Journal articles on the topic 'Fondamento normativo'

To see the other types of publications on this topic, follow the link: Fondamento normativo.

Create a spot-on reference in APA, MLA, Chicago, Harvard, and other styles

Select a source type:

Consult the top 37 journal articles for your research on the topic 'Fondamento normativo.'

Next to every source in the list of references, there is an 'Add to bibliography' button. Press on it, and we will generate automatically the bibliographic reference to the chosen work in the citation style you need: APA, MLA, Harvard, Chicago, Vancouver, etc.

You can also download the full text of the academic publication as pdf and read online its abstract whenever available in the metadata.

Browse journal articles on a wide variety of disciplines and organise your bibliography correctly.

1

Sgreccia, Elio, and Marina Casini. "Diritti umani e bioetica." Medicina e Morale 48, no. 1 (February 28, 1999): 17–47. http://dx.doi.org/10.4081/mem.1999.808.

Full text
Abstract:
Esiste un legame tra la riflessione sulla bioetica e quella sui diritti umani? Lo scritto muove da questo interrogativo per giungere dopo un’articolata analisi alla conclusione che il limpido e chiaro riconoscimento della dignità e del conseguente diritto alla vita di ogni essere umano a partire dalla fecondazione costituisce terreno e presupposto comune delle due discipline e, allo stesso tempo, è ciò che consente loro di non navigare verso le derive individualistiche dell’utilitarismo e del relativismo etico. L’analisi del rapporto fra diritti umani e bioetica parte da un dato storico e cioè dalla svolta che il processo di Norimberga e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo hanno impresso nel cammino dell’umanità. Questa nuova tappa accompagna gli albori del “filone giuridico-normativo della bioetica” che nel corso degli anni assumerà sempre maggior consistenza, tanto da sfociare in un autonomo campo di riflessione noto sotto il nome di “biodiritto” o “biogiuridica”. A riguardo l’articolo presenta una disamina ricognitiva (non esente da osservazioni di tipo valutativo) dei principali documenti giuridici nazionali e internazionali che si occupano di “questioni di bioetica”. Dal ricco affresco di questi emerge da un lato la constatazione di un rapporto che esprime la necessità di un’integrazione fra diritti umani e bioetica, dall’altro l’urgenza di dare un solido ed autentico fondamento agli uni e all’altra. È questa una problematica di cruciale importanza, perché sia i diritti umani che la bioetica risentono di una crisi metafisica tanto più evidente e acuta quanto più ci si avvicina ai momenti di maggiore precarietà e debolezza dell’esistenza umana, nei quali la vita umana “è”, semplicemente “è”. In questo senso, l’embrione umano è l’emblema di ogni povertà ed emarginazione. La via d’uscita dalla “crisi” e dunque la ricerca del fondamento - sia per i diritti umani che per la bioetica - va trovata all luce della dignità umana, sempre presente con la stessa forza e intensità in tutti e in ciascuno, da rispettare e promuovere in primo luogo nel rispetto e nella promozione del diritto ad esistere che della dignità è la prima manifestazione, la più immediata concretizzazione.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
2

Binetti, Paola. "Etica della relazione terapeutica in psichiatria." Medicina e Morale 49, no. 1 (February 28, 2000): 85–102. http://dx.doi.org/10.4081/mem.2000.751.

