinamico e duttile, atto a modularsi attraverso le diverse fasi procedimentali, e, per altro verso, conforme ai canoni della tempestività e della efficienza. A tal fine, il concetto stesso di accusation, cui il diritto all’informazione è ancorato, non pare postulare formule o atti sacramentali, ma si traduce nella attività dell’organo inquirente che, nel caso concreto, sia abbia a determinare «ripercussioni importanti» sulla sfera personale della persona sottoposta alle indagini: l’avvio del procedimento, l’iscrizione della notizia di reato, l’esecuzione di una perquisizione o di un sequestro. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione del diritto all’informazione sull’accusa all’interno della nostra Carta costituzionale, muovendo dalla sua “archeologia”. Invero, sin dai primi anni ’60, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla possibilità di enucleare un modello di fair trial dalle disposizioni contenute nella Costituzione. Lo sforzo euristico degli interpreti si è inizialmente incentrato sull’art. 24 Cost., fino a giungere, nel 1996, all’esplicitazione, ad opera della giurisprudenza costituzionale, di un canone del “giusto processo” quale formula scaturente dal coordinamento dei «principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio». Parallelamente al consolidarsi di una via costituzionale ante litteram al due process of law, si assiste al progressivo manifestarsi dell’influenza delle norme contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti della persona e processo penale. Simile fenomeno – che intreccia la tematica del rango rivestito, nella gerarchia interna delle fonti, dalle disposizioni pattizie – assume particolare rilievo nelle pronunce della Consulta, ove l’art. 6 § 3 CEDU viene evocato, con crescente frequenza, quale parametro “ausiliario” nel giudizio di conformità delle norme subordinate alla Costituzione. L’escalation culmina, nel 1987, con l’inserzione dell’ossequio ai principi enunciati nelle convenzioni internazionali di riferimento tra i criteri direttivi atti guidare, ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegato alla redazione dell’attuale codice di procedura penale. La questione della diretta precettività, nel nostro ordinamento, delle norme pattizie – elette a principio informatore del codice di rito – viene, peraltro, messa in secondo piano dalla introduzione, ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, della disciplina del giusto processo nel tessuto costituzionale. In controtendenza rispetto alla concezione “minimalista” postulata dai giudici costituzionali, da ultimo, con la sentenza n. 361 del 1998, il legislatore del 1999 introduce, nell’art. 111 Cost., un concetto “forte” di contraddittorio, che partecipa della duplice natura di canone oggettivo di esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto fulcro del giusto processo, e di garanzia soggettiva operante nell’ambito penale. La centralità del diritto di contraddire consente di attribuire spessore teleologico alla prerogativa, riconosciuta a ogni persona sottoposta a procedimento, di essere informata, nel più breve tempo possibile e in via riservata dell’accusa elevata a suo carico: si attua in tal modo quel “diritto a difendersi conoscendo” che costituisce imprescindibile prodromo per imbastire qualsivoglia tutela processuale delle ragioni dell’imputato. Esaurita la disamina dei principi, la ricerca si impernia sulla ricognizione della fenomenologia informativa nell’attuale sistema codicistico, con riferimento a quegli istituti che sono funzionali a consentire la conoscenza “sul processo” e “nel processo” nella fase investigativa, che, sulla scorta dell’esegesi operata sull’art. 111 comma III Cost., costituisce la naturale sedes materiae del diritto all’informazione sull’accusa. Viene in rilievo l’istituto della informazione di garanzia, funzionale nell’impianto originario del codice di rito, a squarciare la segretezza investigativa con una seppur embrionale parentesi di discovery connessa all’espletamento di un atto cui il difensore abbia diritto ad assistere. Lo strumento informativo in argomento permette di focalizzare l’attenzione sul canone della riservatezza, oggetto di positivo richiamo da parte dell’art. 111 comma III Cost. Dotato di un requisito interno atto, in tesi, a consentire il massimo riserbo – ossia l’invio mediante piego chiuso raccomandato – l’istituto in argomento ha patito, nei primi anni novanta, una sistematica strumentalizzazione che, da presidio di garanzia per la persona sottoposta alle investigazioni quale era stato concepito, l’ha trasformato in veicolo di condanna anticipata. Il conseguente tentativo, operato dal legislatore del 1995, di restituire respiro all’informazione di garanzia ha, invece, finito per comprimere il diritto della persona indagata alla conoscenza della sussistenza di un’investigazione a suo carico attraverso la compressione dell’ambito di operatività dell’art. 369 c.p.p. Contestualmente alla modifica della disciplina dell’informazione di garanzia, in una logica di “pesi e contrappesi” si è inteso recuperare uno spazio di discovery mediante la modifica della disciplina del registro delle notizie di reato, regolato dall’art. 335 c.p.p., il cui accesso, nella lettera originaria del codice di rito, era interdetto sino alla formulazione dell’imputazione. Il riconoscimento del diritto della persona cui il reato è attribuito di ricevere comunicazione delle iscrizioni a proprio carico non ha, invero, sortito un effetto compensativo, atteso che la disciplina dell’accesso – lungi dal configurare una inviolabile prerogativa – patisce due testuali eccezioni. La prima, connessa alla tipologia della notitia criminis, è funzionale ad interdire ex ante la conoscibilità delle iscrizioni relative a procedimenti che abbiano ad oggetto reati di particolare gravità. La seconda è ricondotta al potere, attribuito al pubblico ministero, di secretazione delle inscrizioni in presenza di specifiche esigenze investigative. In una logica di disorganica stratificazione degli istituti, nel 1999 – dopo il fallimento dell’esperienza della contestazione della “imputazione provvisoria” di cui alla l. n. 234 del 1997 – fa il suo ingresso, sulla scena processuale, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi del quale si onera il pubblico ministero, nell’ipotesi in cui non intenda richiedere l’archiviazione, di provvedere, a pena della nullità del successivo atto di esercizio dell’azione penale, di notificare alla persona sottoposta alle indagini un’informativa in cui l’ostensione degli atti di indagine si coniuga al riconoscimento di un corredo di facoltà difensive. L’avviso in argomento, contrariamente agli auspici del legislatore, lungi dall’attestarsi quale strumento principe per l’attuazione del diritto all’informazione sull’accusa, si è rivelato un «garanzia incompiuta» che, seppur dotata dei requisiti della comprensibilità e del dettaglio, contraddice il richiamo al «tempo più breve possibile», in tal modo deprivando il suo destinatario (anche) del beneficio della fruizione del tempo e delle facilitazioni necessarie per la predisposizione della strategia difensiva. A tale aporia funzionale si assomma la progressiva compressione, anche sulla scorta dell’esegesi giurisprudenziale, dell’ambito di operatività dell’istituto che, pertanto, non è idoneo a fungere da paradigma del diritto all’informazione sull’accusa. Dopo una breve analisi della disciplina dell’informazione sul diritto di difesa, regolato dall’art. 369-bis c.p.p., e sugli strumenti informativi operanti nel procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato (d.lgs. n. 231 del 2001), il presente lavoro si chiude con un bilancio sulla funzionalità dell’apparato informativo configurato nel codice di rito penale alla concretizzazione del principio consacrato nell’art. 111 comma III Cost. Sul profondo deficit della strumentazione – al di là della mancata rispondenza ai singoli connotati della tempestività, del dettaglio e della riservatezza – pare pesare la carenza di organicità nell’affidare l’attuazione del diritto all’informazione ad una pluralità di istituti privi di coordinamento e suscettibili di applicazione solo eventuale.
XIX Ciclo
1973
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
5

Kalaja, Kledi. "La frode nel settore asicurativo: profili problematici e prospettive di riforma." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10377.

Full text
Abstract:
2012/2013
La scelta della frode assicurativa, come oggetto della tesi di dottorato, nasce dalla curiosità di meglio conoscere il fenomeno fraudolento in un settore, quello assicurativo, in cui sono impiegato da più di due anni, e con attenzione ad un tema non approfondito dalla letteratura e dalla giurisprudenza. Allo scopo di determinare il fenomeno illecito si è proceduto da prima ad un’analisi statistica del fenomeno fraudolento in Italia, operando anche un’analisi comparativa con alcuni sistemi stranieri; secondariamente l’analisi si orienterà verso la sfera giuridica, in questo senso, di particolare interesse, sia da un punto di vista dottrinale che giurisprudenziale, sono gli istituti della frode di cui all’art. 640 c.p. e della frode assicurativa di cui all’art. 642 c.p. Al termine dello studio, in fase conclusiva, si procederà ad un’analisi dei dati emersi, prospettando alcune possibili riforme che paiono indispensabili per combattere uno dei più diffusi fenomeni illeciti del nostro paese.
XXVI Ciclo
1985
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
6

Lorenzetto, Elisa. "Dal difensore inquirente al difensore istruttore.Genesi, evoluzioni e involuzioni del diritto di difendersi indagando." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2636.

Full text
Abstract:
2006/2007
ABSTRACT A dispetto di un’intitolazione tutt’altro che equivoca, le «disposizioni in materia di indagini difensive», innestate con l. 7 dicembre 2000, n. 397, nel tessuto dei codici di diritto penale – sostanziale e processuale –, introducono nuove prerogative per i soggetti della difesa che vanno ben oltre il riconoscimento espresso della facoltà investigativa, dovendo osservarsi come il tratto saliente dell’interpolazione sia rappresentato dall’estensione al difensore del potere di formazione unilaterale della prova. Innovazione epocale, quest’ultima, che viene attuata quasi in sordina dal legislatore, attraverso una disposizione di collegamento – l’art. 391 decies c.p.p. – che legittima il passaggio delle risultanze difensive attraverso i canali di comunicazione che tuttora intercorrono tra la fase preliminare e il processo, consentendo l’eccezionale trasfigurazione dell’elemento d’indagine in prova. Un autentico potere creativo compete, in perfetta simmetria all’accusatore, anche al difensore, complice un sistema votato negli intenti all’accoglimento del contraddittorio forte per la formazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) ma, di fatto, propenso a darvi attuazione lasciando sopravvivere – nelle ipotesi impossibili, consensuali ovvero inquinate (art. 111 comma 5 Cost.) – il pieno valore probatorio dell’atto di matrice unilaterale. A scontarne gli eccessi, tuttavia, è proprio la dimensione puramente inquirente dell’agire difensivo che sfuma i propri confini sovrapponendosi a inusitate doti istruttorie, delle quali si trova a condividere investiture formali, tassatività di previsioni, rigide forme d’azione e di documentazione nonché il severo regime di sanzioni, processuali e penali, smarrendo l’agilità di movimento che per definizione connota la fase di investigazione. Un effetto anomalo che svilisce il ruolo parziale e privatistico del difensore proprio mentre ritiene di elevarlo a profili pubblicistici di partecipazione – addirittura di collaborazione – con l’amministrazione della giustizia, secondo una combinazione dissonante che condanna il sistema all’insanabile contraddizione. Urge il recupero di una funzione privata, quella difensiva, cui competono nella fase preliminare l’attività di ricerca, in quanto strumentale alla successiva impostazione della strategia – anche probatoria – ovvero l’acquisizione di elementi, da spendere variamente negli incidenti procedimentali, senza soffrire limitazioni o inibizioni derivanti dall’inappropriato riconoscimento di un’attitudine creativa unilaterale in punto di prova. La strada da percorre per pianificare una simile rivoluzione, quindi, non può che snodarsi lungo il versante oggettivo del metodo dialettico, da attuare pienamente attraverso il deciso ripudio del potere di formare unilateralmente la prova ad opera delle parti, unico presupposto cui ancorare un progetto di tendenziale emancipazione del diritto di difendersi indagando. Questa è l’impostazione che si è cercato di imprimere al seguente studio, volto a individuare ragionevoli spazi di liberalizzazione e deformalizzazione dell’agire difensivo, autenticamente inquirente e non più istruttorio. A cominciare dal confronto con l’apparato delle fonti del diritto di difendersi indagando (Parte Prima), articolato nelle sue componenti di principio, normative e deontologiche, la cui evoluzione e stratificazione ha consentito di porre in luce come la genesi del libero potere inquirente privato riposi sull’implicazione oggettiva di sistema che riconosce valore indefettibile al contraddittorio nella formazione della prova, attraverso l’irrigidimento del rapporto tra regola e sue eccezioni e l’ostruzione dei canali che consentono all’elemento unilaterale di essere apprezzato come prova in vista della decisione sul merito dell’imputazione. Particolare attenzione si è dedicata, quindi, alla disamina puntuale del dato normativo attuale (Parte Seconda), tramite la ricognizione e l’esegesi delle singole disposizioni – segnatamente, gli artt. 391 bis e ss. c.p.p., ma non solo – introdotte nel codice di rito dalla nuova legge, ove il dato sorprendente è rappresentato dall’estrema cavillosità che ha accompagnato l’innesto codicistico del “microsistema” delle investigazioni difensive, agli antipodi del libero agire inquirente che dovrebbe potersi riconoscere al difensore. All’evidenza, un ansiogeno horror vacui ha indotto il legislatore a non lasciare sforniti di previsione i molteplici aspetti dell’inchiesta privata, adoperandosi alacremente a disciplinare i profili soggettivi e temporali di legittimazione, le forme d’azione e di documentazione, i canali di presentazione e utilizzazione delle risultanze nonché le patologie sanzionabili in via processuale, penale o disciplinare. Un’opera mastodontica, eppure insoddisfacente. Invero, nella preoccupazione di varare un efficiente statuto di legalità formale, idoneo a sopperire al deficit di genuinità sostanziale che non consentirebbe alla risultanza privata – in quanto unilaterale – di assurgere al rango di prova in giudizio, si è tralasciato di dotare la difesa di incisivi poteri inquirenti nel momento dell’effettivo bisogno, condannando alla sterilità dimostrativa, anche nei contesti procedimentali, i materiali raccolti senza l’osservanza di protocolli formali (art. 391 bis comma 6 c.p.p.). A conferma dell’assunto, si è ritenuto di analizzare gli approdi applicativi cui è giunta – o si prevede perverrà – la prassi giurisprudenziale (Parte Terza), autentiche involuzioni che segnano una drastica battuta d’arresto a quella che avrebbe dovuto rappresentare la sospirata evoluzione del diritto di difendersi indagando. Anomalie, queste utlime, germinate dall’avarizia di un dettato normativo restìo a riconoscere strumenti d’azione efficaci al difensore inquirente ovvero – sul versante opposto – fin troppo generoso nell’approntare lo statuto di legalità formale che supporta l’utilizzabilità processuale della risultanza privata. Eppure irrigidimenti imposti, fin tanto che l’«elemento» investigativo, ancorché unilaterale, è idoneo a valere come «prova» sul tema della responsabilità. Prioritario, quindi, recuperare il massimo tasso di dialetticità del sistema nel momento deputato alla pronuncia sul merito dell’imputazione, restituendo rigidità al rapporto tra metodo dialettico di elaborazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) e sue eccezioni (art. 111 comma 5 Cost.), presupposto indefettibile per progettare un’ipotetica rivoluzione che svincoli da formalismi inadeguati il potere inquirente del difensore (Parte Quarta). Una via, peraltro, che affonda le proprie radici nel dibattito autorevolmente fiorito all’epoca della primordiale iniziativa di riforma che avrebbe condotto all’emanazione del nuovo codice di rito, proseguito altrettanto validamente nei primi anni di vigore del rinnovato modello processuale onde correggere le vistose disfunzioni applicative che ne sconfessavano l’effettiva dimensione accusatoria. Attraverso un tentativo di mediazione tra le diverse soluzioni prospettate, dunque, si è giunti a enucleare alcune linee guida che potrebbero orientare un’opera ragionata di emancipazione del diritto di difendersi indagando, suddividendo i diversi gradi di intensità attribuibili all’agire investigativo nelle fasi della ricerca, dell’acquisizione di elementi nonché della precostituzione della prova, limitata ai casi di ontologica impossibilità originaria di ripetizione ovvero alla procedura incidentale di elaborazione dialettica anticipata. Un programma di liberalizzazione che, si vedrà, sfuma alquanto la propria autonoma portata innovativa al cospetto con il presupposto primo che ne legittima l’attuazione: il ripudio generalizzato del potere di formazione unilaterale della prova, culla autentica in cui riposa ogni idea di rivoluzione.
XX Ciclo
1977
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
7

Malacorti, Giulia. "La conoscibilità dell'accusa nel procedimento penale." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4944.

Full text
Abstract:
2009/2010
Con il varo della Costituzione si affermava nel nostro ordinamento l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento. Ora come allora, l’effettività di questo diritto ha quali ontologiche premesse, da un lato, la possibilità per la persona accusata di un reato di compiere investigazioni parallele a quelle condotte dal p.m., la necessità che la stessa possa conoscere, in tempi contenuti, l’esistenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e l’addebito contestato in via provvisoria. Su questi presupposti veniva coniata la nozione di “diritto di difendersi provando”, quale più completa e dinamica espressione del diritto di difesa, da garantire fin dalla fase prodromica al processo. Muovendo dalla prospettiva di realizzare un processo di parti, il codice tendenzialmente accusatorio del 1988 fissava il principio dispositivo della prova (art. 190 c.p.p.) e riconosceva alla difesa la facoltà di compiere indagini private tese all’individuazione e al reperimento degli elementi di prova a discarico (art. 38 disp. att. c.p.p.). Facoltà successivamente rafforzata dalla compiuta disciplina (artt. 391 bis e ss. c.p.p.) delle investigazioni difensive introdotta con la l. 7 dicembre 2000, n. 397. Difettava, tuttavia, la previsione di meccanismi che garantissero, al contempo, anche la condizione primaria e ineliminabile affinché il diritto di difendersi provando nella fase delle indagini preliminari non rimanesse un diritto di carta. E le novelle susseguitesi nell’arco di oltre un ventennio, nonostante i dichiarati intenti di conferire maggiore consistenza alle prerogative difensive dell’indagato, hanno stentato ad affermarla. Benché la conoscibilità dell’accusa sia stata assurta al rango di principio costituzionale (art. 111 comma 3 Cost.), quale diritto che, sulle linee da lungo tempo tracciate dall’ordinamento internazionale, concorre a delineare la fisionomia di un giusto processo, il sistema codicistico non sembra, ancora oggi, annoverare istituti idonei a rendere certa e indiscriminata, in capo alla persona sottoposta alle indagini, la “tempestiva” consapevolezza dell’avvio di indagini nei propri confronti e a porre la stessa nella possibilità di operare concretamente le scelte defensionali più adeguate alla propria posizione. In altri termini, nonostante gli sforzi del legislatore volti a potenziare gli strumenti difensivi per la realizzazione di una par condicio effettiva tra le parti contrapposte, l’attuale normativa rischia di vanificare i poteri e le facoltà che la stessa pur conferisce all’indagato, impedendone il concreto e proficuo esercizio. La conoscenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e del fatto di reato che ne costituisce la “regiudicanda” – pur fluida e perfettibile, in quanto necessariamente parametrata al grado di maturità di un’attività investigativa ancora in fieri – può non avvenire affatto o essere procrastinata sino a divenire oggettivamente intempestiva. Perdura una legislazione foriera di spazi discrezionali in capo all’organo inquirente a tutela del segreto istruttorio, a fronte del quale nessuna reale garanzia è riconosciuta alle aspettative dell’inquisito in relazione al momento cognitivo. Gli artt. 335 e 369 c.p.p. – che regolamentano i principali canali attraverso i quali la persona sottoposta alle indagini può acquisire contezza del procedimento penale a suo carico – anche dopo la riforma introdotta con la l. 8 agosto 1995, n. 332, si sono rivelati inidonei ad assicurare sollecite iniziative della difesa. Il meccanismo di ostensione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) se, da un lato, presuppone l’attivazione della parte interessata, dall’altro, risulta fortemente condizionato da valutazioni arbitrarie e insindacabili del p.m. Né una maggiore sensibilità verso le istanze difensive sembra trasparire dalla disciplina dell’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), istituto sorto dalle ceneri della previgente comunicazione giudiziaria, senza averne, tuttavia, mutuato le finalità puramente informative nei confronti di ogni persona accusata di un reato. Nell’attuale assetto normativo, essa parrebbe configurasi quale atto precipuamente funzionale a consentire la nomina di un difensore di fiducia in occasione del compimento (eventuale) di atti garantiti, piuttosto che ad assicurare una tempestiva conoscenza delle indagini in corso in capo all’indagato. Rispetto al codice del 1930, infatti, l’art. 369 c.p.p. non soltanto ha sensibilmente posticipato il momento d’invio dell’avviso, impoverito, altresì, nel suo contenuto descrittivo, ma lo ha, altresì, vincolato all’espletamento di un’attività investigativa garantita, governata da logiche puramente inquisitorie e, dunque, non imposta ai fini dell’esercizio dell’azione penale. In base al combinato disposto degli artt. 335 e 369 c.p.p., può, dunque, accadere che, qualora il p.m. non ritenga necessario procedere ad atti istruttori al cui compimento il difensore ha diritto di intervenire, l’indiziato – il quale non sospetti di essere destinatario di un’indagine giudiziaria e, dunque, non si attivi ex art. 335 comma 3 c.p.p. – rimanga il protagonista ignaro di un procedimento penale, per lungo tempo ovvero sino alla conclusione delle investigazioni, senza avere avuto, di conseguenza, la possibilità di ricercare, tanto prontamente quanto utilmente, elementi di prova a discarico e predisporre una ponderata strategia difensiva in vista del successivo ed eventuale giudizio. Il suo diritto a un’informazione completa e tendenzialmente stabile è garantito unicamente nell’ipotesi in cui l’organo dell’accusa, all’esito delle indagini preliminari, intenda promuovere l’azione penale nelle forme ordinarie della richiesta di rinvio a giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio (artt. 416 comma 1 e 552 comma 2 c.p.p.). In questi casi, il magistrato del pubblico ministero dovrà inoltrare all’indagato (e al suo difensore) l’avviso di conclusione delle indagini e, se v’è richiesta in tal senso, invitarlo a presentarsi per rendere l’interrogatorio (art. 415 bis c.p.p.). La l. 16 dicembre 1999, n. 479 – finalizzata, in parte qua, a colmare il deficit difensivo residuato dalla precedente riforma (l. 16 luglio 1997, n. 234) – ha, infatti, garantito all’inquisito, oltre alla “sommaria” cognizione dell’addebito, in facto e in iure, la preventiva discovery degli atti di indagine raccolti dal p.m., ai fini di un oculato e consapevole esercizio delle facoltà che lo stesso art. 415 bis c.p.p. attribuisce alla difesa. Tuttavia, l’avviso in parola si colloca, nella maggior parte dei casi, in un momento troppo avanzato rispetto all’avvio del procedimento penale perché possa assicurare proficue ed efficaci iniziative difensive, spesso irrimediabilmente pregiudicate se intraprese tardivamente. Né integra una garanzia per tutte le persone sottoposte alle indagini, incontrando limiti operativi in relazione sia ai procedimenti speciali che al “rito di pace”, limiti, invero, non sempre pienamente condivisibili in ragione delle connotazioni tipiche degli stessi. Rappresenta, dunque, un istituto per molti aspetti inidoneo a dare completa attuazione alle affermazioni di valore consacrate nell’art. 111 comma 3 Cost., destinato a rimanere desolatamente irrealizzato nella parte in cui riconosce a ogni persona accusata di un reato il diritto di esserne informata «nel più breve tempo possibile». Sotto quest’ultimo profilo, se l’imperativo costituzionale evoca la necessità di un giusto contemperamento tra istanze difensive e garanzie di efficienza delle indagini preliminari, lo sforzo del (coevo) legislatore verso l’individuazione di un equilibrio tra le opposte esigenze è stato, a ben vedere, pressoché impercettibile. Nel momento in cui, conclusa l’attività investigativa dell’organo inquirente, il segreto è, in ogni caso, destinato a cadere, non potrebbe più invocarsi alcuna pretesa di tutela della genuinità dei risultati. Se il codice contempla altri meccanismi idonei, in concreto, a notiziare l’inquisito dell’esistenza di un procedimento penale a carico e, con gradi diversi di specificità, dell’addebito contestato in via provvisoria, è da osservare che essi, eterogenei e variabili sotto il profilo temporale, rimangono sempre caratterizzati dall’eventualità e da valutazioni di opportunità legate alle dinamiche investigative. Una realtà normativa siffatta se, con molte riserve, poteva considerarsi accettabile nell’assetto originario del codice del 1988 – nell’ambito del quale l’inchiesta di parte del p.m. acquisiva, di regola, una rilevanza meramente interna alla fase delle indagini preliminari –, nell’attuale sistema – ove ogni risultanza investigativa può, non solo, costituire la piattaforma probatoria in sede di riti deflattivi del dibattimento, ma essere variamente spesa, a fini decisori, nelle successive fasi del giudizio – risulta difficilmente giustificabile e certo distonica rispetto alla prospettiva costituzionale di garantire il diritto di difesa e l’egalité des armes in ogni stato e grado del procedimento.
XXII Ciclo
1978
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
8

Campeis, Carlotta. "Il diritto penale europeo a tutela dell'ambiente." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3676.

Full text
Abstract:
2008/2009
Lo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell’individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L’introduzione mira a porre le basi dell’analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell’evoluzione dell’Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l’Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un’unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell’Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l’espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni “istituzionali”, c.d. comunitari, strettamente funzionali all’esistenza dell’Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni “satellite” rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni “normativi” e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell’ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la “necessità di pena” in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all’Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa “bidimensionalità”, possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L’interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all’interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l’intervento del singolo Stato membro. E’ per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell’azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell’Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L’interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all’implementazione e all’armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L’influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l’assenza di un’affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un’influenza dell’attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall’attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale”, attuata attraverso “posizioni comuni” ed “azioni comuni” e la cooperazione in materia penale, nell’ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell’Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell’ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l’ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell’assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell’ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell’ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall’attribuzione all’organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall’attribuzione di una potestà penale ad un’entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l’aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all’applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall’incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell’ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell’ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato “dall’incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime”. Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un’offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all’intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell’ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell’attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L’assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l’idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E’ però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l’opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l’Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l’influenza diretta e l’influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l’ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L’attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell’ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell’affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell’influenza lato sensu diretta anche quell’attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell’efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui “le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale “applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria”. Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall’influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un’interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l’ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell’incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell’integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell’ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l’intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall’influenza disapplicatrice, promanante da un’incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell’ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall’incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un’integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l’incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l’area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l’ipotesi in cui l’influenza, ancora discussa su tal punto dell’ordinamento comunitario, comporti un’espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce “conflitti triadici” ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l’applicazione di un’altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l’evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L’intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell’attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell’ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un’ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell’ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un’armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull’eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell’ambito degli effetti che l’ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell’esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell’ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l’operatività di tutta la normativa in materia, nonché l’efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell’intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell’illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l’evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell’ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L’occasione di contrasto deve rinvenirsi nell’annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L’argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza “generale” della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all’effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l’armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l’apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l’incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l’obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell’ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l’evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell’art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all’unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L’ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell’evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un’evidente battuta d’arresto, deferendo inevitabilmente l’individuazione delle linee evolutive all’attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell’esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l’esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell’Unione nonché l’ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una “mise en compatibilité” degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un “pluralisme juridique ordonnè” ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all’altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l’intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim’ordine la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l’Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell’intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un’unificazione ed un’armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un’opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l’esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale “di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all’interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri”. E’ indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale.
XXII Ciclo
1981
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
9

Pietrunti, Carlo. "Le intercettazioni telefoniche." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7442.

Full text
Abstract:
2010/2011
La tesi di dottorato ha come titolo “le intercettazioni telefoniche”. In tale elaborato si è cercato di affrontare gli elementi caratterizzanti tale istituto, oggi ancor di più al vertice delle dispute non solo di carattere giurisprudenziale e dottrinale, ma anche, e soprattutto, socio-politico. L’elaborato di tesi ha analizzato gli aspetti codicistici di tale mezzo di ricerca della prova, esponendo anche lo studio di istituti, che pur non disciplinati nel Codice di Procedura Penale, determinano, al pari delle intercettazioni telefoniche, una notevole compromissione del diritto costituzionalmente garantito (art. 15, Cost.) della libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione. Uno spazio particolare si è voluto dedicare al commento degli ultimi interventi del legislatore in materia: la normativa dell’acquisizione dei tabulati telefonici e il cosi’ detto “privilegio dei parlamentari”, oltre che delle brevi considerazioni riguardanti le intercettazioni delle comunicazioni effettuate tramite Internet. Gli elementi della fattispecie codicistica, così affrontati, non potevano che essere proiettati anche alla luce della recenti proposte di riforma, ed in particolar modo di quella, tanto discussa, prospettata lungo la XVI Legislatura che, dopo una forzata approvazione al Senato, giace da tempo arenata presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Il capitolo ad essa dedicato, immancabile soprattutto alla luce dell’acceso dibattito sorto nell’immediatezza della presentazione del D.D.L., N°1415,, ha evidenziato quali sono i punti di maggior attrito sia con l’attuale normativa, sia con le reazioni dottrinali e, in particolar modo, con i commenti della stampa nazionale coinvolta nel delicato rapporto tra diritto di cronaca e tutela della privacy. Un’analisi, quindi, sia della normativa in vigore che del progetto di riforma, che interessa tutti i portatori di interessi costituzionalmente protetti e coinvolti nella partita delle intercettazioni: L’autorità giudiziaria, che si fa carico della tutela della sicurezza dei cittadini attraverso l’accertamento dei reati; L’indagato-imputato, titolare del diritto alla difesa, della presunzione di non colpevolezza nonché della tutela delle comunicazioni e del domicilio; il terzo estraneo, garantito al livello sovranazionale e nazionale dai diritti della persona e della sua dignità, se non anche della privacy; la stampa e l’informazione la cui attività è riconducibile al diritto di cronaca. Il mutare di tale istituto, certamente bisognoso di un’attualizzazione largamente condivisa, rispecchia il mutare del processo penale oramai incamminato in un percorso ricco di profonde trasformazioni legate allo sviluppo tecnologico, all’esigenza di sicurezza, e al delicatissimo rapporto esistente tra elementi conoscitivi assunti in indagine penale, la loro rilevanza all’interno del processo e diffusione degli stessi in un ambito extraprocessuale.
XXIII Ciclo
1974
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
10

Volpatti, Giulia. "Imputabilità e neuroscienze: problematiche e prospettive." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8634.

Full text
Abstract:
2011/2012
L’imputabilità rappresenta uno degli istituti più importanti, ma anche più controversi del nostro diritto penale. Identificata come la capacità di intendere e di volere, essa non trova nel codice penale una definizione in positivo, ma viene descritta attraverso le c.d. cause di esclusione dell’imputabilità, di cui agli artt. 88 e seguenti del codice (vizio di mente totale e parziale, ubriachezza ed intossicazione da stupefacenti, sordomutismo e minore età). Uno degli aspetti più problematici dell’imputabilità è la sua collocazione nella sistematica del reato; la dottrina, infatti, non è unanime nel considerarla quale presupposto della colpevolezza in quanto vivide sono ancora le correnti di pensiero che, coerentemente con la scelta codicistica operata dal legislatore, identificano l’imputabilità con una condizione del soggetto, uno status dell’uomo. Ciononostante, accantonate le divergenze di opinione su questo primo snodo (ritenute, peraltro, da alcuni superate a seguito della presa di posizione della Corte di Cassazione), di difficile soluzione risultano anche i rapporti tra l’imputabilità ed il vizio di mente, che ne rappresenta la principale causa di esclusione. In particolare, il concetto di vizio di mente ha subìto nel corso dei decenni numerose interpretazioni: il suo legame diretto con la scienza psichiatrica ne ha inevitabilmente influenzato l’evoluzione. Ed analogamente, anche la crisi della scienza ha svolto un ruolo fondamentale nel dibattito relativo a cosa debba intendersi con il concetto di infermità mentale. Abbandonata la convinzione che la scienza sia connotata da infallibilità e paragonabile a verità assoluta, viene così a mancare quel sicuro punto di riferimento a cui era solito rivolgersi il giudice al fine di trovare ausilio in tema di vizio di mente. Oggigiorno, pertanto, le incertezze scientifiche si riverberano nel processo penale quando l’interrogativo è capire se un soggetto era capace di intendere e di volere al momento in cui ha commesso una fattispecie di reato. Tanto la crisi si è fatta sentire, tanto da trasformarsi in vera e propria crisi dell’imputabilità, al punto da far sollevare voci in merito alla possibilità di eliminarne dal nostro codice il concetto stesso. Proposte inaccettabili considerata in primis la valenza costituzionale dell’imputabilità (come presupposto della colpevolezza) ed, in secundiis, il contrasto con i principi di tassatività e determinatezza. In questo quadro, alcuni neuroscienziati propongono, quale strumento per sopperire alle lacune ed ai limiti delle metodologie tradizionali in tema di perizia psichiatrica, l’utilizzo delle recenti tecniche di neuroimaging. Trattasi di un gruppo di discipline scientifiche che studia il funzionamento del cervello e del sistema nervoso; vengono analizzati la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta il pensiero stesso, mediante l’utilizzo di strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule, reti nervose. Queste nuove metodologie hanno permesso ai neurologi di giungere a scoperte che, da alcuni punti di vista non possono non dirsi davvero interessanti (e per certi versi anche sensazionali): si pensi alla correlazione tra comportamento aggressivo e geni o alla possibilità di prevedere le scelte che il paziente farà grazie all’osservazione del funzionamento dei suoi neuroni. Non con altrettanto entusiasmo, però, i giuristi hanno accolto le neuroscienze come nuove alleate nella risoluzione delle difficoltà interpretative legate al concetto di vizio di mente e, quindi, di imputabilità. Tutt’altro. Si può affermare che l’opinione dominante serba un atteggiamento diffidente ed alle volte anche di totale rigetto di queste nuove tecnologie. La motivazione risiede nella paura che le nuove scoperte, se amplificate e portate agli estremi, possano cancellare il principio del libero arbitrio dell’uomo, possano portare all’assurdo di considerare gli uomini come tutti inimputabili perché dominati dal cervello ed incapaci, quindi, di autodeterminarsi nel mondo esterno. Come sempre, il punto di vista più corretto per valutare gli effetti e le conseguenze di una novità è quello che non si arrocca agli estremi, bensì prende le medesime distanze dagli stessi. Così come nei confronti delle neuroscienze: nessuna rivoluzione copernicana, l’uomo resta sempre l’essere libero e capace di muoversi tra motivi antagonistici operando delle scelte consapevoli, senza essere dominato dal suo sistema nervoso. Le tecniche di neuroimaging, però, e questo non lo si può e non lo si deve negare, apportano un grande ausilio nella redazione della perizia psichiatrica. La complessità e particolarità dei nuovi test introdotti permette di avere una visione più completa e più attendibile sulle condizioni mentali dell’individuo. Se accostate ai metodi tradizionali, il giudice dalle stesse potrà fruire, in fine, di una perizia più attendibile e completa, giovandosene così in sede di decisione e successiva motivazione.
XXIV Ciclo
1982
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
11

Fantuzzi, Federica Romana. "La famiglia nel diritto penale: un concetto unitario?" Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2648.

Full text
Abstract:
2006/2007
L’attuale e molto sentito problema delle sempre crescenti violenze in ambito familiare, con il conseguente aumento delle pronunce giurisprudenziali sul tema, nonché la crisi dell’istituto familiare in sé, ha comportato, negli ultimi anni, che particolare attenzione sia stata dedicata ai reati contro la famiglia. L’importanza dell’istituto familiare e della sua funzione all’interno della società ne aveva suggerito, sin da principio, la tutela anche in sede penale, sicché è stato inserito, nel Codice Rocco, il Titolo XI, che si prefigge lo scopo di tutelare la famiglia da tutte le forme di aggressione che possano provenire, sia dall’esterno, sia, in quelle ipotesi caratterizzate da un maggior disvalore, dagli stessi membri del medesimo aggregato familiare, riservando una particolare attenzione alla tutela dei minori. Ad ogni buon conto, non ci si può esimere dall’osservare che la rilevanza del legame parentale travalica gli angusti confini del Titolo del Codice penale dedicato ai delitti contro la famiglia, rinvenendosi sparse, in più parti, numerose altre fattispecie delittuose all’interno delle quali è possibile ravvisare conseguenze discendenti dall’esistenza di un legame parentale intercorrente tra il soggetto attivo del reato e quello passivo, vuoi ai fini della stessa sussistenza del fatto tipico, vuoi per la determinazione della pena, potendo persino, in casi dettagliatamente individuati e circoscritti, la sussistenza di un legame familiare comportare la non punibilità di alcune ipotesi criminose. Scopo precipuo dell’opera si ravvisa, da un canto, nella ricerca e nella individuazione di una definizione di famiglia penalmente rilevante, la quale non può essere mutuata, sic et simpliciter, dal diritto civile, all’interno del quale non è possibile rinvenire, a ben vedere, un concetto II unitario e, da altro canto, nella identificazione dei rapporti familiari che assumono rilievo nel sistema delineato dal Codice Rocco. Come si avrà modo di osservare, pur tuttavia, non pare possibile, così come del resto accade nel diritto civile, trovare un concetto unitario di famiglia, atteso che il Codice penale, ci sia concesso, non senza discriminazioni che siano giustificate da un adeguata differenza di situazioni concrete, attribuisce rilevanza, a volte, a determinati tipi di rapporti e, altre volte, a diverse relazioni familiari. Attraverso l’analisi delle singole fattispecie, che in una certa qual misura richiamano l’esistenza di un vincolo parentale, si tenterà di trovare un denominatore comune, il quale funga, per il giurista, da guida nella interpretazione e nelle esegesi delle disposizioni codicistiche. Le difficoltà riscontrate, non solo in campo penale, ma in tutte le branche del diritto, nella identificazione di un concetto unico e durevole di famiglia discendono, sine dubio, dalla variegata realtà sociale, ove il consorzio familiare può assumere sfumature sempre diverse, nonché dal mutato assetto politico sociale del Paese, che, parallelamente al continuo evolversi della società, comporta una costante trasformazione di quello che si intende per nucleo familiare, un tempo identificato con la famiglia tradizionale, quand’anche allargata ai figli naturali equiparati ai figli legittimi, e oggi esteso finanche alla famiglia di fatto e alla stessa sola convivenza. L’innegabile esistenza di tale ultima realtà non permette di trascurare la sua rilevanza nelle singole fattispecie penali, onde verificare in quali casi e con quali limiti questa possa essere equiparata alla famiglia legittima. Nella parte finale dell’elaborato ci si è, da ultimo, soffermati sull’allarmante e sempre più diffuso fenomeno della violenza in famiglia e sulla necessità sempre più pressante dell’introduzione, da un lato, di norme appositamente atte a disciplinare tali soprusi e, d’altro, di un III adeguato, effettivo ed efficace sistema di prevenzione e di repressione, in grado di offrire una reale protezione ai soggetti più deboli, quali donne e minori, che elimini o, quanto meno, riduca il pericolo di sopraffazione nei loro confronti.
XX Ciclo
1979
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
12

Bellina, Matteo. "L'immigrato 'nemico'. La detenzione amministrattiva dello straniero." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2650.

Full text
Abstract:
2006/2007
1. Con la locuzione “detenzione amministrativa dello straniero” si fa riferimento alla misura prevista dall’art. 14, comma 1, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (c.d. Legge Turco- Napolitano), così come modificato dalla recente Legge 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo (c.d. Legge Bossi-Fini), ai sensi del quale «quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione [dello straniero] mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica». Si tratta di un istituto dal ‘tasso di gradimento’ estremamente basso. Frettolosamente disciplinato dal legislatore, mai sottoposto ad un vaglio critico profondo da parte della giurisprudenza (in particolare da quella costituzionale), quasi ignorato dalla dottrina. Il discorso, ad onor del vero, non riguarda solo l’istituto de quo, ma è estendibile all’intero diritto dell’immigrazione, una‘provinciale’ del nostro ordinamento, che non ‘fa gola’ ad alcuna categoria di studiosi. Vero è che si tratta di un diritto ‘giovane’, costantemente in fieri (anche per sua natura). Materia ‘liquida’, Difficile da affrontare, perché inadattabile alle categorie consolidate. Manca, in primo luogo, l’aiuto ‘tranquillizzante’ dei dogmi; manca poi una chiara delimitazione ‘di campo’; mancano, infine, nomi esatti, precisi (L’istituto in esame è privo di uno specifico nomen iuris). Nonostante la tendenza degli operatori del diritto a relegare l’istituto nel dimenticatoio, la sua attualità è evidente, precipitato dalla decisività dello stesso sul piano politico e sociale: nella oramai passata legislatura una campagna a favore del superamento della detenzione amministrativa dello straniero era stata avviata e condotta sino ad un punto rilevante. Di riverbero il dibattito politico sui temi dell’immigrazione e sui contenuti di una nuova legge di riforma si era fatto fervente. La campagna elettorale in corso sta dimostrando ancora una volta come il tema dell’immigrazione, in quanto correlato (a dire il vero più nella retorica populistica del politica che nella realtà dei fatti) a quello della sicurezza, giochi un ruolo strategico. 2. Lo studio è diviso in due parti: la prima parte (profili istituzionali e costituzionali) è caratterizzata da un’impostazione tradizionale incentrandosi, principalmente, sul diritto positivo e sui suoi riflessi costituzionali. Nella seconda parte (profili politico-criminali) si è tentato l’inquadramento dell’istituto nei paradigmi (dottrinali) della ‘differenziazione’, vale a dire in quei modelli (talvolta descrittivi, talaltra prescrittivi e normativi) con i quali si da atto dell’esistenza di ‘regimi’ penali speciali, poco garantiti e di spiccato rigore, riservati a determinate categorie di soggetti. Su tutti l’oramai celebre «diritto penale del nemico». Nel caso di specie è l’immigrato, questa la tesi, ad essere percepito e trattato da nemico. Nella prima parte l’istituto viene studiato per quello che ‘è’ (piano onticodescrittivo ), e per quello che ‘dovrebbe essere’ (piano deontico-prescrittivo). Nella seconda parte per ciò che esso ‘svela’ (piano comunicativo). 3. La prima parte si apre necessariamente (come tradizione esige) con una introduzione nella quale si è delimitato l’oggetto dell’indagine e si è altresì cercato di chiarire il significato del bagaglio terminologico utilizzato in tutto lo scritto. Un tanto premesso si è proceduto ad un’analisi sistematica, alla ricerca nella legislazione vigente di istituti che presentino caratteri analoghi od omologhi a quelli dell’istituto de quo. Successivamente si è passati allo studio dell’istituto nella sua dimensione storica, partendo da un inquadramento della disciplina italiana dell’immigrazione nelle sue principali linee evolutive, soffermandosi in particolare sul passaggio da una legislazione frammentaria ad una legislazione organica avvenuto tra il 1998 ed il 2002. Si è andati così, à rebours, alla ricerca dei ‘possibili’ precedenti, in qualche modo dei ‘progenitori’, dell’istituto. Entrando, per così dire, nell’oggetto materiale della riflessione per porlo in una dimensione concreta, in the facts, si è passati ad illustrare la disciplina positiva dell’istituto come contenuta originariamente nel D.Lgs. n. 286 del 1998, come successivamente modificata dalla Legge n. 289 del 2002 e come infine risultante dagli interventi interpretativi e correttivi della giurisprudenza costituzionale. Successivamente si è cercato di dimostrare che, contrariamente alle ‘etichette’ legali, la misura ha una natura sostanzialmente penale, vuoi perchè incide sulla libertà personale del soggetto e vuoi perché crea attorno allo stresso uno stigma. Si è poi esaminato il Centro di Permanenza Temporanea, il luogo in cui la misura trova esecuzione, confrontandolo con la struttura penitenziaria tradizionale e, soprattutto, con quelle che Erving Goffmann chiama istituzioni totali, un tanto al fine di far emergere la sostanziale coincidenza della misura de qua con le ‘tradizionali’ detenzioni carcerarie. Il ‘nucleo forte’, ma anche il più delicato, della ricerca è senz’altro rappresentato dalla riflessione circa la compatibilità dell’istituto con i principi costituzionali. Relativamente a tale momento si è suddivisa la riflessione in due momenti sulla scorta del modello fatto proprio da un illustre Maestro quale Franco Bricola, più di trent’anni or sono, in una celebre relazione avente ad oggetto le misure di prevenzione, forme di tutela ante delictum le quali presentano, in aggiunta, rilevanti analogie con l’istituto qui in esame. Così in un primo momento si è dato per ammesso, in linea di ipotesi e sulla scorta dell’orientamento della Corte Costituzionale, prevalente anche in dottrina, che la detenzione amministrativa in generale e, in particolare, quella forma di detenzione amministrativa rappresentata dal trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed accoglienza sia, alla radice, costituzionalmente legittima: si sono così esaminati i singoli profili di attrito con i principi costituzionali della disciplina positiva della misura. In un secondo momento si è affrontato, per così dire, ‘alla radice’, il problema dell’ammissibilità costituzionale di forme di detenzione amministrativa e dei limiti entro i quali, eventualmente, queste possano concretamente trovare residenza nel nostro ordinamento. 4. Dall’analisi costituzionale si è tratto il ‘materiale grezzo’ dal quale è poi mossa la riflessione politico-criminale che connota la seconda parte della ricerca. Il ‘modelli differenziati’ si caratterizzano infatti per un allontanamento (non solo formale, ma anche e soprattutto) sostanziale dai principi costituzionali in tema di reato e di libertà personale. Si è cercato di dar conto dell’esistenza nel sistema penale italiano (ma il discorso potrebbe valere anche per altri ordinamenti occidentali) di un altro diritto penale, caratterizzato dalla presenza di elementi di spiccata eterogeneità rispetto modello garantistailluministico- liberale. Successivamente si è passato in rassegna alcune categorie dottrinali (perlopiù) descrittive (ma, almeno in un caso, anche prescrittive) del modello differenziato: in particolare ci si è soffermati sui c.d. sotto-sistemi penali come elaborati da Luigi Ferrajoli, nonché, in specie, sul già citato diritto penale del nemico, teorizzato da Günter Jakobs. Infine si è allargato il campo d’indagine, prima ai rapporti tra la differenziazione e le teorie della giustizia, muovendo da quei «paradigmi delle ingiustizie» magistralmente descritti da Federico Stella, in uno dei suoi ultimi scritti, poi agli studi criminologici in particolare con un breve excursus nel pensiero di David Garland. Lo studio attorno al diritto penale differenziato ed in particolare alla categoria nemico nell’ordinamento in genere e nel diritto penale in particolare è oggigiorno al centro di un ampio e trasversale dibattito. La letteratura formatasi sul punto ha in più occasioni affermato l’appartenenza della legislazione sull’immigrazione, in particolare di quella penale, a tali modelli differenziati. Ma l’attenzione della dottrina si è solo sporadicamente soffermata sulla detenzione amministrativa, interessata, più spesso, alle fattispecie penali finalizzate al contrasto dell’immigrazione clandestina. Invero la detenzione amministrativa, anche per il suo forte significato simbolico, manifesta, forse ancor più delle norme incriminatrici, la tendenza del nostro ordinamento alla realizzazione di un doppio binario, incentrato sulla dialettica amico/nemico. In conclusione le prospettive de lege ferenda: in questa sede solo si anticipa l’adozione di un punto di vista ‘forte’, che non ammette compromessi laddove sono in gioco libertà fondamentali quali la libertà personale. I ‘diritti di libertà’ sono, per gli ordinamenti non meno che per i filosofi, un valore, non quindi un istituto giuridico. Il rifiuto di ogni approccio ‘debole’, tendente al bilanciamento tra beni ed interessi così disomogenei da non poter trovare posto entrambi su una stessa bilancia, diviene così, la pregiudiziale (ideologica), la petitio principii, delle conclusioni tratte e, in qualche modo, la chiave di lettura dell’intero lavoro.
XX Ciclo
1980
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
13

Stabile, Riccardo. "La confisca nel diritto penale e nel sistema di responsabilità da reato degli enti." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7434.