Full text
Abstract:
L’etica pone alla psichiatria una serie di interrogativi molto precisi, che possono essere sintetizzati in una triade così strutturata definizione del quadro antropologico di riferimento: identificazione dei criteri di qualità della relazione terapeutica; consapevolezza che il contesto in cui il paziente inserito è contestualmente fattore di sofferenza e risorsa irrinunciabile. Le tre domande rispondono ad un’ottica multifocale che assume di volta in volta come punto di vista privilegiato Chi è il paziente; il Chi siamo del rapporto medico paziente; il Chi sono del contesto socio-familiare. Dalla conoscenza e dal rispetto reciproco scaturiscono modelli decisionali eticamente accettabili perché centrati su di una comune tensione verso il bene reciproco. Il rischio della manipolazione nella relazione terapeutica in psichiatria è però costantemente in agguato e scaturisce dalla sostanziale diffidenza nelle capacità dell’altro, sia sul piano della comprensione degli eventi che su quello della loro corretta gestione. Verità ed errore in psichiatria vanno analizzati nella concretezza delle situazioni individuali e vanno collocati nell’ottica della gradualità e della progressività con cui l’uomo si accosta alla conoscenza, sempre attraverso tentativi ed errori. Un aspetto etico irrinunciabile nella relazione in psichiatria è quello che permette al soggetto malato di potersi esprimere con piena autenticità, evitando sostituzioni indebite si da parte dei familiari che del personale sanitario. L’autenticità come espressione singolare della propria identità, accettata da sé stesso e sa chi prede incarico la sua sofferenza è un fattore terapeutico dei più importanti ed efficaci. Una decisione per essere eticamente valida deve essere presa in piena libertà e nel pieno rispetto della coscienza soggettiva, per questo è essenziale l’aiuto offerto al paziente perché esprima le sue scelte e gradatamente ne comprenda la rilevanza attraverso le conseguenze operative. La libertà nella relazione con il paziente psichiatrico va sempre intesa come una conquista continua, che lo psichiatra presidia senza manipolazioni falsificazionistiche. Il problema del rapporto tra eticità come responsabilità personale ed oggettività come referente normativo universale si chiarisce solo se ci si pone nell’ottica dei diritti umani: diritto a conoscere la verità, diritto a formulare scelte coerenti, diritto a ricevere l’aiuto necessario a riscattare la propria libertà da condizionamenti di vario tipo e genere. Ossia assumendo il principio della autonomia personale come fondamento della relazione di aiuto psico-terapeutico, anche quando l’autonomia presente come diritto va sostenuta fino al punto di acquisizione come altro nome quello della responsabilità verso sé stesso e verso gli altri.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
3

Ortu, Rosanna. "Alle origini della tutela giuridica del consumatore: fondamenti romanistici della disciplina europea." Zeszyty Naukowe KUL 60, no. 3 (October 27, 2020): 281–97. http://dx.doi.org/10.31743/zn.2017.60.3.281-297.

Full text
Abstract:
Nel presente contributo si sono voluti comparare taluni aspetti della disciplina della tutela del contraente debole nel contratto di compravendita, figura che attualmente coincide con quella del consumatore, concentrando l’attenzione su alcuni istituti presenti nel diritto romano, in cui emergono alcune situazioni di disparità contrattuale. Nella disciplina dell’Editto degli edili curuli, i magistrati repubblicani stabilirono una normativa speciale per la dichiarazione dei vizi occulti nelle vendite di schiavi ed animali, presupponendo una responsabilità oggettiva del venditore che non si fosse attenuto alle disposizioni edilizie. Un intervento importante che andò a definire una settorializzazione della materia, inquadrata all’interno della vendita in generale. Da ciò derivava una sovrapposizione in livelli della disciplina giuridica negoziale: sul piano orizzontale si collocava la regolamentazione della vendita prevista dal ius civile, mentre sul piano verticale si innestava quella speciale, di ius honorarium, prevista dall’Editto degli edili curuli. Tale modalità si riscontra anche in ambito europeo con la Direttiva 1999/44/CE, a proposito della vendita di beni di consumo, che rappresenta la manifestazione più eclatante del ruolo che il legislatore europeo ha nell’ambito della protezione del consumatore in materia contrattuale. Come nel mondo antico, nella Direttiva 1999/44/CE l’intervento normativo è giustificato dall’esigenza di creare uno spazio di tutele maggiori destinate a determinati soggetti, nonché delimitate per contenuto e ambito.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
4

De Battisti, Simone. "L'influenza dei fattori normativi e istituzionali sulla partecipazione elettorale. Un riscontro empirico su 19 paesi." Quaderni dell'Osservatorio elettorale QOE - IJES 45, no. 2 (September 30, 2001): 77–110. http://dx.doi.org/10.36253/qoe-12790.

Full text
Abstract:
Partecipazione elettorale: definizione e presentazione dei dati. Fondamenti teorici, obiettivi e significato della ricerca. Il contesto istituzionale: misure e significati dei singoli fattori istituzionali. Fattori istituzionali: presentazione dei dati, gli outliers e le analisi bivariate. Test di modelli multivariati. Un problema aperto.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
5

Baertschi, Bernard. "La place du normatif en morale." Philosophiques 28, no. 1 (October 2, 2002): 69–86. http://dx.doi.org/10.7202/004895ar.