Full text
Abstract:
2010/2011
Il modello di ablazione patrimoniale predisposto dal legislatore del Codice penale – identificato nella misura di sicurezza ex art. 240 c.p. ed imperniato sulla discussa nozione di pericolosità reale, intesa come probabilità che la res confiscanda, ove lasciata nel possesso del soggetto autore del reato-presupposto, fornisca incentivo per la perpetrazione di ulteriore attività criminale – mostra una notevole “persistenza” nell’ambito sia delle principali figure speciali di confisca, che nella peculiare ipotesi ablativa “antimafia” di cui all’art. 12-sexies l. n. 356 del 1992, che pure da esso significativamente divergono per struttura, modalità operative e finalità perseguite. Il segnale più evidente della vis attrattiva esercitata dall’archetipo codicistico è costituito dall’affievolito statuto garantistico che la prassi riconosce alle richiamate figure ablative ed, in particolare, dall’applicazione della disciplina contenuta all’art 200 c.p., che ammette l’operatività retroattiva delle misure di sicurezza. Per converso, l’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità e costituzionale consente di registrare l’emersione di un alternativo paradigma, nella misura in cui, movendo dall’adozione di un approccio sostanzialistico al tema della natura giuridica dei rimedi sanzionatori (evidentemente ispirato dalle elaborazioni giurisprudenziali della Corte EDU), si è riconosciuto, in determinate ipotesi di confisca (e, in primis, nella c.d. confisca per equivalente), un carattere eminentemente punitivo, portando a recidere ogni residuo legame formale e funzionale con la misura di sicurezza ex art. 240 c.p. A simile “agnizione”, tuttavia, non sempre consegue una compiuta applicazione del corredo garantistico proprio della pena in senso stretto: se, da un lato, la prassi è ormai consolidata nell’estendere alla confisca-pena il principio di legalità, nei suoi corollari di tassatività ed irretroattività, affiorano, d’altro lato, significativi profili di tensione rispetto alle garanzie inscritte all’art. 27 Cost. (personalità-colpevolezza e proporzione). A conferma del segnalato “mutamento di paradigma”, si pone, infine, la confisca prevista nell’ambito del sistema di responsabilità da reato degli enti, in cui, da un canto, lo smarcamento dalle cadenze spiccatamente preventive della misura di sicurezza è testimoniato dalla sua collocazione a pieno titolo nel novero delle sanzioni principali a carico della persona giuridica; dall’altro, il ruolo essenziale ma “complementare” – consistente nell’azzeramento dei benefici economici effettivamente percepiti dall’ente responsabile per mezzo dell’attività criminosa, in chiave di riequilibrio dell’ordine economico violato – affidatole nel contesto del complessivo apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 231 del 2001, dovrebbe impedire che essa assuma un surplus di afflittività, tale da trasformarla in una inedita “pena patrimoniale”, incompatibile con i principi costituzionali. In attesa che il legislatore intervenga a razionalizzare la quanto mai frammentaria e disorganica disciplina dell’ablazione patrimoniale, e pur nella consapevolezza della natura proteiforme – e quindi difficilmente riconducibile ad una matrice unitaria – che tale istituto da sempre possiede, si reputa nondimeno che già per via ermeneutica si possa addivenire ad un rovesciamento dell’impostazione finora invalsa in relazione alla natura giuridica della confisca: non più una misura preventiva, che solo in termini di stretta eccezione assume un volto marcatamente afflittivo, ma una misura schiettamente punitiva (una pena sui generis) – con tutto ciò che ne deriva in termini di garanzie applicabili – dalla quale si distinguono singoli (ormai esigui) casi, in cui la confisca è ancora sostanzialmente riconducibile all’originario modello codicistico.
XXIII Ciclo
1982
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
14

Buciol, Ruggero. "Impresa mafiosa ed economia legale: dal concorrente esterno al riciclaggio." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/10998.

Full text
Abstract:
2013/2014
La presente trattazione intende affrontare l’attuale e drammatico fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nell’economica legale. La prospettiva scelta ha preso in considerazione, in particolare, due istituti che sono stati ritenuti significativi in questo contesto: il concorso esterno in associazione mafiosa ed il riciclaggio. In particolare, l’analisi comincia da una doverosa esposizione della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. Il reato in questione, infatti, risulta essere stato elaborato dal legislatore in un’ottica tesa a valorizzare una precisa dimensione dell’associazione di stampo mafioso: la dimensione economica. Da questo punto di vista l’attenzione deve essere posta sul terzo comma dell’art. 416 bis c.p. Quest’ultimo, nell’individuare le diverse finalità che costituiscono l’obiettivo del programma criminoso dell’associazione mafiosa, descrive quella di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti»: trattasi della c.d. finalità di monopolio. In relazione a questo obiettivo, la mafia, avvalendosi del c.d. metodo mafioso caratterizzato, essenzialmente, da violenze ed intimidazioni, intende conquistare il dominio delle attività economiche ed attraverso ciò spazi sempre maggiori di potere reale. Il risultato finale di queste condotte è la lesione dell’ordine pubblico in particolare quello economico. Lo strumento che è stato elaborato dalle associazioni mafiose per realizzare questo disegno criminoso è l’impresa mafiosa. L’impresa mafiosa gode rispetto alle altre imprese (non mafiose) di una superiorità economica che deriva da un triplice ordine di fattori: 1) crea, attraverso il metodo mafioso, un “ombrello protezionistico” nel mercato di riferimento che le consente di eliminare la concorrenza; 2) ha un costo del lavoro inferiore; 3) ha una maggiore solidità finanziaria che deriva, principalmente, dagli introiti che giungono dall’esercizio di attività illecite. Nel corso degli anni l’impresa mafiosa ha subito un’evoluzione. Le prime imprese mafiose sono state costituite (o acquisite) per iniziativa di un’organizzazione criminale che spendeva all’esterno il suo nome. Successivamente si è passati ad un’altra tipologia di impresa, quella di c.d. proprietà del mafioso, in cui l’associazione criminale, pur conservando la proprietà sostanziale dell’impresa, non risulta la titolare formale della stessa. Ultimo stadio di evoluzione ha visto nascere la c.d. “società ad infiltrazione mafiosa” dove alla presenza mafiosa si è unita quella di un imprenditore che, pur estraneo all’organizzazione criminale, instaura con questa rapporti stabili di cointeressenza e ne accetta i “servizi”. Attraverso l’impresa mafiosa l’associazione raggiunge un duplice risultato: si inserisce nella società sviluppando rapporti con i ceti imprenditoriali e le classi dirigenti; ricicla il denaro di provenienza illecita e lo investe in attività economiche. Con riguardo al primo profilo l’analisi prosegue partendo dalla considerazione che la delinquenza mafiosa, come si evince proprio dall’impresa mafiosa, è caratterizzata al centro da una struttura organizzata ed attorno da un alone grigio dove si collocano soggetti che, in un modo o nell’altro, con l’associazione entrano in relazione. Si tratta di un’area grigia all’interno della quale non è facile comprendere se una condotta può dirsi illecita oppure lecita e nel primo caso in quale figura delittuosa essa è sussumibile. Pertanto, prima di tutto, è stato individuato il limite dell’area penalmente rilevante nei rapporti la mafia e l’imprenditore. Sul punto si è assistito ad una evoluzione giurisprudenziale tesa a distinguere l’imprenditore vittima da quello colluso con la mafia. In un primo momento è stato considerato vittima quell’imprenditore che, operante in aree ad alta infiltrazione mafiosa, non ha altra scelta che stipulare un patto con la mafia se intende svolgere la sua attività d’impresa. Secondo un successivo orientamento giurisprudenziale l’imprenditore vittima è stato individuato in quello che versava in una situazione di “ineluttabile coartazione” nei confronti dell’associazione mafiosa. Questa situazione andava dedotta, in particolare, dalla circostanza che fosse stato l’imprenditore a rivolgersi per primo all’associazione mafiosa e non viceversa. Infine, si è giunti alla definitiva affermazione che ritiene colluso l’imprenditore che con la mafia stipula un patto dal quale consegue un ingiusto vantaggio. Viceversa, se dal patto deriva un danno ingiusto allora l’imprenditore sarà vittima. Distinto l’imprenditore vittima da quello colluso l’analisi prosegue nella individuazione del modo in cui la collusione potrà manifestarsi. In questa prospettiva, l’imprenditore colluso potrà essere un vero e proprio affiliato all’associazione mafiosa ovvero stabilire con la consorteria criminale un rapporto sussumibile nella figura del concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Nella prima prospettiva, per l’individuazione della figura del partecipe, si sono alternati, in particolare, tre orientamenti giurisprudenziali. Il primo individuava il partecipe in colui che offriva un contributo causalmente rilevante nella vita dell’associazione (modello causale). Il secondo qualificava il partecipe in colui che si è organicamente inserito all’interno dell’associazione (modello organizzatorio). Il terzo, e definitivo, ha ritenuto di accompagnare un accertamento del contributo causalmente rilevante per il rafforzamento dell’associazione alla prova dell’inserimento del soggetto nella struttura organizzativa. Ferma, in ogni caso sotto il profilo soggettivo, la necessità dell’affectio societatis: la consapevolezza e volontà del partecipe di far parte del sodalizio mafioso e di contribuire al raggiungimento degli scopi dell’associazione. Altro ruolo che può ricoprire l’imprenditore è quello di concorrente esterno nel reato associativo. Questa fattispecie incriminatrice è stata il risultato di quattro decisioni della Cassazione a Sezioni Unite che, in un modo o nell’altro, hanno sciolto tutti i dubbi di ammissibilità del concorso esterno nell’ambito del nostro sistema penale. Queste perplessità avevano riguardato molti aspetti tra i quali: la possibilità che l’esterno ponga in essere un contributo materiale; l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio dell’esterno; la sovrapponibilità dell’elemento psicologico dell’esterno con quello del partecipe; la possibilità di un contributo esterno ad un reato permanente; l’esistenza di uno spazio operativo della fattispecie in un settore dove sono presenti i reati di cui agli artt. 378, 418, 416 ter c.p. e l’aggravante dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152. Ulteriore sforzo ermeneutico ha riguardato i criteri di distinzione dell’intraneo dall’estraneo. In questo contesto la prima posizione individuava l’esterno in colui che, a differenza del partecipe, prestava il proprio contributo solo in una fase patologica della vita associativa. Successivamente, superate altre posizioni che facevano riferimento alla destinazione del contributo o alla sua natura, si è giunti alla necessità di operare un confronto tra le regole interne del sodalizio e, in relazione a queste ultime, verificare se il soggetto vi faccia parte o meno. Le sentenze hanno anche affrontato il tema della natura tipica del contributo e del nesso eziologico che lo unisce all’associazione. In questo contesto la presa di posizione finale ha ritenuto rilevante quel contributo atipico che, attraverso un giudizio controfattuale ex post, facilita o agevola la verificazione dell’evento. Quest’ultimo non consiste in un evento indispensabile per il mantenimento “in vita dell’associazione” ma, viceversa, è tale da conservare o rafforzare l’associazione nel suo complesso. Questo effetto finale può aver luogo tanto se direttamente cagionato dalla condotta dell’estraneo quanto se opera attraverso l’”intermediazione” delle condotte dei soggetti intranei. Per quanto concerne, infine, l’elemento soggettivo, le sentenze delle Sezioni Unite, ad una prima posizione che lo qualificava come dolo generico, si sono assestate in una definitiva qualificazione imperniata sul dolo diretto parziale: con il contributo l’estraneo persegue l’obiettivo di realizzare una parte del programma criminoso associativo. Tutte le conclusioni delle decisioni delle Sezioni Unite non sono state messe in discussione dalla decisione della Suprema Corte pronunciata all’esito del famoso e recente processo in tema di concorso esterno nell’ambito dei rapporti mafia-imprenditori ossia quello che vedeva come imputato Dell’Utri. Da ultimo, il metodo probatorio da applicare alle figure sostanziali dell’imprenditore partecipe o concorrente esterno ed, in particolare, all’accertamento del nesso eziologico, risulta caratterizzato dal ricorso alle massime d’esperienza quali regole di valenza dimostrativa riconosciuta a livello generale e non frutto di mere intuizioni personali del giudice. Un ulteriore ipotesi di “incontro” tra la mafia ed il mondo delle imprese può avvenire nell’ambito della responsabilità da reato degli enti. Tuttavia, in quest’ultimo ambito, la struttura del d.lgs. n. 231 del 2001 appare inadeguata nel caso in cui il reato presupposto ha natura permanente come l’art. 416 bis c.p. A questo punto l’analisi procede trattando l’altro obiettivo che la mafia persegue attraverso lo strumento dell’impresa mafiosa: il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita ed il successivo investimento in attività anche lecite. Il risultato di questa strategia consente alla mafia di conseguire il risultato economico delle attività illecite compiute, determinando, tuttavia, l’inquinamento dell’economia legale e la lesione dell’ordine economico. Il sistema repressivo elaborato dal legislatore per contrastare il fenomeno criminoso del riciclaggio è costruito su più fattispecie incriminatrici. Rilevano in questo contesto l’art. 648 bis c.p. che punisce la fase di pulitura del denaro “sporco”; l’art. 648 ter c.p. che incrimina la successiva fase di impiego delle risorse economiche “lavate”; l’art. 12 quinquies comma 1, d.l. 8 giugno 1992 che reprime una particolare condotta diretta al compimento del riciclaggio o dell’impiego illecito. Il rapporto tra tutte queste fattispecie incriminatrici ed il reato di associazione di stampo mafioso il quale, a sua volta, prevede, nel comma sesto dell’art. 416 bis c.p., una circostanza aggravante che concerne il riciclaggio dei proventi delittuosi, ha determinato una recente intervento della Cassazione a Sezioni Unite che, da un lato, ha risolto conflitti interpretativi sorti sul punto, dall’altro, ha accertato l’idoneità dell’associazione mafiosa, nella sua natura imprenditoriale, di essere fonte di proventi illeciti. Da ultimo, la sostenuta insufficienza del sistema repressivo descritto ad arginare l’inquinamento mafioso dell’economia legale ha, recentemente, spinto il legislatore, anche a seguito di sollecitazioni sovranazionali, ad introdurre il nuovo reato di autoriciclaggio.
XXVII Ciclo
1986
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
15

Carboni, Luca. "Profili problematici del dolo eventuale tra diritto e processo penale." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2015. http://hdl.handle.net/10077/10999.

Full text
Abstract:
2013/2014
Il tema del dolo eventuale è un tema di confini. Il confine tra il punire e il non punire; o tra cornici edittali molto diverse tra loro. Ciò perché, da sempre, la distinzione tra dolo e colpa ha una rilevanza fondamentale nel diritto penale. Il motivo principale di tale differenziazione è legato al diverso grado di colpevolezza manifestato da chi agisce con dolo e chi lo fa con colpa. Nonostante ciò, con l’avvento della società del rischio, i confini del dolo sono stati dilatati: se, una volta, il campo di elezione di tale istituto era quello dei rapinatori che sparavano ai loro inseguitori, oggi, invece, probabilmente è quello della circolazione stradale. Non solo. Si pensi alle applicazioni all’attività medica o agli infortuni sul lavoro: territori che, una volta, erano colonizzati dalla colpa, hanno finito per essere anch’essi invasi dal dolo, pur nella sua forma eventuale. Questo fenomeno trova la sua origine in esigenze generalpreventive che, però, finiscono per porsi in contrasto proprio con il principio di colpevolezza, prescindendo da una reale indagine sulla volontà. D’altra parte, «La storia del dolo è un continuo attacco alla sua dimensione soggettiva e più genuinamente psicologica», come ci dimostrano figure quali il dolus indirectus, tramite cui non solo il dolo veniva esteso, ma ne veniva anche semplificata la prova. Il dolo eventuale si sviluppa proprio da questo concetto: tuttavia, lo fa allo scopo preciso di recuperare il momento volitivo del dolo, con funzione, quindi, di garanzia. Per quanto riguarda l’oggi, l’indagine non può che partire dal dato normativo, che ci fornisce questo, fondamentale, punto di partenza: il dolo è essenzialmente volontà dell’evento. E ciò deve valere anche per il dolo eventuale. La volontà, ovviamente, non può prescindere da una piena rappresentazione: senza di essa, sarebbe cieca. Inoltre, è un concetto più ampio di intenzione, come ci dimostra l’analisi dei lavori preparatori al Codice. Dati questi presupposti, si deve ricordare che, per molti anni, la tesi prevalente in Italia per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente è stata quella dell’accettazione del rischio, così come elaborata da Gallo. Riassumendo brevemente il pensiero dell’autore, si avrebbe colpa cosciente quando il soggetto agente, dopo aver previsto l’evento, si risolva ad agire comunque perché convinto che, grazie alla propria abilità, l’evento non si verificherà; diversamente, si avrebbe dolo eventuale quando l’agente, dopo aver previsto l’evento, agisca ugualmente, accettando il rischio della sua verificazione. Alla base dell’elaborazione di tale criterio distintivo vi è l’idea secondo cui agire accettando il rischio di un evento equivale a volerlo; e suo corollario è che il semplice dubbio, non avendo inibito l’evento, viene considerato sufficiente a integrare il dolo. La teoria in esame, però, manifesta diversi punti deboli, specie nella parte in cui si deve affrontare la distinzione tra colpa incosciente e colpa cosciente. Quest’ultima è espressamente disciplinata dall’art. 61, n. 3, c.p., che prevede l’applicazione di una circostanza aggravante nel caso in cui il soggetto abbia «agito nonostante la previsione dell’evento». La lettera della legge sembra dunque richiedere, da parte dell’agente, non la contro-previsione dell’evento, quanto piuttosto una rappresentazione attuale dello stesso al momento della condotta. Ci si chiede, inoltre, se sia compatibile con il principio di colpevolezza punire di più chi si sia risolto ad agire perché convinto, pur erroneamente, che l’evento non si verificherà, rispetto a chi non si sia nemmeno fermato a riflettere sulle possibili conseguenze della propria condotta. Un ulteriore problema dato dalla teoria dell’accettazione del rischio è di carattere processuale, e riguarda l’eccessiva elasticità, se non genericità, della stessa. Tramite l’espressione accettazione del rischio, infatti, la giurisprudenza ha avuto a disposizione uno strumento particolarmente flessibile, con cui ha sempre potuto sostenere la soluzione che appariva più consona al caso concreto, non solo e non tanto in base a valutazioni giuridiche, ma soprattutto di tipo etico-sociale. Le critiche alla teoria hanno iniziato a essere prese seriamente in considerazione solo quando l’ambito di applicazione del dolo eventuale si è esteso ai contesti a rischio lecito di base: questo fenomeno ha portato a una maggiore attenzione verso l’istituto e, grazie al lavoro degli interpreti, ci si è resi conto che la semplice consapevolezza del pericolo non può essere equiparata alla volontà dell’evento. Allo stesso modo, il dubbio non può ancora essere sufficiente a integrare il dolo. La giurisprudenza ‒ dalle Sezioni Unite relative al rapporto tra ricettazione e incauto acquisto, alle più recenti pronunce in tema di circolazione stradale ‒ pur continuando a prestare ossequio (formale?) alla teoria dell’accettazione del rischio, ha quindi iniziato a elaborare nuovi e diversi criteri, spesso combinandoli tra loro. Si va dal bilanciamento di interessi, alla c.d. prima formula di Frank, alla ragionevole speranza. Solo il primo, però, appare veramente utile, in quanto sembra l’unico in grado di esprimere il nucleo fondamentale del dolo: la scelta, in cui viene ponderato non il mero rischio, ma l’evento collaterale, che viene considerato il prezzo che si è disposti a pagare pur di raggiungere il proprio obiettivo. La formula di Frank, invece, fa riferimento a uno stato psichico ipotetico, che vuole indagare cosa sarebbe avvenuto in una situazione diversa da quella che si è concretamente verificata. Ma al diritto penale interessano i fatti per come si sono svolti, non cosa sarebbe avvenuto in una situazione diversa; inoltre, la formula porta in sé il rischio che si scada in un diritto penale d’autore. Tuttavia, se presa sul serio, la formula può essere utile a livello probatorio: essa, infatti, esprime la massima di esperienza secondo cui nessuno vuole un qualcosa che potrebbe costituire la frustrazione immediata e diretta del proprio obiettivo. Il criterio della speranza, poi, appare inaccettabile: il dolo non è desiderio o malanimo, ma volontà in azione; non è bramosia, ma l’attivarsi in vista di uno scopo. Quindi, così come la speranza non può integrare il dolo, allo stesso modo il desiderio che l’evento non si verifichi, in sé, non può escluderlo. Il criterio della speranza è stato utilizzato dalla giurisprudenza soprattutto in relazione a contesti familiari (contagio di HIV del coniuge; impedimento delle trasfusioni da parte dei genitori Testimoni di Geova alla figlia malata): come si vede, lo stesso ha trovato applicazione, essenzialmente, quando una condanna a titolo di dolo appariva eccessiva, alla luce del legame affettivo tra vittima e colpevole. Ciò detto, è anche vero che dalla lettura delle sentenze pronunciate nei casa appena richiamati sembra emergere una certa sovrapposizione tra speranza e mancata rappresentazione. Proprio questo aspetto rende particolarmente interessante uno spunto proposto dalla dottrina, secondo cui si deve fare attenzione a non confondere i due concetti. Infatti, qualora un soggetto sia convinto che un determinato evento non si verificherà, si dovrà concludere che egli versa in uno stato di errore: di conseguenza, l’evento non può essergli imputato a titolo di dolo. Quanto detto, si badi, vale indipendentemente dalla ragionevolezza del convincimento (o della speranza, che dir si voglia): un errore può ben essere dovuto a colpa; e non si devono confondere prevedibilità e previsione. Tuttavia, il parametro della ragionevolezza torna a rilevare a livello processuale, nel senso che non potrà essere sufficiente, per escludere il dolo eventuale, che il soggetto affermi che era convinto che l’evento non si sarebbe verificato, ma sarà necessario che tale convincimento sia coerente con quanto emerso nel corso dell’istruttoria. Come si vede, non si può prescindere da un’indagine sul tema della prova: il dolo eventuale vive nel processo. Ma come si fa a provare uno stato psichico? Non si può che svolgere un’analisi di tipo indiziario, partendo dalle circostanze del caso concreto. Per svolgere tale operazione inferenziale, si dovranno utilizzare delle massime di esperienza, di cui, nel corso del contraddittorio, si dovranno valutare attentamente l’affidabilità e l’adeguatezza rispetto a quella determinata vicenda. Quanto detto vale per tutte le massime di esperienza, e quindi anche per quella sottesa alla formula di Frank, di cui si è detto sopra. Chiarito ciò, si deve notare che, analizzando la giurisprudenza, è possibile ricostruire un elenco degli indicatori più frequentemente utilizzati: l’oggettivo grado di pericolosità della condotta tenuta dall’agente; le modalità dell’azione; la sua durata e il suo eventuale reiterarsi; gli antecedenti e gli eventuali presupposti della condotta, e in particolare l’adozione di cautele; il comportamento tenuto dall’agente successivamente all’evento; le precedenti esperienze e le eventuali conoscenze superiori del soggetto; il movente. L’elenco non può che essere indicativo e incompleto; ma, nonostante ciò, può fornire all’interprete una bussola per individuare il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Alla luce di quanto detto sinora, è finalmente possibile procedere all’analisi della vicenda ThyssenKrupp, che ha portato alla recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Le sentenze che si sono susseguite in questo processo appaiono particolarmente interessanti, poiché da essa traspaiono, in modo emblematico, tutte le problematiche su cui ci si è soffermati. L’espansione del dolo eventuale al fine di trovare uno strumento di tutela idoneo ad affrontare i rischi della modernità; l’utilizzo del criterio economico, della prima formula di Frank e della ragionevole speranza; il ruolo centrale assegnato al tema delle prova. Questi temi sono stati affrontati con impostazioni parzialmente diverse dalle varie decisioni e, alla fine, le Sezioni Unite hanno optato per la tesi della colpa cosciente. Secondo i giudici di legittimità, la teoria dell’accettazione del rischio, nella sua classica formulazione, deve essere superata, e il dolo eventuale deve essere inteso come una ponderazione di interessi ‒ che ha come presupposto una rappresentazione chiara e precisa dell’evento collaterale ‒ in cui si subordina un determinato bene giuridico a un altro. Inoltre, non potranno in ogni caso dirsi voluti gli eventi in grado di comportare conseguenze negative per l’agente, salvo casi particolari. Insomma, d’ora innanzi, si dovrà abbandonare la formula dell’accettazione del rischio: meglio parlare di “accettazione dell’evento”, al fine di meglio sottolineare il nesso psichico tra la volontà e quest’ultimo. La soluzione appare condivisibile, ma il percorso logico seguito dalla motivazione suscita comunque alcune perplessità. Si ritiene, infatti, che, da un lato, le Sezioni Unite non abbiano risposto in modo chiaro al quesito che era stato loro posto, cioè quale possa essere il ruolo della ragionevole speranza; da un altro, la tesi della colpa cosciente avrebbe potuto essere sostenuta, semplicemente, chiarendo che vi erano due indicatori quanto meno ambigui rispetto al dolo, da cui non poteva che emergere un ragionevole dubbio sulla sussistenza di tale stato psichico (la personalità particolarmente attenta e scrupolosa dell’amministratore delegato; le precedenti esperienze “fortunate”, che avevano impedito, fino a quella notte di dicembre del 2007, che un disastro si verificasse). Le Sezioni Unite, invece, continuano a far riferimento alla formula di Frank, pur riconoscendole un ruolo processuale, anche se non ci capisce bene quale esso sia: si tratta di uno strumento in base al quale valutare il materiale probatorio raccolto o di un indicatore? E, in questo secondo caso, qual è il suo rapporto con gli altri? La decisione, inoltre, sembra contraddittoria quando, dopo aver affermato che l’imputato era convinto che l’evento non si sarebbe verificato, ritiene sussistente la colpa cosciente. Quest’ultima, infatti, dovrebbe consistere in una previsione attuale, non in una contro-previsione. Le Sezioni Unite, però, decidono di seguire un percorso argomentativo completamente nuovo, dando una diversa conformazione anche a questo istituto: e lo fanno partendo da un presupposto molto chiaro, quello secondo cui quest’ultima non esprimerebbe uno status psichico contiguo al dolo eventuale, ma una forma radicalmente diversa di colpevolezza. Dolo e colpa vengono intesi come in un rapporto non di più a meno, bensì di aliud/aliud. Da ciò, i giudici di legittimità deducono che dolo eventuale e colpa cosciente non si distinguono solo per la volontà, ma già nell’ambito della previsione. Per il dolo questa deve essere “puntuale” e “chiara”: solo così la rappresentazione può essere presupposto di una vera e propria scelta. Per la colpa, invece, il concetto di previsione deve essere ricostruito non come possibile presupposto della volontà, ma alla luce del nesso necessario tra violazione della norma cautelare ed evento, poiché è questo il fulcro della colpevolezza colposa. Dunque, la previsione, nel reato colposo, non è altro che la conoscenza della connessione tra norma cautelare ed evento-tipo; ciò che conta, quindi, non è tanto la rappresentazione, ancora astratta, ancora sfumata, dell’evento, quanto la conoscenza di questo possibile nesso. La novità della soluzione non ci può far che constatare che, se a seguito di questo importante arresto giurisprudenziale i contorni del dolo eventuale sembrano più nitidi, per l’esatta individuazione dei confini della colpa cosciente, invece, il cammino sembra essere appena cominciato. Ciò detto, un tema ulteriore che merita di essere affrontato è quello dell’incompatibilità del dolo eventuale con alcune fattispecie penali: prima fra tutte, il tentativo. Si ritiene, infatti, che non tanto la non equivocità, quanto piuttosto la direzione degli atti sia ontologicamente inconciliabile con il concetto di dolo eventuale. Il perché è presto spiegato: se il tentativo fosse punibile anche a titolo di dolo eventuale, si finirebbe per dilatare eccessivamente l’anticipazione della tutela penale; e il ragionamento potrebbe ripetersi anche per altre fattispecie, come il disastro innominato. Vi sono poi reati che non possono essere puniti a titolo di dolo eventuale per espressa volontà del legislatore: si pensi all’abuso d’ufficio o alla detenzione di materiale pedopornografico, dove l’utilizzo degli avverbi “intenzionalmente” e “consapevolmente” ha proprio la funzione di escludere la rilevanza di tale stato psichico. Da qui si comprende come le diverse forme di dolo possono essere utilizzate dal legislatore per la costruzione della fattispecie tipica: il dolo eventuale, dunque, rileva anche in relazione ai principi di tipicità, frammentarietà e, tramite essi, di offensività. Pur avendo una matrice comune col dolo eventuale, sono poi logicamente incompatibili con lo stesso tutte le fattispecie, lato sensu, preterintenzionali. Queste ultime meritano particolare attenzione, poiché ‒ senza che sia necessario forzare, inopinatamente, il dolo eventuale ‒ possono costituire uno strumento idoneo proprio per affrontare i rischi della modernità. Concludendo con uno sguardo alle proposte di riforma in tema di dolo eventuale, si deve rilevare che queste sono molteplici. Si va dalla possibilità di definire per via legislativa l’istituto, a quella di introdurre nuove forme di responsabilità per sconsideratezza, assimilabili alla recklessness del diritto anglosassone; dall’ipotesi di prevedere fattispecie tipiche ad hoc (come l’omicidio stradale), a quella di intervenire sul sistema delle circostanze per adeguare il trattamento sanzionatorio. Alcune di queste proposte possono portare dei vantaggi, ma nessuna di esse sembra in grado, da sola, di risolvere il vero problema: quello di un preoccupante aumento delle condotte sconsiderate in contesti a rischio consentito. È infatti questa la ragione che ha portato a un’indebita espansione della categoria del dolo eventuale, assieme alle legittime e sempre più pressanti richieste di tutela da parte delle vittime, a cui è corrisposto un atteggiamento eccessivamente rigoroso ma, almeno per certi aspetti, comunque comprensibile da parte della giurisprudenza. Certo, è fisiologico che ad una società sempre più complessa non possa che corrispondere, necessariamente, un aumento delle fattispecie tipiche rilevanti: la storia umana e quella del diritto penale sono, ovviamente, strettamente intrecciate. Ma il fatto è che la risposta a fenomeni di questo tipo non può e non deve essere esclusivamente di tipo penale. Ciò perché le pene, da sole, non sono assolutamente in grado di garantire l’osservanza dei precetti. Anzi, in tema di infortuni sul lavoro vi è chi ha rilevato come proprio il numero eccessivo di contravvenzioni previste dal legislatore abbia complicato il lavoro delle Procure che, alla luce dell’obbligatorietà dell’azione penale, sono costrette a dover seguire, con risorse non sempre adeguate, una miriade di casi (e lo stesso vale per gli organi preposti alla prevenzione) con conseguente perdita di efficacia del sistema. Dunque piuttosto che un aumento (che rischia di restare solo sulla carta) della risposta penale, sarebbe preferibile dare, ai temi proposti dalla modernità, una risposta di tipo integrato. Il diritto penale non può essere lasciato da solo, e il legislatore non può veramente pensare di combattere questi fenomeni con un approccio emergenziale, fatto magari di decreti-legge contenenti norme scritte sull’onda delle emozioni dettate da tristi fatti di cronaca. Come è stato giustamente rilevato, «il terrorismo sanzionatorio non produce alcun effetto deterrente». Una riforma veramente efficace potrebbe essere solo quella volta a investire nell’educazione dei cittadini e nella prevenzione delle condotte pericolose. Ma questo obiettivi non si conseguono solo con delle norme: è necessario investire, sia nella cultura, sia nella predisposizione di organi di controllo, e ciò vale sia sulle strade che nei luoghi di lavoro. «Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo si è di perfezionare l’educazione (…) e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza»; «È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione». A 250 anni dalla pubblicazione del volume di Beccaria, Dei delitti e delle pene, gli insegnamenti del Maestro appaiono sempre attuali.
XXVII Ciclo
1985
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
16

Guido, Elisabetta. "I giudizi speciali nel sistema del processo penale de societate." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3078.

Full text
Abstract:
2007/2008
Lo studio dei procedimenti speciali nel sistema della responsabilità amministrativa derivante da reato, introdotta nell’ordinamento italiano con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha preso le mosse dalla scelta operata dal legislatore di prediligere il processo penale quale paradigma di accertamento dell’illecito dell’ente. Si è anzitutto evidenziato, anche attraverso il raffronto con altre esperienze, europee ed extra europee, che l’assegnazione al giudice penale della decisione su una res iudicanda amministrativa rappresenta una soluzione fortemente innovativa, tant’è che nessun parallelismo potrebbe instaurarsi tra tale cognizione e l’accertamento amministrativo richiesto dalla legge di depenalizzazione e modifiche del sistema penale (art. 24 l. 24 novembre 1981, n. 698). Lasciando a latere la questione della natura della responsabilità dell’ente – se si tratti, cioè, al di là dell’etichetta, di responsabilità amministrativa, penale o di altro genere – e precisato che l’importazione del modello processuale penale implica l’estensione alla persona giuridica dell’impianto garantistico offerto alla persona fisica, sono state passate in rassegna le cause di tale originale combinazione. A parte la valenza politica che l’attrazione dell’illecito della societas all’interno del processo penale reca con sé in termini di riprovevolezza del crimine d’impresa, è l’esistenza di un reato, primo tassello del mosaico raffigurante la complessa fattispecie dell’illecito amministrativo, a legittimare la devoluzione della vicenda dell’ente alla giurisdizione penale anziché all’autorità amministrativa, unitamente a ragioni di garanzia ed efficienza. Proprio in relazione a questi ultimi parametri emerge la pertinenza della previsione di giudizi speciali nel rito de societate; scelta, che avrebbe nondimeno potuto essere ostracizzata, data la mancata attenzione del legislatore delegante verso questa materia e in presenza dell’indicazione che ancorava la riduzione della sanzione amministrativa a situazioni di particolare tenuità del fatto (art. 11 comma 1 lett. g l. n. 300 del 2000) ovvero all’adozione da parte dell’ente di comportamenti di reintegrazione dell’offesa (art. 11 comma 1 lett. n l. n. 300 del 2000). Sul versante dell’efficienza, è nota la genetica finalizzazione dei riti speciali alla celere definizione dei carichi giudiziari, obiettivo imposto dal canone costituzionale della ragionevole durata dei processi (art. 111 comma 2 Cost.). Tale esigenza deflativa viene avvertita anche nel processo all’ente poiché il modello di accertamento confezionato per l’illecito dell’ente ricalca quello previsto per il reato, impostato cioè sulla classica successione fatta di indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, di talché presenta le stesse ricadute che l’acquisizione della prova in contraddittorio comporta sui tempi processuali. Inoltre, occorre sottolineare che la scelta di procedere contestualmente per il reato nei confronti della persona fisica e per l’illecito nei riguardi della persona giuridica (art. 38 comma 1), seppur giustificata dal presupposto di pregiudizialità esistente tra illecito penale e illecito amministrativo, duplica l’attività processuale con conseguenti rallentamenti sul funzionamento della macchina giudiziaria. Si è, quindi, appuntato che, se alla base dell’inserimento dei riti speciali nel processo all’ente vi sono giustificazioni di economia processuale, nessuna valida ragione, a fronte dell’esigenza di coerenza sistematica, può sussistere nel ritenere inammissibili il giudizio immediato e il giudizio direttissimo, i quali non figurano nel decreto giacché il legislatore non ha ritenuto di dover dettare un’apposita disciplina. A ciò si aggiunga che l’efficienza processuale si salda con l’effettività della sanzione, obiettivo caldeggiato dal legislatore delegante (art. 11 comma 1 lett. f l. n. 300 del 2000), in cui risultano assorbiti scopi di prevenzione generale e speciale; quest’ultimo, peraltro, risulta predominante nel sistema della responsabilità amministrativa da reato, in cui tanto le sanzioni quanto, e impropriamente, il processo partecipano della finalità di recupero dell’ente alla legalità. In relazione all’aspetto garantistico, si è sottolineato come sia la legge a suggerire che anche all’ente vengano assicurati i benefici derivanti da scelte processuali alternative, laddove prevede il riconoscimento al soggetto collettivo degli stessi diritti e delle medesime facoltà spettanti all’imputato (art. 35); vantaggi, da reputare compatibili con la natura astratta del presunto responsabile amministrativo. Vero è che la praticabilità di soluzioni alternative all’ordinario iter processuale, tanto nel procedimento relativo al reato quanto in quello riguardante l’illecito amministrativo, determina la separazione delle regiudicande, fenomeno che ha comportato la trattazione delle conseguenze che tale divaricazione produce sul simultaneus processus (art. 38). In particolare, si è parlato dell’incompatibilità del giudice della responsabilità amministrativa a decidere in ordine al reato della persona fisica, e viceversa; si è, poi, affrontato il tema dell’acquisizione della sentenza irrevocabile emessa nei confronti dell’ente o dell’imputato, nel procedimento dell’altro (art. 238-bis c.p.p.), con la precisazione che esula da tale meccanismo acquisitivo la sentenza di patteggiamento, sia essa applicativa della pena all’imputato o della sanzione all’ente, poiché carente sotto il profilo dell’accertamento di responsabilità e, quindi, inidonea ad influire sulla decisione da assumere nell’altro procedimento. A seguire, sempre gravitando sul tema della circolazione probatoria, si è visto come sia recuperabile nel processo all’ente, seppur con qualche aggiustamento, la norma di cui all’art. 238 c.p.p.; infine, l’attenzione si è focalizzata sulle regole che governano l’assunzione delle dichiarazioni dell’imputato del reato presupposto e del legale rappresentante dell’ente nel separato procedimento a carico, rispettivamente, del soggetto collettivo e della persona fisica; compito, questo, che ha messo in luce il problema della qualificazione penalistica del rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. La seconda parte del lavoro è dedicata alla trattazione dei singoli procedimenti speciali, la cui disciplina è stata ricostruita tenendo presente gli aspetti peculiari di ciascun rito e rinviando – in subordine – alle disposizioni del codice di rito penale nonché alle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto compatibili (art. 34), al fine di colmare lacune e superare incongruenze. In sostanza, questo particolare approccio metodologico ha richiesto di stabilire, di volta in volta, quali norme codicistiche possano essere trasferite nel microsistema del processo agli enti. Tanto precisato, vale qui riportare le problematiche più significative emerse dall’analisi della materia che, a ben vedere, si concentrano soprattutto attorno ai riti deflativi del dibattimento, vale a dire il giudizio abbreviato (art. 62), l’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63) e il procedimento per decreto (art. 64). Partendo dal primo, è il presupposto speciale negativo del rito, consistente nella preclusione al suo accesso quando per l’illecito amministrativo sia prevista l’applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva (art. 16), il punto su cui si sono addensate le maggiori perplessità. Seppure nobile è apparso il tentativo del legislatore di contemperare esigenze efficientistiche con obiettivi di specialprevenzione, non si è taciuta, per un verso, la disparità di trattamento in tal modo creata tra ente e imputato, per il quale non vigono limiti di ammissione al rito speciale in vista del tipo di pena da applicare; per altro verso, non sono mancate riserve circa l’ampia discrezionalità che deriva dal sistema di applicazione delle sanzioni interdittive perpetue, congegnato, ad eccezione del caso dell’impresa illecita (art. 16 comma 3), su una valutazione prognostica di irrecuperabilità dell’ente alla legalità, di intuibile precocità se agganciata al momento processuale deputato alla valutazione di ammissibilità del rito speciale. Altra questione degna di nota attiene alla possibilità per il soggetto collettivo dichiarato contumace, cioè a dire non costituitosi in giudizio secondo le formalità prescritte dall’art. 39 d. lgs. n. 231 del 2001, di richiedere il rito abbreviato. Di fronte a opinioni dottrinali divergenti, si è ritenuto di proporre una soluzione positiva, agganciandola alla previsione normativa che estende all’ente lo status processuale dell’imputato (art. 35); si è, infatti, osservato come rispetto a questa precisa indicazione non meritino accoglimento interpretazioni che considerano l’atto formale di costituzione (art. 39) presupposto necessario affinché l’ente possa esercitare il proprio diritto di difesa. Se, infatti, tale adempimento si profila doveroso per il compimento di atti che implicano la presenza dell’ente, naturalmente nella persona del suo legale rappresentante, resta superfluo per tutti quegli atti che tale materializzazione non richiedono. Ciò ha permesso di ritenere legittimato ad avanzare richiesta di giudizio abbreviato, come pure quella di patteggiamento, anche il difensore dell’ente, non costituitosi, purché munito di procura speciale. Si aggiunga, inoltre, che la scissione tra costituzione e diritto di difesa è, parimenti, alla base della ritenuta ammissibilità dell’opposizione al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria dell’ente che abbia deciso di non partecipare attivamente al processo. Occorre, per inciso, sottolineare come la questione esposta si profili incerta anche a livello giurisprudenziale; non può quindi che auspicarsi un intervento chiarificatore che tenga nella giusta considerazione le esigenze di garanzia e di difesa dell’ente. Ulteriore aspetto che si è ritenuto di approfondire concerne il ruolo della parte civile nel rito abbreviato instaurato nei confronti dell’ente. Preso atto che l’ammissibilità della pretesa civilistica nel procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo conosce orientamenti difformi e, appurato che la soluzione negativa pare essere quella maggiormente convincente, si è voluto nondimeno precisare che laddove dovesse ammettersi la costituzione di parte civile contra societatem, al danneggiato da illecito amministrativo verrebbe riconosciuta la classica alternativa tra accettazione del rito – con il consueto limite in tema di diritto alla prova e l’efficacia extrapenale della sentenza di esclusione della responsabilità per insussistenza dell’illecito (art. 66) – e il trasferimento della domanda risarcitoria in sede civile. Passando all’istituto dell’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63), si è innanzitutto proceduto ad esaminare i presupposti speciali del rito che si schiudono in tre diverse, e alternative, condizioni oggettive di accesso. Tra queste, non sono mancate riserve, per l’ampia discrezionalità implicata, circa il presupposto che àncora la praticabilità dell’accordo sulla sanzione alla “definibilità”, con patteggiamento, del procedimento per l’accertamento della responsabilità penale dell’autore del reato. In altri termini, al fine di valutare l’ammissibilità della richiesta dell’ente, il giudice dell’illecito amministrativo deve, fittiziamente sostituendosi a quello del reato, stabilire in via preliminare se la vicenda dell’imputato persona fisica si presti ad essere definita attraverso il concordato sulla pena. Tale momento non è, peraltro, l’unico a presentare connotati di discrezionalità, dovendosi tenere presente che essa ricorre anche in riferimento al limite all’accesso al rito, derivante dal fatto che si faccia luogo in concreto all’irrogazione di una sanzione interdittiva in via definitiva; decisione che viene rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Rilevante è apparsa, anche per l’interesse che ha suscitato nella prassi, la questione relativa all’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto dell’illecito da reato in sede di sentenza patteggiata. Si è ritenuto di fornire sul punto risposta positiva, alla luce del carattere indefettibile ed obbligatorio accordato a tale misura ablatoria dalla norma di cui all’art. 19, laddove il giudizio si concluda con sentenza di condanna. Tale riferimento, peraltro, non è stato ritenuto decisivo a supportare un approdo di segno opposto; senza entrare nella complessa tematica dell’identità della sentenza di patteggiamento, si è voluto ricordare il recente approccio esegetico delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 novembre 2005, Diop Oumar, in Cass. pen., 2006, p. 2769 ss.) secondo cui la clausola di equiparazione (art. 445 comma 1-bis c.p.p.) deve essere letta nel senso di ritenere la sentenza di patteggiamento siccome produttiva dei consueti effetti della condanna, salve le deroghe previste dalla legge. Pertanto, sulla scorta di tale assunto, si è sostenuto che se si fosse voluto escludere la confisca dalla decisione patteggiata lo si sarebbe dovuto esplicitare, restando il silenzio sintomatico della parificazione ad una pronuncia di condanna. Seguendo questa impostazione, si è ritenuta poco convincente l’ipotesi che sia incompatibile con il rito in esame l’applicazione della sanzione della pubblicazione della sentenza, solo per il fatto che essa venga riferita ad una pronuncia di condanna (art. 18). Tale misura stigmatizzante non rientrerebbe, infatti, tra le pene accessorie che, ex art. 445 comma 1 c.p.p., il patteggiamento preclude, poiché la classificazione tra pene principali e pene accessorie, cui la citata norma allude, risulta sconosciuta al sistema sanzionatorio delineato per le persone giuridiche. D’altro canto, proprio la peculiarità dello strumentario sanzionatorio ha richiesto di vagliare, di volta in volta, la compatibilità con il patteggiamento relativo all’ente dei premi che tradizionalmente afferiscono a questa alternativa processuale. Quanto al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, tra le varie problematiche affrontate, quella su cui si sono concentrati i maggiori dubbi interpretativi concerne la confisca. Esclusa, nel processo all’ente, l’operatività della norma secondo cui il giudice che pronuncia decreto penale di condanna dispone la confisca cosiddetta obbligatoria (art. 460 comma 2 c.p.p.), poiché essa è ivi misura di sicurezza, categoria non prevista nel sottosistema di riferimento, ci si è chiesti se trovi o meno applicazione la confisca sanzione (art. 19). Taluna dottrina ha ritenuto di fornire una risposta negativa, sostenendo che se venisse disposta si andrebbe incontro ad una soluzione affetta da illogicità, poiché, da un lato, la confisca è sanzione che deve sempre essere disposta, dall’altro, il decreto può pronunciarsi se deve essere irrogata unicamente la sanzione pecuniaria. Si è nondimeno, proposto un differente ragionamento, che porta, per contro, alla soluzione positiva. In prospettiva sistematica e meno agganciata al dato formale, si potrebbe ritenere che il limite della sanzione pecuniaria, quale presupposto del rito, non può intendersi come deroga alla norma che stabilisce l’indefettibilità della confisca in presenza di una sentenza di condanna; espressione suscettiva di lettura estensiva, così da ricomprendere anche il decreto che, in effetti, ha natura di sostanziale condanna. Al contrario, proprio il carattere imperativo della sanzione in oggetto risulterebbe dato utile ad interpretare il limite della sanzione pecuniaria siccome preclusivo della sanzione interdittiva e, a fortiori, di quella della pubblicazione della sentenza che ad essa accede. Così postulando, si verrebbe a ricostruire un parallelo, per un verso, con la logica codicistica che, con il presupposto della pena pecuniaria, intende escludere dall’ambito operativo del procedimento monitorio la pena detentiva e, per altro verso, con l’istituto dell’applicazione della sanzione all’ente che, come visto supra, pure è stato ritenuto compatibile con la confisca. Altra questione degna di essere segnalata afferisce all’operatività dell’effetto sospensivo (art. 463 c.p.p.) ed estensivo (art. 464 comma 5 c.p.p.) dell’opposizione nel processo cumulativo, quello cioè instaurato contemporaneamente per l’accertamento tanto della responsabilità amministrativa dell’ente quanto di quella penale della persona fisica, qualora, pronunciato decreto di condanna a carico di entrambi, solo uno di essi faccia opposizione. Premesso che la produzione dei suindicati effetti risulta ancorata alla situazione della commissione del medesimo reato da parte di più soggetti, la risposta dipende dal tipo di lettura che si vuole prediligere nel decifrare il rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. Pertanto, ove si ritenga che la responsabilità dell’ente configuri un’ipotesi di concorso di persone nel reato, nessun ostacolo potrebbe esserci a che l’esecuzione del decreto opposto dall’ente, o dall’imputato, venga sospesa nei confronti del non opponente, con il conseguente verificarsi dell’effetto estensivo della pronuncia di proscioglimento. Viceversa, se si esclude il vincolo concorsuale poiché trattasi di illeciti diversi, il richiamato meccanismo non potrebbe funzionare, a meno che non si voglia adattare il dato letterale della norma codicistica attraverso una lettura estensiva che valorizzi il rapporto di pregiudizialità esistente tra i due illeciti, penale e amministrativo. Tale impostazione avrebbe il pregio di evitare che il rimedio della revisione – istituto che nel processo agli enti tende a favorire un’esigenza di omogeneità dei giudicati quando non sia stato possibile procedere unitariamente all’accertamento del reato e dell’illecito amministrativo che ne deriva (art. 73) – diventi strumento ordinario per risolvere l’eventualità del conflitto tra la pronuncia emessa nei riguardi dell’ente e quella relativa alla persona fisica. La terza parte del lavoro nasce dalla presa d’atto che i riti premiali non rappresentano le uniche occasioni difensive vantaggiose in termini di sollievo sanzionatorio. Si è così proceduto ad analizzare gli istituti processuali che, improntati alla logica specialpreventiva di neutralizzazione del rischio di commissione di futuri reati, propiziano l’attuazione da parte dell’ente delle condotte riparatorie previste dall’art. 17, vale a dire il risarcimento integrale del danno, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato – ovvero un efficace impegno in tal senso –, la predisposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire il rischio di commissione di reati all’interno dell’impresa e, infine, la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca. La realizzazione di tali comportanti, suscettivi se allo stadio di semplice “promessa di attuazione” di provocare la sospensione della misura cautelare interdittiva (art. 49) oppure la sospensione del processo (art. 65), consentono alla persona giuridica incolpata di sfuggire dall’applicazione della sanzione interdittiva e di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria, in caso di condanna. Certo, un simile congegno, che sollecita l’ente ad attivarsi durante il processo per rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo, prima di approdare ad un accertamento di responsabilità anche non definitivo, è anomalia che mal si concilia con il canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.), la cui operatività non incontra, nonostante qualche perplessità manifestata al riguardo, limiti dovuti alla natura astratta della persona giuridica. Proprio il ruolo centrale assegnato all’impegno riparatorio onde neutralizzare gli effetti dei soli strumenti interdittivi (nell’immediato, se applicati in funzione cautelare, ex art. 9 e 45 comma 1, e in vista di futura condanna), con conseguente superfluità di tale impegno ove si prospetti l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, nonché l’inversione dell’onere della prova che grava sull’ente (art. 6) – il quale deve provare l’insieme dei fatti impeditivi descritti in tale disposizione per andare esente da responsabilità – ha permesso di mettere in risalto la congenialità dei riti alternativi al sistema processuale pensato per gli enti; adattabilità, peraltro, favorita anche dalla peculiare disciplina della prescrizione dell’illecito amministrativo ex art. 22. Il congegno ivi formulato, di fatto improntato alla potenziale imprescrittibilità dell’illecito – poiché la contestazione dell’illecito interrompe la prescrizione, la quale «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» (comma 3) – fa sì che le garanzie processuali non possano essere strumentalizzate dal responsabile amministrativo al fine di differire la decisione finale onde sfruttare l’epilogo favorevole della prescrizione dell’illecito. Questa situazione, da sempre censurata dalla dottrina nel processo alla persona fisica siccome fonte di inefficienza processuale e ragione della scarsa capacità deflazionistica dei riti speciali, si presenta, nel contesto dell’accertamento della responsabilità amministrativa, come fattore incentivante la definizione del procedimento tramite percorsi semplificati. Siffatta congenialità, tuttavia, non è sfuggita ad un approccio critico, segnatamente laddove le difficoltà connesse alla dimostrazione di innocenza indurrebbero l’ente ad affrettare i tempi di un processo in cui la contestazione dell’addebito diventa sintomatica di una presunzione di illegalità dell’impresa. In altri termini, la presenza dei riti alternativi nel processo agli enti sembrerebbe superare le premesse logiche del relativo inserimento, cioè a dire esigenze di economia processuale e riconoscimento all’ente delle stesse opportunità difensive spettanti alla persona fisica in virtù dell’equiparazione voluta dall’art. 35 con l’imputato, per risolversi in occasioni di giustizia sommaria. E ciò striderebbe con le ragioni stesse della scelta del processo penale come sede di accertamento dell’illecito amministrativo; preferenza che si giustifica in quanto all’ente vengano riconosciute le fondamentali garanzie del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza.
XXI Ciclo
1978
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
17