Full text
Abstract:
On a reproché au modèle perceptuel de la connaissance morale d'être inadéquat en ce qu'il serait incapable d'expliquer le signe distinctif et fondamental de l'éthique, à savoir son caractère normatif. Je tente de montrer que la critique n'est pas pertinente, car le normatif n'a en réalité qu'une place dérivée en morale : l'éthique est d'abord une question de valeurs, entités dont il est tout à fait plausible de dire que nous les percevons. Pour justifier la place dérivée du normatif, je m'appuie sur les études de Max Scheler et sur l'examen de certains traits de la psychologie morale, qui tendent à montrer que le normatif n'est qu'un cas particulier de l'axiologique, mettant en évidence les caractères de force des valeurs, de risques de transgression et de contrainte.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
6

Bompiani, Adriano. "L'amministratore di sostegno a favore di persone impossibilitate a provvedere alla cura dei propri interessi." Medicina e Morale 42, no. 6 (December 31, 1993): 1171–88. http://dx.doi.org/10.4081/mem.1993.1036.

Full text
Abstract:
L'articolo illustra da un punto di vista eminentemente giuridico - con le sue ricadute etiche - un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri nell'aprile 1993 riguardante l'istituzione della figura dell'amministratore di sostegno per le persone impossibilitate a provvedere alla cura dei propri interessi. Tale provvedimento legislativo appare di notevole importanza in speciale riferimento all'handiccapato psichico, del quale l'articolo illustra i fondamenti giuridici della protezione a lui dovuta. Il lavoro passa in rassegna, inoltre, le normative vigenti in altri Paesi sull'argomento.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
7

Stradella, Elettra. "Il potere di ordinanza dei sindaci e l'"amministrazione emergenziale"." RIVISTA TRIMESTRALE DI SCIENZA DELL'AMMINISTRAZIONE, no. 3 (November 2010): 101–21. http://dx.doi.org/10.3280/sa2010-003011.

Full text
Abstract:
L'articolo, prendendo le mosse da un inquadramento di carattere generale sul potere di ordinanza e i suoi fondamenti teorici, affronta il problema della amministrazione dell'emergenza e delle sue possibili degenerazioni. L'autrice si sofferma sulla disciplina normativa del potere di ordinanza prima e dopo l'approvazione della legge n. 125/2008 e del c.d. "decreto Maroni", mettendo in rilievo gli effetti prodotti in termini di esercizio effettivo, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, del relativo potere, nonché il rapporto tra diritto emergenziale e utilizzo in chiave performativa del diritto penale. Sottolinea in particolare la tendenza ad un impiego abnorme delle ordinanze, sia per sopperire a carenze politico-amministrative superabili attraverso una "ordinaria efficienza", sia soprattutto per rafforzare processi di stigmatizzazione simbolica nei confronti di determinate condotte, evidenziando come la modifica normativa del 2008 si stia rivelando causa di ulteriore stabilizzazione della stessa.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
8

Paris, Marie-Luce. "The President as Commander in Chief in a comparative constitutional perspective under French and US law." Military Law and the Law of War Review 59, no. 2 (January 19, 2022): 196–243. http://dx.doi.org/10.4337/mllwr.2021.02.03.