Baresi, Monica. "Il sistema cautelare nel processo penale de societate tra esigenze di effettività e profili di incostituzionalità." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3076.

Full text
Abstract:
2007/2008
L’interesse per il processo de societate, con particolare riguardo alla disciplina dettata in tema di misure cautelari applicabili agli enti, nasce senza dubbio dalla considerazione che il d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231 rappresenta uno dei provvedimenti più rilevanti e più significativi degli ultimi decenni nel panorama normativo italiano, in quanto l’introduzione, per effetto del medesimo, di una diretta responsabilità sanzionatoria dei soggetti collettivi dipendente da reato costituisce una svolta epocale, specie per coloro che ritengono che con esso sia stato definitivamente messo al bando il “costoso” principio societas delinquere (et puniri) non potest. Esigenze di politica criminale, tese ad introdurre risposte sanzionatorie per fronteggiare la sempre più dilagante criminalità d’impresa, da un lato, e sollecitazioni provenienti in ambito comunitario ed internazionale, finalizzate alla armonizzazione delle risposte sanzionatorie degli Stati, dall’altro, hanno indotto il legislatore, delegante prima e delegato poi, a disciplinare la materia, superando i dubbi sull’an della responsabilità. Con riferimento al quomodo della sua formulazione, la l. delega n. 300 del 2000 e il d. lgs n. 231 del 2001 hanno qualificato come amministrativa la forma di responsabilità addebitabile all’impresa e, al contempo, hanno previsto che il suo accertamento avvenga ad opera del giudice penale con le forme del relativo processo. Tale peculiarità – giustificata dalla necessità di coniugare efficienza e garanzie – ha originato la querelle circa la reale natura (amministrativa, penale o mista, tale da dar luogo alla nascita di un tertium genus) della responsabilità introdotta dal d. lgs. n. 231 del 2001. Si è constatato che la vexata quaestio non costituisce esercizio esegetico fine a se stesso, bensì risponde all’esigenza di comprendere quali siano i principi informatori della disciplina, allo scopo di verificarne anche l’ortodossia costituzionale. Ad esempio, stabilire che, al di là della etichetta adottata, si tratti in realtà di responsabilità penale significa, in primo luogo, dover superare - sul piano della dogmatica - i tradizionali ostacoli (innanzitutto il principio della responsabilità penale personale e quello rieducativo della pena ex art. 27 commi 1 e 3 Cost.) al riconoscimento di una siffatta responsabilità in capo alle persone giuridiche. In secondo luogo, vuol dire analizzare e verificare se la costruzione dell’illecito contestabile all’ente e il relativo procedimento di accertamento rispettino i canoni costituzionali propri della citata responsabilità, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, vengono chiamati in causa la garanzia del giudice terzo ed imparziale, il diritto ad una (effettiva) difesa, le regole del giusto processo e, non ultimo, il principio della presunzione di non colpevolezza, intesa sia come regola di trattamento - che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole - sia come regola di giudizio - che impone all’accusa l’onere della prova della colpevolezza - sia, ancora, come norma fondante il riconoscimento del diritto al silenzio, con il divieto di far discendere dall’esercizio di tale facoltà conseguenze sfavorevoli per l’imputato (e, a maggior ragione, per l’indagato). Evidente che ogni qual volta si palesasse una loro ingiustificata ed irragionevole violazione si prospetterebbe l’incostituzionalità della disciplina. Tuttavia, anche qualora non si volesse giungere a qualificare come propriamente penale la natura della responsabilità in parola, non potrebbero essere revocati in dubbio i principi costituzionali che governano il processo penale, riproponendosi ugualmente la necessità di verificare il loro rigoroso rispetto, pena – ancora – l’illegittimità della disciplina. Tale conclusione, sul piano dell’accertamento processuale dell’illecito, consegue proprio all’opzione processual-penalistica del legislatore. Infatti, l’aver affidato l’accertamento dell’illecito amministrativo degli enti al giudice penale in seno al relativo processo (oltre che l’aver attinto ai meccanismi imputativi e punitivi dell’universo penalistico) rappresenta qualcosa in più, in termini di garanzia, rispetto all’etichetta formale adottata dal legislatore. Poichè la ratio posta a fondamento della scelta del processo penale come luogo di accertamento della responsabilità della persona giuridica risiede proprio nella necessità di assicurare alla medesima standards di garanzie maggiori di quelli offerti in sede di procedimento amministrativo (sul paradigma delineato dalla l. 689 del 1981) e poichè tali garanzie affondano le loro radici nella Costituzione, ne consegue che le previsioni sovraordinate inerenti i diritti e le facoltà dell’imputato nel processo penale sono destinate ad assisterlo sia che questi abbia una natura fisica, sia che abbia natura giuridica, indipendentemente appunto dalla qualifica della natura della responsabilità chiamata in causa. Dunque, più che alimentare la diatriba sulla reale etichetta da attribuire alla responsabilità in esame, si è cercato di verificare la “qualità” dell’impianto garantistico offerto alla societas nel corso del procedimento di accertamento della medesima. Per questa via, si è constatato che la normativa, specie quella relativa alle cautele, appare poco rispettosa della Grundnorm scritta nell’art. 27 comma 2 Cost. da cui dipende il riconoscimento della presunzione di non colpevolezza dell’imputato. In effetti, il legislatore del 2001 pare ricorrere al processo penale, non tanto per perseguire le sue precipue finalità di accertamento dei fatti e di applicazione della pena, quanto piuttosto per realizzare impropri scopi di prevenzione generale e speciale. In altri termini, il processo viene utilizzato come “messaggio”, attribuendogli fini di stigmatizzazione, di intimidazione, di prevenzione e di rieducazione che non gli sono propri. Ciò è in particolar modo testimoniato dalle inedite finalità di recupero alla legalità dell’ente-imputato, che impregnano la disciplina relativa alle cautele. Nell’ambito dell’accertamento della responsabilità dell’ente le misure cautelari applicate contra societatem vengono, infatti, piegate ad esigenza di emenda e di rieducazione, servendo a propiziare l’adozione di condotte riparatorie o riorganizzative e non a tutelare esigenze funzionali al processo. La coincidenza tra tipologia delle cautele e la corrispondente morfologia delle sanzioni incide sull’identità funzionale delle prime, che finisce per essere eccessivamente appiattita sul crisma sanzionatorio. Proprio sul versante teleologico, infatti, viene meno l’essenza dell’istituito cautelare (annullando la differenziazione tra cautele e sanzioni), in quanto il periculum in mora è esclusivamente identificato con il rischio di reiterazione dell’illecito: ne scaturisce un intervento cautelare marcatamente orientato verso obiettivi di prevenzione speciale, vale a dire obiettivi di matrice extraprocessuale, certamente più coerenti con un intervento di tipo sanzionatorio. Si riaffacciano pertanto riserve d’ordine costituzionale non dissimili da quelle prospettate riguardo alla omologa previsione codicistica di cui all’art. 274 comma 2 lett. c c.p.p.. E’, in effetti, intuibile come il fine assegnato alle misure interdittive sottintenda una equivoca fungibilità tra cautele e sanzioni, di dubbia conformità al canone costituzionale di cui all’art. 27 comma 2 Cost. inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In quest’ottica, la disciplina appare fortemente criticabile laddove essa consente che gli indizi di “illecito amministrativo” fungano da presupposto per interventi “educativi” finalizzati al recupero dell’ente alla legalità, lasciando intendere che l’ente sia ritenuto presunto colpevole ovvero – e la prospettiva non è certo più tranquillizzante – che l’accertamento della sua responsabilità sia comunque un fatto secondario rispetto allo scopo sotteso all’intervento cautelare. In questa prospettiva, il tratto marcatamente preventivo del sistema in esame sembra collidere con la ricerca di un giudizio sul merito: prevenzione e condanna sono strumenti distanti se analizzati nell’ottica degli strumenti impiegabili per perseguire l’una o l’altra. La società che intende provare nel processo la sua estraneità all’illecito amministrativo contestato rischia di essere assoggettata alla misura cautelare per il fatto di non essersi adeguata in itinere agli assunti dell’inquirente e il “periculum libertatis” potrebbe addirittura essere rinvenuto nella mancata ammissione dell’addebito mosso, ovvero nel silenzio mantenuto dall’ente sull’ipotesi di illecito formulata nelle indagini preliminari. E’ evidente che, sia nell’uno che nell’altro caso, viene minato il fondamento garantistico del divieto di attribuire rilevanza alle scelte difensive ai fini delle esigenze cautelari e viene negato il diritto al silenzio dell’ente, imponendogli impropri obblighi di allegazione e di collaborazione. Di dubbia conformità al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, questa volta inteso come regola di giudizio che impone all’accusa l’onere di dimostrare - oltre ogni ragionevole dubbio - la colpevolezza dell’imputato, appare altresì la disposizione di cui all’art. 6, relativa alla disciplina del criterio di imputazione soggettiva della responsabilità all’ente quando l’autore del reato presupposto risulti essere un soggetto apicale. Sul piano dell’accertamento processuale, tale previsione si traduce in un’impropria inversione dell’onere della prova. Per raggiungere l’esenzione dalla responsabilità, infatti, spetta all’ente provare – in via concorrente – l’adozione ante delictum di un efficace compliance program, l’inesistenza di lacune o inadempienze nel controllo svolto dall’organo di vigilanza appositamente istituito e l’elusione fraudolenta del modello di organizzazione e di gestione da parte del soggetto apicale. Il carattere concorrente delle condizioni da provare si risolve in una probatio diabolica, che incide sulla regola di giudizio secondo la quale il giudice pronuncia sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente anche quando manca o è insufficiente o contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo. Essa, infatti, troverà spazio solo laddove risulti dubbio che il reato presupposto sia stato commesso dai vertici nell’interesse o a vantaggio della società, ma quando l’incertezza attenga alle condizioni riportate nell’art. 6, il giudice dovrà pronunciare sentenza di condanna, con buona pace della regola consacrata nell’art. 27 comma 2 Cost. Apprezzamento merita, invece, il peculiare iter applicativo della misura cautelare interdittiva contra societatem. Infatti, con apparente incremento dello standard di garanzie tipiche del paradigma del codice di rito, che pospone l’interrogatorio dell’accusato all’adozione della misura cautelare, il procedimento applicativo delle misure cautelari contra societatem accoglie il modulo del contraddittorio anticipato. In effetti, la delibazione sull’applicabilità della misura interdittiva è iscritta nella cornice di un’udienza, pubblica o camerale, a seconda che la domanda venga presentata rispettivamente nell’ambito di un’udienza già fissata per l’esame del merito – aprendo una parentesi incidentale all’interno di questa – oppure al di fuori. L’innovazione è degna di nota, perché si riconosce nel contraddittorio tra parti contrapposte dinnanzi ad un giudice terzo lo strumento più efficace per garantire una decisione equilibrata, basata non sulla rappresentazione unilaterale dei fatti, ma sulla loro ricostruzione dialettica. La previsione che consente all’ente e al suo difensore di esaminare, presso la cancelleria del giudice, la richiesta del pubblico ministero e «gli elementi sui quali la stessa si fonda» prima della celebrazione dell’udienza garantisce, peraltro, l’effettività del contraddittorio. Non così, invece, la regolamentazione dell’udienza che segue. Infatti, quando l’istanza cautelare è presentata nella fase preliminare, l’udienza che ospita il contraddittorio ricalca il paradigma del procedimento camerale di cui all’art. 127 c.p.p. con scadenze più serrate. Tuttavia, la mancata previsione dell’obbligatoria (contestuale) presenza delle parti, da un lato, e la contrazione dei termini previsti per la fissazione e la celebrazione dell’udienza, dall’altro, incidono negativamente sull’effettività del diritto di difesa e, dunque, sul contraddittorio stesso. Sotto il primo profilo, infatti, è evidente che ridurre la presenza delle parti a mera facoltà sortisce l’effetto di limitare impropriamente il diritto al rinvio dell’udienza nel caso di legittimo impedimento del difensore. Invero, la rigorosa interpretazione della disciplina porta a concludere che l’unico soggetto abilitato a fare valere eventuali impedimenti, con correlativo diritto, sanzionato a pena di nullità, di ottenere il rinvio dell’udienza, è solo l’ente, nella persona del suo legale rappresentante, che abbia chiesto di essere sentito personalmente, ai sensi dell’art. 127 comma 4 c.p.p.. Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, dunque, la presenza effettiva del difensore rischia di diventare irrilevante. Il dubbio sorge ove solo si consideri che qualora il difensore nominato rappresenti un suo legittimo impedimento per l’udienza camerale già fissata e chieda il rinvio dell’udienza, il giudice potrà disattendere la richiesta e nominare, in sua sostituzione, un difensore d’ufficio a norma dell’art. 97 comma 4 c.p.p., al quale tuttavia non è riconosciuto il diritto di ottenere un termine per la difesa ex art. 108 c.p.p., con evidente danno per la difesa del soggetto collettivo. Anche la contrazione dei termini previsti per la celebrazione dell’udienza appare idonea a comprimere impropriamente l’esercizio del diritto di difesa dell’ente. Invero, la particolare complessità dell’illecito amministrativo impone di garantire all’ente incolpato di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa in ossequio al disposto costituzionale dell’art. 111 Cost. Se si considera, però, che l’ente potrebbe venire a conoscenza del suo status solo con l’avviso di fissazione dell’udienza camerale per la decisione in ordine alla richiesta avanzata dal pubblico ministero, i cinque giorni di preavviso previsti per la celebrazione successiva dell’udienza appaiono davvero pochi per consentire all’ente di nominare un difensore, di costituirsi in cancelleria, di estrarre copia degli elementi depositati a sostegno della domanda cautelare, di esaminare tali atti, di effettuare investigazioni finalizzate alla produzione in udienza di elementi nuovi a favore dell’ente. Si corre, dunque, il rischio di vanificare il contraddittorio e di ridurre l’apporto della difesa a mera discussione del materiale presentato dal pubblico ministero. Infine, si evidenzia che, nella dinamica cautelare, il contraddittorio preventivo assolve ad una duplice e diversificata funzione per la persona giuridica: difensiva o collaborativa. L’ente, infatti, in quella sede può innanzitutto scegliere di difendersi contestando gli elementi addotti dall’accusa, assumendosi – come già evidenziato – il rischio di essere ritenuto soggetto “pericoloso” e, dunque di subire l’applicazione della misura interdittiva. Oppure, laddove essa intenda ottenere la sospensione della misura (ex art. 49), può manifestare, nel confronto con la pubblica accusa e davanti al giudice, la volontà di porre in essere gli adempimenti e le condotte riparatorie di cui all’art. 17. L’istituto da ultimo richiamato si pone in linea con la finalità special-preventiva tipica del d. lgs. n. 231 del 2001 e ha chiara natura premiale: esso tende ad incentivare le condotte di riorganizzazione idonee a ricondurre la politica d’impresa in linea con i canoni della legalità. Il ricorso a tale congegno premiale nella fase incidentale del procedimento di applicazione delle misure cautelari, tuttavia, suscita non pochi dubbi di costituzionalità per incompatibilità con il dettato di cui all’art. 27 comma 2 Cost., ancora una volta inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In effetti, all’ente si chiede di attivarsi per rimuovere le cause dell’illecito prima che questo sia stato accertato con sentenza, anche non definitiva, e al giudice di decidere in ordine all’idoneità delle condotte riparatorie attuate utilizzando gli stessi parametri valutativi predisposti in sede di applicazione della sentenza di condanna. Con la non trascurabile differenza che, in sede cautelare, l’accertamento della responsabilità non è ancora avvenuto e la decisione si fonda su elementi indiziari provvisori ed incompleti. Tutto ciò senza considerare che la condotta di resipiscenza attuata dall’ente al fine di ottenere la sospensione della misura cautelare ha inevitabili riflessi in ordine al conseguente accertamento di merito, risolvendosi in ultima analisi in una rinuncia alla prova da parte della persona giuridica. In effetti, l’attività di ristrutturazione, che l’ente è spinto a realizzare per ottenere la sospensione e la successiva revoca della misura cautelare interdittiva, implica necessariamente il riconoscimento delle carenze organizzative e si trasforma in elemento a supporto della tesi accusatoria. Peraltro, il meccanismo di premialità così individuato si presta al rischio di strumentalizzazioni, laddove la cautela venisse concepita come utile strumento di pressione sull’ente per indurlo ad attuare condotte confessorie di “ravvedimento” post factum, impiego certamente contrario al canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, con sviamento della funzione tipica dell’istituto cautelare. Le reali prospettive di efficienza del sistema vanno (soprattutto) ascritte alla disponibilità di un apparato di cautele appositamente studiato per il soggetto collettivo sottoposto a processo: tanto che in sette anni di applicazione giurisprudenziale si contano quasi esclusivamente provvedimenti che attengono alle misure cautelari stesse. Esse, tuttavia, entrano in contraddizione con garanzie e principi fondamentali, frutto di una cultura liberal-democratica del processo, ritenuti “acquisiti” ed innegabili in una società che voglia definirsi non solo moderna ma anche civile.
XXI Ciclo
1973
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
18

Stradaioli, Ornella. "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro "sicuro"? La responsabilità penale nell'ambito dell'impresa." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7864.

Full text
Abstract:
2010/2011
elaborato relativo alla responsabilità penale nell'impresa derivante da infortunio sul lavoro nonchè relativo alla responsabilità amministrativa degli enti derivante dai medesimi fatti.
XXIV Ciclo
1983
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
19

Gentile, Elisa. "Il fallimento del "piccolo imprenditore": profili penali." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8613.

Full text
Abstract:
2011/2012
La disciplina fallimentare dettata nel r.d. 16 marzo 1942, n. 267 è rimasta per oltre un sessantennio sostanzialmente immutata. Il legislatore, infatti, è restato a lungo sordo alle richieste della dottrina che lamentava l’inadeguatezza del sistema normativo in parola rispetto alla nuova realtà economica. Soltanto con il D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 si è realizzata una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nella legge fallimentare. Nell’ambito di questa novellazione vengono rivisti i requisiti soggettivi di fallibilità, modificati nuovamente con il successivo decreto correttivo n. 169/2007. Viene, infatti, riscritto l’art. 1 L.fall., abolendo ogni riferimento alla nozione di “piccolo imprenditore” e fissando dei parametri dimensionali per l’esclusione dal fallimento. Tale novazione legislativa ha inciso anche sulle fattispecie di bancarotta sanzionate negli artt. 216 e 217 L.fall. In particolare, si è posto un problema di successione di norme integratrici in relazione ai casi in cui, dopo la riforma, il soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la qualità di piccolo imprenditore. Su questo tema sono intervenute le Sezioni Unite con la famosa sentenza Niccoli, in quanto si era creato un contrasto giurisprudenziale tra chi riteneva si fosse verificata un’ipotesi di abolitio criminis parziale e chi, al contrario, riteneva si dovesse applicare ancora la vecchia legge fallimentare. Il Supremo Collegio ha liquidato in poche righe la questione della successione mediata ed ha affermato l’insindacabilità in sede penale della sentenza dichiarativa di fallimento circa la qualifica di imprenditore ai sensi dell’art. 1 L.fall. La posizione assunta dalla giurisprudenza non sembra, tuttavia, coerente con i principi ispiratori del codice di procedura penale e lesiva del diritto di difesa garantito al livello più alto della gerarchia delle fonti.
XXV Ciclo
1984
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
20

Giliberti, Serena. "La responsabilità da reato degli enti tra disciplina normativa e prassi applicativa." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8615.

Full text
Abstract:
2011/2012
Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 ha introdotto la disciplina della c.d. responsabilità amministrativa da reato degli enti e costituisce una delle più importanti e profonde innovazioni del nostro sistema penale. Il lavoro, lontano dalla pretesa d’esser un commentario del decreto, è focalizzato sugli articoli 6, 7 e 8 dello stesso, poiché queste tre norme disciplinano il sistema di imputazione del reato all’ente e ne costituiscono il nucleo innovativo. Ciò che rende dirompente la portata della disciplina introdotta nel 2001 è, infatti, l’introduzione di un nuovo soggetto di diritto all’interno del nostro sistema penale: l’ente. L’attenzione, dunque, è stata posta sul come a questo nuovo protagonista dell’illecito penale sia stata attribuita una responsabilità che, al di là dei nominalismi, fino al 2001 era riservata alla persona fisica. Ciò al fine di comprendere se i criteri prescelti dal legislatore abbiano determinato un’integrazione di questo nuovo soggetto nel nostro ordinamento ovvero se sussistano delle problematiche di ordine dogmatico o relative alla prassi applicativa che ne impediscono il coordinamento con gli istituti propri del diritto penale. In altre parole, obiettivo del lavoro è comprendere se la novella del 2001 abbia determinato la necessità di ripensare agli istituti tradizionali del nostro diritto e ai principi che illuminano lo stesso ovvero se, al di là delle perplessità che ogni cambiamento porta con sé, sia possibile trovare un posto per la responsabilità da reato dell’ente all’interno del sistema penale così com’è. La prima parte della tesi ha carattere introduttivo ed è dedicata, premessa una riflessione circa le ragioni della “criminalizzazione” delle persone giuridiche, all’analisi dell’ente quale soggetto di reato “nel tempo e nello spazio”. La responsabilità da reato degli enti è stata presa in considerazione “nel tempo” nel senso che, in primo luogo, si è effettuato un breve excursus storico relativo all’evolvere del pensiero giuridico in merito, per l’appunto, all’ente quale possibile destinatario del precetto penale. Ciò al fine di comprendere quale sia la portata dell’introduzione di un principio di responsabilità da reato delle persone giuridiche alla luce dell’evoluzione storica di un pensiero giuridico caratterizzato dal principio secondo cui societas delinquer e non potest. L‘ente quale soggetto d’illecito penale è stato preso, poi, in considerazione nella sua dimensione “spaziale”. Il fenomeno della criminalità d’impresa è, infatti, per sua natura “internazionale”, sia nel senso che lo stesso si presenta in tutti gli stati economicamente sviluppati, sia in quanto è frequente che si estenda oltre i confini di una singola nazione. Si è ritenuto opportuno analizzare, seppur senza pretesa di esaustività, quali sono state le reazioni e le proposte di alcuni dei principali attori politici ed economici del nostro tempo a tale fenomeno, per comparare le varie alternative offerte dagli ordinamenti finalizzate ad accogliere (e sanzionare) questo nuovo soggetto di diritto. La seconda parte della tesi analizza le ragioni dello sgretolamento, all’interno del mondo occidentale, del principio in forza del quale societas delinquere non potest, funzionale ad introdurre la vexata quaestio circa la natura della responsabilità da reato dell’ente, così come pensata dalla dottrina e dal legislatore italiano. Premessi questi doverosi rimandi alle questioni che possiamo considerare ormai “classiche” quando si parla di decreto legislativo 231/2001 - principio d’irresponsabilità penale degli enti, natura della responsabilità delle persone giuridiche etc. – la terza parte del lavoro s’incentra sulla compiuta analisi del criterio d’imputazione del fatto all’ente. Quest’ultimo è connotato da una componente oggettiva, dato che l’ente non è responsabile di tutti i reati che siano stati commessi dai suoi dipendenti od esponenti, ma solamente di quelli commessi “nel suo interesse o vantaggio” e da una componente soggettiva, di cui la c.d. “colpa in organizzazione” è cardine. La prospettiva di osservazione è duplice: da un lato sono posti in rilievo i problemi di natura dogmatico-interpretativa sollevati dalla dottrina negli ultimi dodici anni, dall’altro, preso atto che un nuovo soggetto di diritto è entrato a far parte dell’ordinamento penale, si è cercato di analizzare le pronunce più rilevanti della giurisprudenza in argomento. Ciò al fine di valutare se la rivoluzione introdotta dal decreto sia stata fonte di dubbi e problemi applicativi e interpretativi anche a livello di prassi. L’analisi delle pronunce giurisprudenziali è stata trasversale: non si è cercato di comporre un quadro delle sentenze più significative in ambito “231”, quanto piuttosto di cogliere all’interno delle stesse ogni collegamento all’argomento che qui interessa: l’imputazione del reato all’ente. Attraverso le critiche della dottrina e l’analisi mirata delle pronunce giurisprudenziali, si giunge a verificare se il criterio d’imputazione del reato all’ente e, dunque, l’intero sistema della “responsabilità amministrativa da reato dell’ente”, nonostante l’antinomia della locuzione, non soltanto regga, ma si consolidi come nuovo pilastro dell’ordinamento penale stesso.
XXV Ciclo
1979
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
21

Meloni, Salvatore. "Le banche dati tecnico scientifiche nell' ambito dell' indagine forense." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3448.

Full text
Abstract:
2008/2009
Il ruolo delle banche dati tecnico scientifiche nell’ambito delle indagini giudiziarie è di primaria importanza, lo testimonia la massiccia implementazione di programmi operativi per la gestione combinata di informazioni individuali – anagrafiche, genetiche, fotografiche e biometriche –, avvenuta nel corso degli ultimi anni per agevolare le operazioni svolte dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria; pertanto, il database può essere definito come un ausilio rilevante per l’esecuzione delle indagini legate alla consultazione dei dati, dal momento che gli elaboratori elettronici assistono le azioni investigative, attraverso una migliore gestione operativa delle notizie personali. L’avvento sulla scena procedimentale di strumenti tecnici siffatti, col carico di garanzie e tutele che recano al loro interno – basti pensare alle recenti decisioni quadro del consiglio d’Europa sulla protezione dei dati personali oggetto di scambio tra gli stati dell’ UE –, impone una duplice osservazione; invero il rapporto tra le banche dati e il procedimento penale può essere analizzato sia in modo statico, con particolare riferimento alle regole preposte all’organizzazione del singolo dato all’interno della banca di raccolta, che in proiezione dinamica, cioè a dire, rispetto al possibile utilizzo che l’autorità giudiziaria può fare delle notizie provenienti dagli archivi informatici. Invero, nelle banche dati, le informazioni personali convergono in un sistema strutturato di catalogazione, che funziona alla stregua di un vero e proprio catalizzatore di notizie personali. Tali dispositivi permettono una consultazione rapida dei dati e facilitano la ricerca delle informazioni in essi contenute. A tal proposito, occorre sottolineare come l’acquisizione di una notizia derivante da un database, garantisca, di regola, all’autorità giudiziaria l’utilizzo di un’informazione calibrata sulla base delle norme fissate dal Testo unico sulla privacy del 2003. Preso atto che la banca produttrice di informazioni utilizzabili, per essere considerata come tale, deve rispettare le regole fondamentali stabilite dal Testo unico per il trattamento dei dati personali, occorre interrogarsi sugli effetti che il dato trattato in modo illecito, o frutto di un’attività di raccolta non autorizzata, genera rispetto all’accertamento del fatto reato. In tal senso, si può parlare di “nuove questioni giuridiche” per tutti quei temi legati alla relazione tra le regole stabilite per disciplinare la conservazione dei dati all’interno di archivi elettronici, e il processo penale. In quest’ottica, la tesi analizza la forma dei più importanti database utilizzati dall’autorità giudiziaria, intesi come recettori di informazioni personali, esaminando le implicazioni tecniche – id est i sistemi logistici di archiviazione – dell’organizzazione dei dati. Inoltre, costituisce argomento di studio, la singola informazione personale contenuta negli archivi informatici, con peculiare riferimento alle impronte digitali ed al profilo genetico identificativo. A tal proposito, la ricerca esamina la banca dati del dna – alla luce della recente novella legislativa introdotta dalla legge n. 85 del 2009 – intesa come esempio paradigmatico delle questioni succitate. In particolare si arriva allo studio della singola banca dati – database del dna –, dopo l’enunciazione di una serie di legami e connessioni di carattere generale, relativi a tutti i sistemi informatici di archiviazione dati. Le relazioni analizzate sono quelle con le specifiche tematiche del diritto alla privacy, e le disposizioni transazionali che disciplinano la materia della protezione dei dati personali. A ben vedere, l’analisi del caso specifico, rappresenta di fatto il riflesso pratico di una serie di considerazioni ad ampio raggio – connessi in particolar modo al diritto all’autodeterminazione dei dati personali – comuni a tutte le forme di archiviazione di dati. Infine, la conclusione della ricerca è incentrata sulla definizione del grado di utilizzabilità nel processo penale dell’informazione personale contenuto nei vari database; vale a dire nell’individuazione di un eventuale limite, all’ingresso nel procedimento, dei dati personali contenuti nelle banche dati, alla stregua di elementi impiegabili nelle indagini o utilizzabili come prova nel corso dell’istruzione probatoria. Tali problematiche sono state affrontate al fine di porre in luce quali siano i riflessi sull’aspetto che indubbiamente suscita il maggior interesse per la sua capacità di influenzare la decisione: l’utilizzazione probatoria del dato appreso illecitamente, poiché, a tutt’oggi, l’acquisizione e la successiva utilizzazione del dato illecito non incontra divieti probatori stabiliti ad hoc, dal momento che la legge sulla privacy costituisce un riferimento di carattere amministrativo. In particolare, occorre sottolineare come l’ inserimento nella banca dati di una determinata notizia garantisca all’autorità giudiziaria l’utilizzo di un’informazione filtrata, cesellata e calibrata sulla base delle specifiche esigenze che hanno motivato la creazione dello stesso database, come dire che viene canalizzata a disposizione del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, una notizia pronta per essere impiegata senza alcun tipo di limitazione di sorta. Tale ruolo esercitato dalla banca dati, può essere definito come filtro e garanzia rispetto all’utilizzabilità del singolo dato. Nel corso della ricerca ci si è interrogati sulle conseguenze legate al caso in cui l’elemento a disposizione degli inquirenti, sia il frutto di un’attività di raccolta dati illecita o provenga da banche dati non autorizzate, e se un eventuale catalogazione effettuata al di là del confine legale tracciato dalle regole sulla specifica banca dati di raccolta, produca degli effetti patologici in seno al procedimento penale.
XXII Ciclo
1976
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
22

Cocuzza, Valentina. "I conflitti di giurisdizione e di competenza nel processo penale." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8611.

Full text
Abstract:
2011/2012
Il principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall’art. 25, comma 1, Cost., eleva a rango costituzionale l’intero meccanismo conflittuale e attribuisce un senso profondo a regole che, come quelle di competenza, potrebbero, a un primo approccio, sembrare molto tecniche e di carattere puramente operativo. Nell’analizzare le implicazioni tra il principio del giudice naturale precostituito e l’apparato di regole concernenti la competenza, il punto focale è consistito nel chiarire se il concetto di precostituzione alluda solo alla garanzia che gli organismi giurisdizionali debbano essere istituiti prima del fatto commesso, oppure se il medesimo concetto afferisca anche alle regole di competenza, funzionali alla specifica individuazione del giudice competente a decidere la singola regiudicanda. Sicché, il divieto di distrarre i cittadini dal proprio giudice naturale risulterebbe violato, non solo in caso d’istituzione di un giudice ex post facto, ma anche in caso di modificazione delle regole di competenza con effetto retroattivo. Nell’ambito di un’analisi dei concetti di giurisdizione in materia penale e di competenza, si è rilevato come le teorie ad essi relative sfuggano ad una individuazione teorica coerente con le scelte fatte dal legislatore ordinario. A livello teorico, infatti, tali concetti risultano intersecarsi, sovrapporsi ed escludersi vicendevolmente, originando una serie ampia quanto complessa di interpretazioni e definizioni. A livello di prima approssimazione alla disciplina compendiata negli artt. 28 ss. c.p.p., non si è mancato di adottare una prospettiva sistematica, per svolgere un’indagine “comparativa” tra gli strumenti creati dal legislatore processuale penale e quelli previsti nell’ambito del codice di procedura civile, sotto forma di regolamento di giurisdizione e di regolamento (facoltativo o necessario) di competenza. Ne è derivata la considerazione secondo cui, a differenza di quanto accade nel processo civile, il legislatore processuale penale ha attribuito rilevanza al conflitto solo quando esso è reale, senza lasciare alcuna possibilità alle parti di impugnare le pronunce che decidono solo sulla competenza e sulla giurisdizione. Ove fosse stata prediletta tale ultima soluzione, sarebbe senz’altro prevalso, in modo preponderante, il diritto del singolo alla riaffermazione del proprio giudice naturale ma, per certi versi, sarebbe stata sacrificata l’esigenza della celerità del processo, in quanto si sarebbe offerta alla parte una più ampia gamma di possibilità di impugnare, con le ovvie conseguenze sui tempi dell’iter processuale. In quest’ottica, si è concluso che il congegno predisposto dal legislatore all’interno del processo penale non sembra avere come unica finalità la riaffermazione del corretto ordine delle competenze. Conferme di tale assunto si sono rinvenute nell’istituto della desistenza, contemplato dall’art. 29 c.p.p., e nella notazione secondo cui, tra i modelli che riguardano i possibili modi di configurare il rapporto procedimento incidentale/processo, quello che caratterizza l’istituto dei conflitti non abbia alcuna influenza sui tempi del processo di merito, in quanto privo di effetti sospensivi. Si è, dunque, concluso che il sistema processuale penale non si spinge, attraverso l’istituto dei conflitti, sino ad assolutizzare il valore costituzionale del giudice naturale ma opera un ragionevole bilanciamento tra le garanzie costituzionali in gioco: da un lato, la riaffermazione del giudice naturale precostituito e, dall’altro, la ragionevole durata del processo. Lo studio analitico dei conflitti di giurisdizione ha richiesto i dovuti approfondimenti preliminari sulla dicotomia unità/pluralità della giurisdizione, nonché sull’esatta definizione del concetto di giudice speciale, in relazione (e parziale contrapposizione) a quelli di giudice ordinario e di sezione specializzata. In termini di sintesi, si è concluso che la giurisdizione speciale non può contraddistinguersi per una carente attuazione di alcuni principi e valori fondanti in tema di giurisdizione, i quali attengono al concetto stesso di giurisdizione e la cui mancanza non consente di qualificare tali organi o procedimenti né come “ordinari” né come “speciali” in quanto, ancor prima, non rientrerebbero tra gli organi o procedimenti “giurisdizionali”. Al fine di verificare gli effettivi spazi di operatività dell’art. 28 lett. a) c.p.p. si è poi focalizzata l’attenzione sulla giurisdizione in materia penale, la quale risulta affidata ai giudici ordinari ma anche ad altri giudici speciali muniti, ad oggi, di competenze giurisdizionali penali. Nel dettaglio, si sono prese le mosse da alcuni organi che, in passato, hanno avuto giurisdizione penale e che rivestivano ruolo di parte nei conflitti di giurisdizione, come l’intendente di finanza e il comandante di porto, per riservare poi uno spazio ai tribunali militari, fino a giungere al delicato e controverso tema della Corte costituzionale come giudice speciale in materia penale. In tema di conflitti di competenza, si sono analizzati i possibili casi di conflitto di competenza per materia, territorio e connessione. Lo studio di tali conflitti di competenza si è svolto riservando spazio e attenzione ad ipotesi qualificate, quali dissenso tra tribunale in composizione monocratica e tribunale in composizione collegiale (concludendo per la sussistenza di un conflitto analogo), il conflitto che insorga nella fase delle indagini preliminari, l’ipotesi di dissenso tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del dibattimento, fino ad un caso di conflitto, affrontato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, tra magistrato di sorveglianza e giudice dell’esecuzione. Si è inoltre riservato uno spazio ai dissidi tra giudice penale e giudice civile che la Suprema Corte, in alcune occasioni, ha qualificato come conflitti di competenza. In conclusione, lo studio ha riguardato le dinamiche procedimentali tipiche dei conflitti e, segnatamente, le elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza in merito al rilievo d’ufficio e alla denuncia di parte, agli adempimenti successivi al rilievo o alla denuncia, alla comunicazione ai giudici in conflitto, nonché al divieto di sospensione dei procedimenti in corso. Inoltre, prima di soffermarsi sulle possibili risoluzioni del conflitto e sugli effetti della relativa decisione, è stato riservato un approfondimento al particolare istituto della cessazione spontanea del conflitto, sotto forma di “desistenza”.
XXIV Ciclo
1981
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
23

Barrocu, Giovanni. "Le indagini sotto copertura." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3077.

Full text
Abstract:
2007/2008
Il lavoro di stesura della tesi si è proposto, in particolare, di analizzare e approfondire la tematica dell’agente undercover – oggetto di copiosi studi nell’ambito sostanziale – sotto il meno esplorato profilo del suo inquadramento nelle dinamiche processuali, al fine di verificare la legittimità del ricorso al tale strumento, i limiti operativi dello stesso nonché il suo apporto gnoseologico alla fase dibattimentale. A tale fine, si è proceduto attraverso una iniziale ricognizione evolutiva dell’istituto partendo dalle prime ricostruzioni dottrinali dell’ottocento sino alla normativa attuale. Gli aspetti di maggiore interesse procedimentale hanno avuto ad oggetto, innanzitutto, il tentativo di chiarire i dubbi ermeneutici relativi alla sua classificazione come attività di prevenzione, ovvero come vera e propria ricerca della prova, in funzione repressiva, all’interno di un procedimento penale regolarmente instaurato. Inoltre, si è proceduto all’analisi delle diverse normativa speciali – relative, tutte, a reati di particolare gravità o allarme sociale – che sotto la vigenza del nuovo codice hanno provveduto ad introdurre la possibilità di ricorrere all’agente undercover e, nel dettaglio, a verificare quali siano i rapporti fra i diversi soggetti protagonisti delle indagini preliminari alla luce del necessario inquadramento della disciplina speciale nell’ordinario ambito codicistico di svolgimento delle investigazioni stesse. Un altro importante aspetto della ricerca riguarda la posizione processuale che l’agente sotto copertura, una volta esaurita la sua attività mascherata, viene ad assumere. In tal senso si sono registrate le diverse ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali da un lato orientate al principio del cosiddetto “recupero del sapere investigativo” e dall’altro rivolte a non limitare il diritto di difesa e, ancor di più, il principio del contraddittorio nella formazione della prova, senza dimenticare i fisiologici problemi relativi alla tutela dell’identità dell’agente sotto copertura e della propria incolumità. Tali problematiche sono state affrontate al fine di porre in luce quali siano i riflessi sull’aspetto che indubbiamente suscita il maggior interesse per la sua capacità di influenzare la decisione: l’utilizzazione probatoria dell’attività undercover. Si è infine concluso con una breve indagine comparatistica degli ordinamenti continentali e di common law al fine di trarne utili indicazioni per apporti normativi de iure condendo.
XXI Ciclo
1979
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
24

Bertoli, Marilda. "La discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena nei paesi dell'Europa dell' Est." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2008. http://hdl.handle.net/10077/2649.

Full text
Abstract:
2006/2007
I modelli del diritto penale degli ex Stati socialisti europei sono stati sostituiti nell’ultimo decennio con nuovi atti legislativi strutturati attorno ai modelli tradizionali delle codificazioni europee (e, in particolare sull’esperienza tedesca). È naturale, nonostante l’abrogazione dei vecchi testi legislativi, che essi destino un particolare interesse per lo studioso, offrendo l’opportunità di comprendere a meglio l’evoluzione e i momenti di passaggio dal vecchio al nuovo, nonché le ripercussioni sociali delle transizioni giuridiche. Questo è il risultato di un processo di intercomunicazione tra i differenti sistemi penali ed è ciò che muove l’attuale processo di transizione dei paesi ex-socialisti. Ecco, quindi, la necessità, soprattutto alla luce dei rapporti passati tra le varie legislazioni dei paesi dell’area balcanica e quella sovietica, di un’analisi comparativa, che sottolinei i momenti di distacco rispetto ai modelli del passato e faccia emergere anche eventuali elementi di continuità tra i paesi dell’area balcanica nel loro cammino verso la costruzione della legislazione post-socialista. Lo scopo è anche quello di sottolineare e far emergere eventuali tratti che caratterizzano in modo originale i nuovi sistemi postsocialisti.
XX Ciclo
1980
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
25

Sola, Guido. "Le intercettazioni di comunicazioni tra presente e futuro." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3080.

Full text
Abstract:
2007/2008
Il codice di rito penale non dà alcuna definizione della locuzione «intercettazioni di conversazioni o comunicazioni». Non di meno, dal «sottosistema normativo» ) deputato a regolare il mezzo di ricerca della prova di cui trattasi (artt. 266 – 271 c.p.p.) si ricava che intercettazione è qui sinonimo di captazione clandestina di comunicazioni o conversazioni riservate, esperita mediante l’impiego di strumenti meccanici o elettronici in grado di vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del carattere privato di queste ultime, effettuata ad opera di terzi, all’insaputa degli interlocutori ). Dalla definizione che precede – essenziale al fine di sagomare il perimetro applicativo dell’articolato in esame – parrebbe arguirsi, per un verso, che le comunicazioni riservate cui supra si è fatto cenno siano (solo) quelle attuate in forma diversa dallo scritto ); per l’altro verso, che l’attività intercettiva di cui al Libro III, Titolo III, Capo IV del codice sia (solo) quella compiuta con l’ausilio di strumenti tecnici di captazione del suono, «in grado di fissare l’evento comunicazione, onde consentirne una prova storica diretta» ), non anche quella attuata per mezzo delle comuni facoltà sensoriali umane. Se la prima tesi è corretta, la seconda sembra perfettibile. Focalizzando l’attenzione sul (solo) impiego di strumenti meccanici o elettronici, infatti, si addiverrebbe a legittimare «interferenze nella segretezza delle comunicazioni» ) non regolate dalla legge e però idonee a procurare al processo contributi conoscitivi utilizzabili. Esempio classico, quello dell’operatore di polizia giudiziaria, che, nascostosi agli interlocutori, percepisce proprio aure un dialogo segreto. Tale captazione, siccome non attuata mediante strumenti tecnici, se, da un lato, non costituirebbe «intercettazione», dall’altro lato, verrebbe ad essere utilizzata nel processo per il tramite della testimonianza dell’operatore di polizia giudiziaria, «senza la garanzia rappresentata dalla registrazione del contenuto della comunicazione» ). Alla luce di quanto precede, appare allora opportuno ricomprendere nel novero delle attività intercettive «vere e proprie» anche la captazione di comunicazioni segrete che avvenga in modo “comunque” clandestino o insidioso ). Ciò a prescindere dall’uso di congegni di percezione del suono che la legge processuale non esige a ché possa parlarsi di «intercettazione»: se è pur vero, infatti, che l’art. 268 comma 3 c.p.p. menziona, quale mezzo dell’intercettazione, gli «impianti installati nella procura della Repubblica», è altrettanto vero che siffatto richiamo non possa che avere riguardo alle intercettazioni telefoniche, telegrafiche, informatiche e telematiche, non anche alle intercettazioni di conversazioni inter praesentes, le quali, per loro stessa natura, non possono essere effettuate con impianti fissi. La qual cosa conduce a ritenere che il riferimento agli impianti di cui trattasi «[sia] ininfluente nella definizione del concetto di intercettazione» ). Definita in positivo la nozione di «intercettazione», preme evidenziare come da essa esulino vuoi le intercettazioni di frequenze presenti nella ionosfera accessibili da parte di chiunque – «non esiste tutela del veicolo semiotico nello spazio libero» ) –, vuoi l’impedimento e l’interruzione delle comunicazioni ) – mentre «l’indesiderata cognizione d’un dialogo ne pregiudica […] l’integrità sotto il profilo della segretezza, l’atto interruttivo o impeditivo ne mettono in pericolo solamente la libertà» ) –. In quest’ottica, di intercettazione non pare si possa parlare nemmeno nel caso di “controllo telefonico” di cui all’art. 284 comma 4 c.p.p. Come noto, se il comma 2 del citato art. 284 c.p.p. consente al giudice di imporre all’imputato in arresti domiciliari limiti o divieti alla facoltà di comunicare con persone terze che con lui non coabitano o che, comunque, non lo assistono, il menzionato comma 4 autorizza il pubblico ministero e la polizia giudiziaria – quest’ultima «anche di propria iniziativa» – a controllare in ogni momento l’osservanza delle prescrizioni in parola. Orbene, se nessuna perplessità si pone circa il fatto che ricorra qui una ipotesi di «impedimento» da parte dell’autorità – la norma de qua sembra consentire senz’altro di disattivare l’utenza telefonica in uso al prevenuto ) –, meno agevole è comprendere se l’art. 284 comma 4 c.p.p. introduca un ulteriore caso di intercettazione volto a controllare l’osservanza degli obblighi accessori di cui trattasi. In dottrina, accanto a chi ha affermato che la sorveglianza avverrebbe, in siffatte ipotesi, non mediante intercettazione, bensì tramite «ascolto» – «e cioè attraverso un controllo del contenuto delle telefonate […] ordinato (o autorizzato) con lo stesso provvedimento che dispone gli arresti domiciliari o […] con provvedimento successivo notificato all’interessato» –, giungendo, per questa via, a fornire al quesito risposta negativa ), si è posto chi ha concluso positivamente, reputando, tuttavia, che la captazione sia legittima solo se autorizzata dal giudice con decreto motivato ). Soluzione, quest’ultima, che, se, per un verso, si appalesa senza dubbio alcuno apprezzabile in chiave garantistica, per l’altro verso, non sembra perfettamente compatibile con il dato testuale, il tenore letterale del quale autorizza la polizia giudiziaria ad esperire i necessari controlli «anche di propria iniziativa» e, dunque, anche in assenza di preventiva autorizzazione da parte del giudice. Né pare che la soluzione del problema possa essere individuata nell’automatica estensione alla fattispecie in esame della disciplina di cui al Libro III, Titolo III, Capo IV del codice, atteso che «i presupposti di un mezzo istruttorio non sono automaticamente adattabili ad una misura cautelare» ). Escluso, dunque, che ricorra qui una ulteriore ipotesi di intercettazione, sembra corretto affermare che la norma in commento abbia inteso fare implicito riferimento ad altri istituti idonei allo scopo, quali quelli dell’acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni ) o, volendo, del materiale impedimento delle stesse da parte dell’autorità ).
XX Ciclo
1976
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
26

Marchini, Isabella. "La responsabilità penale per colpa medica: punti fermi e nuove prospettive." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10151.

Full text
Abstract:
2012/2013
L'indagine affronta gli istituti della colpa penale calati nell'ambito della responsabilà medica, tipicamente colposa. Vengono analizzati i suoi tratti salienti: linee guida, protocolli, colpa grave... Il tutto attraverso l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale fino al recente intervento legislativo l. 189/2012 che ha cercato di definire la responsabilità del medico, ma in realtà ha creato ulteriori dubbi e incertezze.
XXVI Ciclo
1985
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
27

Kapun, Ales. "L'esiguità dell'illecito penale: soluzioni a confronto in un'analisi di diritto comparato." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2009. http://hdl.handle.net/10077/3075.

Full text
Abstract:
2007/2008
Da anni ormai si va facendo strada l'idea di introdurre nel nostro sistema penale una disposizione di carattere generale che preveda l'esclusione della procedibilità o della punibilità per fatti che pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli risultano, sulla base di criteri legislativamente indicati, privi di un significativo disvalore. Di qui la scelta di sondare le diverse coordinate culturali che convergono in seno alle clausole di irrilevanza in un'ottica comparata. L’elaborato, in particolare, ha lo scopo, da un lato, di analizzare gli istituti con cui i diversi ordinamenti europei rinunciano ad applicare la sanzione o, ancora prima, a celebrare il processo volto a stabilire se ed in quale misura irrogarla, prestando particolare attenzione all'istituto sloveno del fatto di scarsa rilevanza penale, e ciò per sondarne le peculiarità e le eventuali convergenze con gli istituti introdotti dal legislatore italiano e, dall’altro, di verificare se le soluzioni elaborate dai legislatori stranieri si prestino ad essere esportate, in tutto o in parte, nel sistema penale italiano. Particolare attenzione è stata prestata all’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte slovena, al fine di cogliere eventuali mutamenti emersi dal recente pragmatismo processuale. Ancor prima, però, è stato necessario sciogliere il quesito attinente alla natura giuridica dell’istituto de quo, fonte – in questi ultimi anni – di rinnovati e serrati dibattiti dottrinali. Cumulando, poi, i risultati dell’elaborazione dottrinale con la prassi applicativa dei diversi istituti si è cercato di comprendere se l’accentuata indeterminatezza delle colonne su cui poggia l’edificio dell’irrilevanza penale del fatto possa minare le istanze di certezza del diritto e di uguaglianza fra tutti i cittadini. Non si è potuto prescindere, poi, già nella stessa parte introduttiva, da una considerazione critica delle esperienze già fatte in diversi ordinamenti penali europei e delle feconde prospettive di riforma succedutesi in Italia negli ultimi decenni. Infine, si è cercato di arricchire il percorso di ricerca con alcuni spunti comparatistici, analizzando i parametri di riferimento degli istituti di depenalizzazione in concreto attualmente vigenti nel sistema penale italiano - ossia il congegno dell’irrilevanza del fatto nel rito penale minorile e la declaratoria di “particolare tenuità” prevista dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 – e comparandoli con gli indici di esiguità dell’omologo istituto sloveno, per verificare l’eventuale necessità di affinamento e di calibratura del Tatbestand bagatellare elaborato dal legislatore sloveno. Da ultimo, poi, utilizzando i dati e le impressioni colte lungo il tortuoso percorso, si è cercato di abbozzare un modesto spunto propositivo per futuribili conquiste.
XXI Ciclo
1973
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
28

Stanig, Eva. "Principio di legalità e soft law: evoluzione o involuzione?" Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2012. http://hdl.handle.net/10077/7439.

Full text
Abstract:
2010/2011
Sommario Il principio di legalità nel diritto penale sembra avere subito in tempi recenti quello che può definirsi il processo di eterogenesi dei fini. Quanto più esso ha trovato riconoscimento incontestato tra gi studiosi, affannati ad espungere le fonti secondarie, tanto più la fonte primaria ha smarrito i connotati che ne conclamavano il valore: per un verso, in attuazione del principio di uguaglianza, la generalità e l’astrattezza; per un altro verso, in attuazione del principio di garanzia statuito a vantaggio dei destinatari della norma, la descrizione precisa e pregnante del fatto illecito e delle conseguenze punitive. Se ben deve riconoscersi, come insegnato già da Aristotele, che spetta alla legge determinare “tutto quanto è possibile”, restringendo il campo della libertà ai giudici soprattutto “perché il giudizio del legislatore non è particolare, ma riguarda il futuro e l’universale, mentre il componente dell’assemblea e il giudice giocano ogni volta su casi presenti e determinati”, incorrendo così il rischio per “amicizia, odio o utilità particolare di non vedere sufficientemente la verità, ma il piacere o il dispiacere personale”, allora è evidente come e quanto la fonte legislativa tenda attualmente a distaccarsi dai suoi fondamenti. Da un lato, la perdita di autorevolezza del legislatore determina un calo generalizzato della fiducia nella legge, vista come incapace di risolvere i nodi cruciali del diritto penale; dall’altro la giurisprudenza, “approfittando” di tale situazione, tende ad affermare la sua autorità mediante la correzione in via interpretativa dei supposti errori e delle lacune dei prodotti legislativi. Questi fattori determinano dubbi in ordine al valore oggi da attribuire alla legge, la cui supremazia dovrebbe derivare, non solo formalmente dall’organo rappresentativo che la emana, ma anche sostanzialmente da alcune peculiarità che dovrebbero caratterizzarla, quali generalità, astrattezza, stabilità, determinatezza, precisione, chiarezza, imperatività e razionalità. Tutte caratteristiche queste che sono state viste consuetamente come dirette a realizzare i valori di libertà, uguaglianza e sicurezza collettiva, di cui lo Stato si è fatto garante assoluto. Inoltre, la diluizione formale e sostanziale della sovranità, determinata, sul piano esterno, dalla moltiplicazione dei vincoli internazionali e comunitari e, su quello interno, dalla tendenza a sostituire, a livello di tecnica di regolazione giuridica, il precetto autoritario col metodo della negoziazione e del bilanciamento degli interessi dei rappresentanti dei poteri socialmente forti, solleva ulteriori perplessità sulla validità del principio di stretta legalità nel campo penale. Da non dimenticare, poi, come l’erosione del dogma, sempre alla base della legalità, della rigida sottoposizione del giudice alla legge, abbia favorito l’accrescersi dello spazio interpretativo lasciato alla giurisdizione. Procedendo con ordine, occorre subito rammentare che il senso più pregnante della garanzia apprestata dalla riserva di legge, come garantita dall’art. 25 Cost., nei confronti del c.d. potere punitivo non è solo quello della possibilità data all’individuo di regolare il proprio comportamento su una previa regola generale e astratta, ma è anche e soprattutto quello derivante dalla democraticità, che appunto individua nel procedimento legislativo il migliore sistema con cui prendere decisioni politiche. La crisi della riserva di legge consegue ad una crescente incapacità della stessa di dispiegare il suo ruolo di garanzia su entrambi i piani. Tralasciando i contorni davvero fittizi che ha assunto la garanzia della libertà di autodeterminazione offerta dalla legge al cittadino, ciò che qui rileva è la qualità della legge e della legislazione, pregiudicata dalla produzione quantitativamente inflazionistica e qualitativamente sciatta da rendere nulla più che una finzione la possibilità per il cittadino di orientare il proprio comportamento sulla base di una norma sufficientemente chiara. Ma l’aspetto che più preme è quello della garanzia recata della legge in ragione della sua democraticità, definibile come contenutistica. Su questo piano tre paiono le linee di caduta della legalità: la perdita di consistenza dello stesso principio democratico tradizionale; la trasformazione del sistema delle fonti e la loro proliferazione a scapito della legge; l’alterazione dell’originario equilibrio tra la legge e il potere giudiziario. Quanto al primo aspetto ci si interroga su quali siano i reali vettori che conducono la volontà popolare a trovare espressione nella legge, se i meccanismi della rappresentanza parlamentare o non, piuttosto, le interpretazioni che di tale volontà forniscono le concentrazioni massmediatiche e più in generale i potenti gruppi economici con la loro attività lobbistica; nel campo penale poi il carattere spesso emotivamente coinvolgente delle materie oggetto di disciplina penale finisce per accrescere il ruolo dei mass media nella formazione del necessario consenso sociale. Per quanto riguarda poi le conseguenze del passaggio al sistema maggioritario, è facile constatare come all’accentuato potere della maggioranza in sede parlamentare e governativa faccia riscontro la tendenza a protrarre il processo di formazione normativa presso gli organi di garanzia, quali Corte costituzionale e Presidente della Repubblica. Il fatto è poi che la democrazia non costituisce più l’unico asse su cui si regge il sistema istituzionale. In primo luogo si assiste al diffondersi dell’opera interpretativa dei giudici, per non parlare delle decisioni della Corte Costituzionale. Infatti, sebbene la Corte Costituzionale abbia consolidato un rigoroso self restreint quanto alle questioni di costituzionalità in malam partem, ciò non ha evitato, da parte della stessa, manipolazioni di disciplina talvolta davvero innovative e creative, con effetti favorevoli per il reo. Basti all’uopo pensare alle c.d. sentenze additive di principio, con cui la Corte dichiara l’incostituzionalità di una omissione legislativa: esse, enunciando anche il principio a cui dovrà ispirarsi il legislatore se e quando deciderà di provvedere, implicano, per un verso, forti limiti al quomodo dell’eventuale disciplina legislativa e, per altro verso, conferiscono da subito al giudice il potere-dovere di tradurre sul piano operativo il principio affermato. In secondo luogo, non è possibile non prendere d’atto che alla volontà e certezza alla base della legalità di stampo illuminista, in grado quindi di controllare previamente il conflitto di interessi, si è sostituita l’idea del diritto come strumento di governance dei plurimi interessi in gioco. Alla volontà unitaria del precetto penale si sostituiscono, più che le volontà dei giudici e delle parti chiamati a confrontarsi con la fattispecie, le valutazioni che essi opereranno per rendere la disciplina coerente con gli obiettivi strategici del sistema; dunque, governance al posto di volontà prescrittiva. Questo mutamento comporta nella pratica che alla rigidità descrittiva della fattispecie penale si sostituisca l’indicazione legislativa di parametri, criteri e obiettivi di disciplina; alla certezza della decisione giuridica, sintomo di onnipotenza del diritto, è subentrato l’equilibrio che è, invece, il risultato di un diritto che riconosce la molteplicità delle forze e la conseguente difficoltà delle scelte decisionali e per questo vi appresta degli strumenti per arrivarvi. In terzo luogo, non si può non osservare come la realtà, sempre più pervasa dalla tecnologia, abbia determinato lo spostamento del baricentro normativo dall’organo parlamentare all’apparato amministrativo, con tutta la fioritura di autorità indipendenti e organi tecnici dotati di specifiche competenze comprensive di poteri normativi. Quanto al secondo piano del discorso attinente alle fonti, si può osservare come la maggior parte degli atti parlamentari aventi un contenuto provvedimentale sono quelli elaborati all’esterno attraverso la c.d. contrattualizzazione del processo di formazione della decisione normativa, mentre le poche leggi di principio spesso assumono valore simbolico o si limitano a comporre il conflitto ideologico che sta alla loro base solo grazie a formulazioni ambigue e indeterminate, tali cioè da esprimere solo in apparenza una volontà parlamentare, rimettendo, nella realtà, la decisione agli organi dell’applicazione. Ma ciò che segna la crisi della legge penale è, come noto, l’incremento delle fonti primarie di origine governativa: dopo l’alt dato dalla Corte Costituzionale all’abuso del decreto legge, si è aperta la stagione del decreto delegato. I requisiti costituzionali della delegazione legislativa hanno subito un progressivo allentamento nella prassi, ma è soprattutto con l’invenzione dei decreti delegati correttivi che si è ottenuto il risultato di un prolungamento della delega che tende a stabilizzare nel Governo il potere di normazione primaria. In questo quadro si inserisce anche il procedimento di attuazione delle direttive comunitarie, affidato appunto ad un meccanismo che fa congiuntamente ricorso alla delegazione legislativa e alla delegificazione. In ogni caso, data la quantità di direttive che ormai condizionano la fisionomia attuale dell’ordinamento, ne risulta per questa via potenziato il ruolo delle fonti primarie di origine governativa. Naturalmente si potrebbe osservare, non senza fondamento, che la crisi della legge riguarda l’ordinamento nel suo complesso, mentre il diritto penale dovrebbe esserne immune stante la riserva di legge costituzionalmente sancita in materia. Ma è altrettanto vero che il diritto penale non può ritenersi avulso dalla realtà, condividendo, in misura maggiore o minore, le sorti dell’intero ordinamento, sollecitato com’è, anch’esso, ad aprirsi al pluralismo delle fonti da fattori sia interni che esterni. Invero, se il quadro sopra descritto concerne i fattori interni della crisi del principio della riserva di legge, non si può fare a meno di notare come elementi di minaccia promanino anche dall’esterno; all’uopo occorre distinguere tra diritto comunitario e quello internazionale. Nello scenario mondiale domina ancora lo strumento convenzionale, il quale fa salva la sovranità nazionale e il ruolo del Parlamento, chiamato ad autorizzare la ratifica delle sempre più numerose convenzioni internazionali multilaterali. Tuttavia la libertà dell’organo parlamentare appare piuttosto limitata: da un lato, le convenzioni concernenti la materia penale paiono sempre più dettagliate, perché si spingono non solo a formulare modelli minuziosi di fattispecie ma, non di rado, vincolano gli Stati anche a livello del trattamento sanzionatorio; dall’altro, l’oggetto di tali atti normativi è sempre più spesso tale da imporre obblighi sempre più difficilmente eludibili dagli Stati. Si assiste pertanto ad un fenomeno di grande interesse sul piano delle fonti, caratterizzato dalla riduzione del margine di discrezionalità del legislatore nazionale di fronte ad atti convenzionali e di fatto cogenti, i quali per un verso traggono origine da organi privi di legittimazione democratica e per altro verso si rivelano dotati di una particolare autorevolezza derivante da una legittimazione fattuale fondata sulla capacità di soddisfare bisogni di tutela ovunque condivisi. Passando all’ordinamento comunitario si assiste, oltre al già menzionato meccanismo di recepimento predisposto dalla legge comunitaria annuale, sia all’estensione della competenza penale dell’Unione europea ad opera del Trattato di Lisbona, che al sempre più ampio ricorso a direttive, a loro volta sempre più stringenti e dettagliate, anche riguardo al profilo sanzionatorio, così che anche qui il ruolo della volontà parlamentare nella produzione del diritto penale risulta ridotta. Il descritto stato di crisi del principio di legalità è costretto, altresì, a fare i conti con il diffondersi, nel nostro ordinamento, di un nuovo fenomeno di natura esogena: il (o anche la) soft law, locuzione traducibile in italiano come diritto leggero, ovvero morbido, ovvero soffice, ovvero attenuato. Con tale espressione si intende far riferimento ad una moltitudine variegata di atti latu sensu normativi, accomunati dall’assenza del requisito della forza cogente, che, appunto, sembrava essere l’essenza della nozione di norma giuridica. Alla luce di tale definizione risulta allora evidente come affrontare la tematica della soft law significhi affrontare un paradosso. Innanzitutto perché all’interno di tale categoria vengono ricompresi una congerie di atti che, seppur privi di efficacia obbligatoria, dispiegano comunque degli effetti giuridici. Secondariamente, ma non certo per importanza, tale ambiguità emerge, con immediatezza dall’accostamento dell’aggettivo soft al termine law: il diritto è, infatti, per tradizione considerato hard, ossia obbligatorio. Secondo l’impostazione maggioritaria, infatti, un soft law privo di effetti legali non è law, laddove un soft law fornito di essi è sicuramente hard law. Nonostante tale posizione tradizionale prevalente, alcuni studiosi, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso hanno cominciato, nell’ambito del diritto internazionale, a prospettare la possibilità di immaginare l’esistenza di un tertium genus di fonte di produzione del diritto, nascente in risposta alla complessità giuridica della globalizzazione. Lo sviluppo del diritto soffice testimonierebbe, in tal senso, la possibilità di ingresso nel circuito della giuridicità di soggetti nuovi, non sempre formalmente titolari delle competenze necessarie per produrre un diritto “a denominazione di origine controllata”. Ciò implica anche la creazione di un circuito giuridico che attiva logiche e processi che superano il criterio essenziale dell’obbedienza. In pratica, non si tratta solo di un percorso di perdita del carattere verticale del diritto, ma anche in un certo senso di un rimodellamento del suo criterio di legittimazione, che non è più affidato alla forma, ma piuttosto ad un contenuto o a delle modalità che sappiano riscuotere l’adesione dei destinatari, indipendentemente dalla previsione di sanzioni. Alla luce delle descritte peculiarità della normativa attenuata, tutto il sistema penale, hard law per eccellenza, sembra muoversi in una direzione antitetica a quella della soft law. In particolare, questa antinomia si appalesa in tutta la sua chiarezza ove si mettano a confronto alcune caratteristiche fondamentali delle due normative: se l’unico organo di produzione abilitato in campo penale è, ai sensi dell’art. 25 Cost., il Parlamento, in quello attenuato gli enti legittimati sono plurimi e non sono solo statali, substatali o sovranazionali, ma anche espressivi di poteri non necessariamente a carattere territoriale; mentre le norme soffici possono anche limitarsi a porre degli obiettivi, quelle penali devono essere formulate quanto più possibile in modo chiaro e preciso, indicando inequivocabilmente i comportamenti vietati; laddove i destinatari delle norme attenuate coincidono spesso con i soggetti produttori delle stesse e si indirizzano solitamente a categorie ben individuate di soggetti, le norme penali generalmente si rivolgono in maniera indifferenziata a tutti gli individui presenti sul territorio statale; se il diritto debole costituisce un diritto meramente esortativo, diretto a persuadere più che ad obbligare, risultando pertanto privo di sanzioni, all’opposto il diritto penale è il ramo dell’ordinamento giuridico più di ogni altro vincolante; la normativa leggera prescinde dal tradizionale modello delle fonti kelseniano di tipo piramidale, su cui il sistema penale si fonda, per collocarsi all’interno di un modello improntato ad una logica reticolare, senza gerarchie; la soft law è per definizione destinata ad operare in ogni ambito, da quello angusto di una singola impresa a quello sconfinato del mercato globale, mentre il diritto penale è la branca meno universalizzabile, perché simbolizza la sovranità nazionale e la cultura di ciascun popolo; infine, se il diritto penale si caratterizza per un elevato tasso di rigidità e stabilità, dati i beni giuridici che va a tutelare, all’opposto il diritto morbido si esprime con strumenti non solo flessibili, ma anche mutevoli, per meglio rispondere alla rapida evoluzione della società. Tale insanabile antinomia tra diritto soffice e diritto penale pare però, ad un’attenta analisi del panorama giuridico attuale, più astratta che reale, ove solo si consideri quanto detto in apertura sulla crisi dei principi di legalità e della riserva di legge e sulla progressiva alterazione di alcuni tratti peculiari del diritto penale.
XXIV Ciclo
1984
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
29

Guerri, Daniele. "L'evoluzione della nozione di rifiuto e i suoi riflessi penali." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2011. http://hdl.handle.net/10077/4483.

Full text
Abstract:
2009/2010
Il lavoro ripercorre le tappe dell’evoluzione della nozione di “rifiuto” nella normativa, giurisprudenza e dottrina italiane, a partire dal suo ingresso nel nostro ordinamento con la disciplina tracciata dal diritto pretorio prima dell’introduzione di una disciplina ad hoc, per proseguire con le definizioni contenute nel d.P.R. 915/1982 prima, nel decreto Ronchi poi, e infine nel codice ambientale del 2006, attraverso l’aggiornamento ad opera del d.lgs. n. 4 del 2008 e, da ultimo, del recentissimo d.lgs. 205/2010. Al contempo la ricostruzione storica si occupa di analizzare i rapporti tra la normativa interna e quella comunitaria: a tal fine viene presa in esame anche la legislazione europea, a partire dalla direttiva n. 442/1975/CEE fino all’ultima direttiva n. 98/2008/CE. La portata della nozione di rifiuto, delimitando l’applicazione di tutte le fattispecie penali di cui essa è elemento costitutivo, è stata oggetto di acceso dibattito per oltre un trentennio: l’importanza del tema è rispecchiata dall’incredibile numero di pronunce di legittimità che nel tempo si sono occupate della questione. La tesi, pertanto - e primariamente - analizza il susseguirsi delle modifiche normative e delle interpretazioni dottrinarie e giurisprudenziali della nozione di rifiuto, nonché, ed in particolar modo, dei concetti contigui di sottoprodotto e materia prima secondaria, limiti esterni della prima. L’analisi è svolta con particolare attenzione ai numerosi interventi legislativi, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di giustizia delle Comunità europee, di cui si è tentato di delineare e ripercorrere le linee evolutive, avendo cura di correlare gli ambiti tra loro, e prestando particolare attenzione al rispetto della cronologia con cui interventi normativi ed interpretazioni giurisprudenziali si sono susseguiti nel tempo. Il lavoro, inoltre, cerca di inserire la tematica della nozione di rifiuto nel contesto del diritto penale ambientale. Sotto questo profilo prende in esame i principi alla base della politica europea in materia e il loro influsso, quali direttrici di politica legislativa, sull’applicazione del diritto penale nazionale con specifico riferimento alla disciplina dei rifiuti. La tesi, in particolare, ritiene di individuare un legame fondamentale tra principio di precauzione, obiettivi di elevata tutela ambientale ed indeterminatezza della definizione di rifiuto, in certa misura necessitata dall’impostazione adottata dalle istituzioni europee sulla materia. Da questa angolazione, l’evoluzione comunitaria della nozione di rifiuto è analizzata sotto la lente della progressiva relativizzazione dei suddetti principi e sul loro venire in bilanciamento con quelli contrapposti della praticabilità economica, della fattibilità tecnica e della protezione delle risorse, che ha condotto alla codificazione, anche in ambito europeo, della definizione di sottoprodotto, e ad un complessivo avvicinamento tra direttiva quadro sui rifiuti ed istanze provenienti dal legislatore nazionale. Nel ripercorrere l’evoluzione della portata della nozione di rifiuto, il lavoro ha cercato comunque di non limitarsi al problema esegetico, prendendo le mosse dalle questioni sollevate dalla formulazione della definizione, per evidenziare e approfondire i nodi problematici da esse messi in luce. In particolare, la tesi affronta le questioni sollevate dal’indeterminatezza della nozione di rifiuto con riferimento al principio di tassatività; indaga i riflessi sul processo penale del sistema definitorio di ispirazione comunitaria; si occupa dei rapporti tra fonti nazionali ed europee e tra giurisdizione nazionale ed europea. Per questa via la tesi individua e cerca di analizzare le tensioni create nel sistema di garanzie del nostro ordinamento dalle istanze di tutela provenienti dalla Comunità europea, segnatamente in materia ambientale. Sotto quest’ultimo profilo, risulta di particolare interesse il contrasto tra normativa nazionale ed europea avviato dall’interpretazione autentica di rifiuto di cui al’art. 14 d.l. 138/02: la ricognizione delle reazioni di dottrina e giurisprudenza all’iniziativa del legislatore nazionale consente di interrogarsi sui limiti di soggezione del legislatore italiano a quello europeo e sui percorsi istituzionalmente corretti per far valere la preminenza del diritto comunitario non autoapplicativo, segnatamente quando questo possa avere ricadute in malam partem in materia penale. Da questo punto di vista, rivestono grande interesse le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di legittimità e di merito per contrasto della normativa nazionale con quella comunitaria e, da ultimo, la posizione adottata dalla Consulta con la sentenza n. 28 del 2010.
XXII Ciclo
1976
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
30

Marando, Gabriella. "L'acquisizione della prova scientifica nel processo penale." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2010. http://hdl.handle.net/10077/3447.

Full text
Abstract:
2008/2009
Con il presente studio ci siamo proposti di analizzare l’impatto che il proliferare della cd. prova scientifica ha sortito sul procedimento di formazione della prova penale. In via preliminare, si è avvertita la necessità di porre le premesse per una definizione della locuzione di “prova scientifica” che ne chiarisse le peculiarità gnoseologiche rispetto agli strumenti di conoscenza tradizionali. In tale prospettiva, si ritiene che il quid caratterizzante la scientific evidence sia costituito dall’impiego del metodo scientifico al fine della formazione della conoscenza, dovendo riservarsi, per questa via, la qualifica di scientificità ai soli elementi di prova che derivano da un procedimento formativo di verificazione hempeliana e falsificazione popperiana, il quale si concreta nella sottoposizione dell’ipotesi a continue sperimentazioni e falsificazioni, con conseguente individuazione di un margine intrinseco di errore. L’adozione di tale definizione non è priva di riverberi sul piano processuale, in quanto impone l’abbandono della concezione fideistica della scienza in favore di una nozione di metodo scientifico fallibilista e suscettibile di controllo circa la sua attendibilità epistemologica e la correttezza d’impiego da parte del sistema processuale d’adozione. La centralità del controllo sull’an e sul quantum di scientificità del metodo di formazione della conoscenza deve essere improntato, per un verso, all’autonomia del giudice nei confronti della comunità scientifica di riferimento e alla percezione della scienza come contesto culturale in evoluzione, all’interno del quale anche un metodo scientifico o tecnologico accettato e utilizzato nella prassi può essere messo in discussione dall’emergere di teorie innovative. Per altro verso, a fronte dell’elaborazione degli ormai noti parametri di controllo, discretivi tra good science e junk science, elaborati dalla giurisprudenza nordamericana ad opera delle pronunce componenti la trilogia Daubert-Joiner-Kumho al fine di erigere una griglia di sbarramento delle conoscenze non affidabili operante nella fase di ammissione della prova, si ritiene, sulla scorta della concezione corpuscolariana della conoscenza, che non si possa procedere ad una passiva e acritica operazione di innesto di tali parametri nel contesto processuale, ma che la valutazione di affidabilità del metodo scientifico debba essere contestualizzato in relazione ai paradigmi, alle categorie processuali e alle scansioni in cui si articola il procedimento probatorio delineato dal c.p.p. 1988. In una prospettiva speculare, l’operazione volta alla riconduzione della scientific evidence nell’alveo dell’architettura complessiva del procedimento di formazione della prova non ha ignorato che la complessità e il grado elevato di specializzazione della conoscenza scientifica richiede un apparato di strumenti giuridici idonei a consentire il controllo giudiziale sull’idoneità epistemologica del metodo impiegato, il rispetto dei protocolli d’uso e la coerenza interna del risultato probatorio. In quest’ottica, si sono affrontate le questioni, logicamente interdipendenti, attinenti, l’una, ai modelli probatori attraverso cui introdurre le conoscenze scientifiche nel processo, e, l’altra, alle tecniche dinamiche di acquisizione processuale del sapere scientifico. La prima questione pone l’interprete di fronte ad un sentiero che si biforca nelle direzioni della tipicità o della atipicità probatoria. Con l’adesione alla tesi volta all’inquadramento della conoscenza scientifica nel catalogo dei mezzi tipici abbiamo ritenuto di valorizzare la sistematica del codice laddove esso offre una gamma di strumenti nominati – a partire dalle tecniche di indagine ex artt. 354, 359 e 391-sexies c.p.p. fino a giungere ai mezzi di prova della perizia e della consulenza tecnica endoperitale ed extraperitale – aventi la funzione di consentire l’ingresso della scienza nel processo. L’opzione esegetica de qua è rafforzata dalle seguenti considerazioni. In primis, riteniamo che la tecnica di formulazione della fattispecie dell’art. 220, richiamato per relationem dall’art. 233 c.p.p., a guisa di una “norma in bianco”, suscettibile di trovare riempimento con il rinvio a metodi e tecniche extragiuridiche, sia sintomatica di una prevalutazione legislativa che attesti, da un lato, l’idoneità dei suddetti mezzi di prova ad accogliere nel loro alveo quegli apparati di strumenti tecnologici che, in ragione tanto del continuo sviluppo della scienza quanto della loro natura extralegale, non si prestano ad essere tipizzati in un catalogo; e, dall’altro lato, l’opportunità di sottoporre il metodo tecnico-scientifico alla dialettica della prova e controprova in cui si articola il rapporto tra perizia e consulenza tecnica e alla medesima dinamica di acquisizione probatoria tipizzata in funzione dell’assunzione al processo dei suddetti mezzi di prova. In secundis, il parametro legale dell’art. 220 c.p.p. si presta ad accogliere nel suo ambito applicativo – articolato nella triplice scansione dello svolgimento di indagini, acquisizione di dati e acquisizione di valutazioni da parte dell’esperto – sia la fase in cui il perito procede a proprie indagini tecniche facenti capo a risultati probatori fruibili dal giudice, sia la fase predisposta al controllo dei medesimi risultati e volta ad offrire all’organo giudicante gli strumenti di valutazione intorno alla idoneità probatoria astratta e alla attendibilità e rilevanza in concreto del metodo utilizzato. In tertiis, il conferimento alla prova per esperti del ruolo di trait d’union in funzione dell’ingresso della scienza nel contesto processuale valorizza al massimo grado il diritto di difendersi provando, inteso nella particolare declinazione del diritto a difendersi mediante il contributo di esperti, e il principio della formazione dialettica della conoscenza come canone epistemologico del processo penale. Tale considerazione pone le premesse per la soluzione della seconda questione problematica, afferente alla definizione delle modalità acquisitive della prova scientifica nelle scansioni tipiche dell’assunzione della prova per esperti. L’opzione qui accolta può essere apprezzata da un duplice angolo visuale. Da un lato, si consideri che la disciplina legislativa regolante la formazione della perizia prevede l’allestimento di un contraddittorio endoperitale sia in sede di formulazione dei quesiti sia durante la fase di esecuzione delle operazioni, all’interno del quale i consulenti di parte sono posti in grado di sindacare le scelte dell’esperto sia sotto il profilo della validità astratta del metodo impiegato sia dal punto di vista della sua idoneità in relazione al caso concreto, consentendo loro di controllare la correttezza delle modalità di esecuzione dall’interno della formazione della prova. Dall’altro lato, l’articolazione delle relazioni intercorrenti tra perizia e consulenza tecnica extraperitale rafforza le possibilità di interlocuzione delle parti mediante la realizzazione di una dialettica estrinseca tra i mezzi di prova tecnico-scientifici rimessi alla loro disponibilità. Tale ordine di considerazioni riveste una particolare importanza nelle ipotesi di acquisizione di elementi di prova promananti da settori della scienza o della tecnica che si avvalgano, al loro interno, di differenti metodi di formazione del dato cognitivo. E’ quanto accade, ad esempio, nel settore della tecnica di individuazione vocale, caratterizzata da una contrapposizione tra i metodi spettrografico e parametrico; o, ancora, nell’ambito della genetica forense, attesa la varietà di protocolli applicativi che presiedono all’estrazione del profilo del Dna (quali, a titolo esemplificativo, l’elettroforesi, la sequenziazione del Dna, la spettrometria di massa, il southern blotting); o, infine, nel settore della computer forensic, sol che si pensi ai differenti tools volti all’estrazione del dato informatico dall’elaboratore. Orbene, in tali casi la dialettica interna ed esterna in cui si articolano le relazioni tra i mezzi di prova per esperti consente alle parti di proporre, ciascuna mediante il proprio consulente, una ricostruzione del thema probandum basata sul metodo scientifico ritenuto più affidabile e di esporre nella relazione le ragioni a sostegno della maggiore idoneità epistemologica dello strumento tecnico-scientifico prescelto. Sebbene le clausole degli artt. 506 e 507 c.p.p. siano ostative alla configurazione di un onere perfetto, in capo alla parte che chiede l’acquisizione della prova al processo, di addurre la dimostrazione completa ed esauriente dei requisiti di idoneità ed affidabilità probatoria della prova assumenda, non vi è dubbio che essa sia, quantomeno, portatrice di un interesse all’esposizione dei criteri favorevoli che indirizzino la valutazione del giudice in direzione della utilizzabilità della prova in sede di decisione e dell’attribuzione di un grado elevato di efficacia probatoria. E’ di tutta evidenza, a questo punto, che l’impostazione prescelta costituisce un valido antidoto al cd. paradosso del giudice peritus peritorum, il quale, in sede di valutazione delle tecniche probatorie che si segnalano per l’alto grado di specializzazione, non dovrà operare il vaglio inerente alla scientificità ed affidabilità del metodo scientifico di volta in volta prospettatogli attraverso un dialogo solitario interno alla sua mente ma possa valersi dell’ausilio offerto dai contributi di segno opposto promananti dalle parti attraverso i propri esperti. Non può essere sottaciuto, tuttavia, che la validità di tale ricostruzione è subordinata al verificarsi di due condiciones sine qua non. La prima condizione consiste nell’adesione alle teorie, elaborate dalla dottrina e accolte solo da una parte della giurisprudenza, volte ad affermare la natura marcatamente probatoria della perizia e della consulenza tecnica e la loro esclusione dal novero degli strumenti ancillari, rispettivamente, al giudice e alla difesa. Dove si continuasse a sostenere il carattere neutro o il valore argomentativo delle ricostruzioni offerte da tali mezzi di prova, il sistema appena delineato verrebbe privato delle sue fondamenta. La seconda condizione consiste nell’accoglimento del principio secondo cui la formazione della prova peritale non si esaurisce con la produzione dell’elaborato scritto ma avviene nel contraddittorio, sottoponendo l’esperto al fuoco incrociato delle domande e delle contestazioni in funzione di controllo della attendibilità della prova e della individuazione di eventuali errori nell’applicazione al caso di specie. Nella prospettiva del potenziamento del controllo scientifico, inteso quale metodo elettivo di controllo dell’apporto tecnico-scientifico, in quanto idoneo a testarne la hempeliana forza di resistenza mediante tentativi di demolizione della sua attendibilità gnoseologica e prospettazioni di ricostruzioni fattuali alternative, non pare si possa prescindere dal riconoscimento, in capo alla parte avente un interesse contrario, del diritto alla sottoposizione dell’esperto al controesame, cui corrisponde, sul piano formale, l’onere della citazione del perito ai sensi dell’art. 468 c.p.p. in capo alla parte interessata alla sua assunzione e anche nei casi in cui questa avvenga in dibattimento. In tale prospettiva, il deposito della relazione dell’esperto, corredata dai protocolli applicativi del metodo prescelto e delle pubblicazioni scientifiche, deve essere concepita come supporto documentale funzionale alla preparazione dell’escussione orale e, per tale via, al vaglio sulla rilevanza del metodo al caso concreto e sul rispetto dei suddetti protocolli, ma non può assumere valore probatorio se non a seguito dell’esame dell’esperto.
XXII Ciclo
1976
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
31

Spinelli, Adriano. "Responsabilità degli enti e reati informatici: profili sostanziali e processuali." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8627.

Full text
Abstract:
2011/2012
L’ingresso, all’alba del nuovo millennio, della responsabilità penale delle persone giuridiche ha rappresentato una innovazione di non poco momento nel panorama giuridico italiano. Superato il dogma societas delinquere non potest, l’impresa diviene imputabile per i reati commessi, nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone ad essa intranee. Altro intervento legislativo di particolare rilievo è dato dalla legge sulla criminalità informatica del 18 marzo 2008 n. 48; con essa si rinnova la disciplina dettata nei primi anni Novanta dello scorso secolo, con la l. 23 dicembre 1993 n. 547. I primi capitoli del presente lavoro mirano a coniugare le tematiche accennate, prendendo spunto dall’introduzione nel d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 dell’art. 24-bis, attraverso il quale la responsabilità dell’ente viene in essere laddove siano commessi crimini informatici. In particolare, delineati nel primo capitolo i profili storico-comparatistici della responsabilità “penale” dell’impresa, nel secondo capitolo viene ricostruito il complesso meccanismo di imputazione elaborato dal legislatore italiano: l’interesse o il vantaggio dell’ente derivante dal reato commesso da un “apicale”, ovvero da un “subordinato”. Segue l’analisi dei modelli di organizzazione, gestione e controllo previsti dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001, dei quali si espongono ed esaminano la struttura e la funzione. Il terzo capitolo concerne il menzionato art. 24-bis del decreto. Premessi taluni cenni circa l’evoluzione legislativa in materia di criminalità informatica, l’attenzione si focalizza sul contenuto del dettato normativo: i reati presupposto puntualmente individuati, da un lato, e le sanzioni (e misure cautelari) previste, dall’altro lato. Il quarto ed ultimo capitolo ha ad oggetto le disposizioni processuali della l. n. 48 del 2008, con le quali si è proceduto alla tipizzazione dei mezzi di ricerca della prova digitale: ispezione, perquisizione e sequestro di dati informatici. Una innovazione di non poco conto, si diceva, la quale, tuttavia, desta talune perplessità. Poste in luce le molteplici criticità evidenziate dalla dottrina, sono suggeriti alcuni interventi correttivi, necessari per garantire la corretta elaborazione dell’evidenza digitale.
XXV Ciclo
1984
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
32

Fabbretti, Silvia. "Il pubblico ministero europeo tra esigenze sovranazionali e Costituzione italiana." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2014. http://hdl.handle.net/10077/10144.

Full text
Abstract:
2012/2013
La tematica del pubblico ministero europeo si inserisce nel quadro dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell'Unione europea e prende le mosse dalle difficoltà della lotta ai reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione europea. Il contesto nel quale si sono inseriti i vari progetti di studio è caratterizzato, infatti, dall'insufficienza delle indagini e dell’azione penale nei confronti degli autori di reati che colpiscono beni di rilevanza sovranazionale: la lotta a queste condotte fa leva sui meccanismi di cooperazione giudiziaria che si sono rivelati farraginosi e complessi e si traducono in scarsa efficacia repressiva di tali fenomeni. Il “valore aggiunto” di un organo europeo starebbe proprio nella maggiore facilità di coordinamento e nella comprensione della dimensione europea della condotta – non ancorata alla visione strettamente nazionale – che permetterebbero di superare la frammentazione investigativa e repressiva. Dopo alterne fasi di dibattito, la figura del pubblico ministero europeo torna a ricoprire un ruolo centrale nel panorama europeo: nell'estate del 2013 la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento per l’istituzione di una procura europea per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Questo progetto nasce su fondamenta più solide rispetto alla ricerca “pilota” del Corpus Juris: la differenza, infatti, è rappresentata dalla base giuridica, novità dettata dal trattato di Lisbona, che all'art. 86 TFUE prevede espressamente la possibilità di creare un organo di accusa europeo. I lavori per l’istituzione di un accusatore europeo saranno indubbiamente lunghi e complessi: il fatto che gli Stati abbiano già sollevato alcune critiche, taluni richiamandosi alla propria sovranità, fornisce la misura dei delicati equilibri che circondano il tema. La proposta, tuttavia, rappresenta un’importante tassello nell'evoluzione dell’Unione europea, nell'ottica di uno spirito di vera integrazione: è una sfida che abbraccia il futuro del processo penale europeo e pone sul tappeto una serie di profili che meritano approfondimento, in particolare in relazione alla “tenuta” dei principi costituzionali sottesi al nostro sistema penale. Il riferimento è soprattutto a due principi cardine dell’ordinamento italiano: obbligatorietà dell'azione penale, da un lato, e giudice naturale precostituito per legge, dall'altro.
XXVI Ciclo
1983
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
33

Chicco, Donatella. "Profili penali negli appalti pubblici: dallo schema legislativo alla normativa antimafia." Doctoral thesis, Università degli studi di Trieste, 2013. http://hdl.handle.net/10077/8610.

Full text
Abstract:
2011/2012
La presente trattazione affronta un settore specifico del diritto penale con l’obiettivo di contribuire alla riflessione su una materia, quella degli appalti pubblici, che è in continua, magmatica evoluzione e costantemente al centro dell’attenzione giuridica non meno che politica e sociale. Del resto, è ormai da due decenni che il settore delle gare d’appalto italiano è testimone di una serie di cambiamenti che, da un lato, sono la conseguenza di un necessario adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria, ma, dall’altro, rappresentano i diversi passaggi della vita economica ed istituzionale del Paese. Il primo aspetto considerato interessa la ricostruzione del contesto entro il quale si colloca il Codice dei contratti, per poi passare alla legislazione penale con particolare riferimento ai reati dei pubblici ufficiali e dei privati contro la Pubblica amministrazione, fino ad arrivare alle più recenti evoluzioni legislative, prime fra tutte le nuove disposizioni introdotte dal Codice antimafia. In una seconda fase vengono affrontate tematiche rilevanti, sia in dottrina che in giurisprudenza, quali la disciplina relativa alle cause di esclusione dei soggetti concorrenti alla contrattazione pubblica, ai sensi dell’art. 38 del d.lgs. 163/2006 e s.m.i. Sotto un profilo strettamente penalistico, sono messe in luce le criticità di un sistema vittima di una evidente iper-regolamentazione che ha comportato solo il proliferare, a ritmo incalzante, di regole, sia sostanziali che processuali, le prime doppiate, poi, in gran parte, nelle varie sedi regionali e, infine, accompagnate da sempre più analitiche disposizioni regolamentari. Nell’ambito di questo percorso, l’indagine prosegue approfondendo il sistema di condizionamento mafioso all’interno delle gare ad evidenza pubblica e le misure adottate dal nostro ordinamento per arginare tale fenomeno. Infine, si allungherà lo sguardo ad altri sistemi penali e, in particolare, a quelli europei di civil law, nonché alle più recenti iniziative sovranazionali nel campo della lotta alla criminalità organizzata, al fine di completare il bagaglio di conoscenze utili per proporre alcune ipotesi di riorganizzazione normativa concernente i temi trattati, in un’ottica di semplificazione e di perfezionamento del sistema delle gare d’appalto.
XXV Ciclo
1982
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
We offer discounts on all premium plans for authors whose works are included in thematic literature selections. Contact us to get a unique promo code!

To the bibliography