Full text
Abstract:
The aim of this article is to conduct a comparative doctrinal analysis of the constitutional power of the President as Commander in Chief with reference to US law and French law. The comparative analysis will focus on the descriptive question of the scope of presidential war powers by exploring their normative implications in terms of the challenges they pose for democratic governance. It will be argued that while both constitutional systems have favoured the President as the pre-eminent decision-maker in military matters thereby reflecting an assumed normative choice of efficiency over accountability, the reality is more nuanced. The article proceeds in two stages. The first part critically analyses the constitutional foundations of the Commander in Chief Clause in both jurisdictions in light of doctrinal interpretations. The second part explains how institutional practice has shaped the exercise of the Commander in Chief power towards an undeniable, albeit problematic, presidential pre-eminence. The article concludes with comparative observations about the need to normalize certain aspects of the role, notably in keeping it under democratic checks. Cet article a pour but de procéder à une analyse doctrinale comparative du pouvoir constitutionnel du Président en sa qualité de Commandant en chef, en se référant aux droits américains et français. Cette analyse comparative se concentrera sur la question descriptive de l’étendue des pouvoirs de guerre présidentiels, en explorant leur implication normative en termes de défis qu’ils posent à la gouvernance démocratique. L’auteur avance que tandis que les deux systèmes constitutionnels ont favorisé le Président comme décideur prééminent dans les matières militaires, reflétant ainsi un choix normatif assumé d’efficacité plutôt que de responsabilité, la réalité est davantage nuancée. L’article se divise en deux parties. Dans la première partie, les fondements constitutionnels de la clause relative au commandant en chef dans les deux juridictions sont analysés de manière critique, à la lumière d’interprétations doctrinales. Dans la deuxième partie, il est expliqué comment la pratique institutionnelle a orienté l’exercice du pouvoir du Commandant en chef vers une prééminence présidentielle indéniable, bien que problématique. L’article se termine par des observations comparatives sur le besoin de normaliser certains aspects du rôle, notamment en continuant de le soumettre à des contrôles démocratiques. Dit artikel heeft tot doel een vergelijkende doctrinaire analyse te maken van de grondwettelijke macht van de president als opperbevelhebber onder verwijzing naar het Amerikaanse recht en het Franse recht. Deze vergelijkende analyse is gericht op de beschrijvende vraag van de reikwijdte van de presidentiële oorlogsbevoegdheden door in te gaan op de normatieve implicaties ervan op het vlak van de uitdagingen die zij stellen voor democratisch bestuur. De auteur betoogt dat, hoewel in beide grondwettelijke stelsels de voorkeur wordt gegeven aan de president als de beleidsmaker bij uitstek in militaire aangelegenheden, wat een afspiegeling is van een aanvaarde normatieve keuze van efficiëntie boven verantwoordingsplicht, de realiteit genuanceerder is. Het artikel bestaat uit twee delen. In het eerste deel worden de grondwettelijke grondslagen van de clausule betreffende de opperbevelhebber in beide rechtspraken kritisch geanalyseerd in het licht van doctrinaire interpretaties. In het tweede deel wordt uiteengezet hoe de uitoefening van de macht van de opperbevelhebber in de institutionele praktijk is geëvolueerd in de richting van een onmiskenbare, zij het problematische, presidentiële superioriteit. Het artikel sluit af met vergelijkende observaties over de noodzaak om bepaalde aspecten van de rol te normaliseren, met name door deze onder democratische controle te houden. Lo scopo di questo articolo è di condurre un’analisi dottrinale comparativa sui poteri costituzionali del Presidente come Comandante in Capo ai sensi del diritto statunitense e francese. L'analisi comparativa si concentrerà in modo descrittivo sull’ambito dei poteri di guerra presidenziali, esplorando le loro implicazioni normative in termini di sfide che pongono al governo democratico. Si argomenterà come, mentre entrambi i sistemi costituzionali hanno favorito il Presidente come decisore preminente in materia militare, riflettendo così una presunta scelta normativa di efficienza rispetto alla responsabilità, la realtà è più sfumata. L'articolo procede in due fasi. La prima parte analizza criticamente, in entrambe le giurisdizioni, i fondamenti costituzionali della Commander in Chief Clause, alla luce delle interpretazioni dottrinali. La seconda parte descrive come la pratica istituzionale abbia modellato l'esercizio del potere del Comandante in Capo verso un'innegabile, anche se problematica, preminenza presidenziale. L'articolo si conclude con osservazioni comparative sulla necessità di normalizzare alcuni aspetti del ruolo, in particolare nel mantenerlo sotto controllo democratico. El objeto del artículo es analizar comparativamente la doctrina sobre los poderes constitucionales del Presidente como Comandante en Jefe tanto en el Derecho estadounidense como francés. El análisis comparativo se centra en la cuestión descriptiva del alcance de los poderes de guerra presidenciales mediante el examen de sus implicaciones normativas en términos de los desafíos que plantean para la gobernabilidad democrática. Se argumenta que si bien ambos sistemas constitucionales han favorecido al presidente como el principal tomador de decisiones en asuntos militares, reflejando así una elección normativa asumida de eficiencia sobre responsabilidad, la realidad es sin embargo más compleja. El artículo consiste en dos partes. La primera parte analiza críticamente los fundamentos constitucionales de la Cláusula de Comandante en Jefe en ambas jurisdicciones a la luz de interpretaciones doctrinales. La segunda parte explica cómo la práctica institucional ha moldeado el ejercicio del poder del Comandante en Jefe hacia una preeminencia presidencial innegable, aunque problemática. El artículo concluye con observaciones comparativas sobre la necesidad de normalizar ciertos aspectos de la función, en particular para mantenerlo bajo control democrático. Ziel dieses Artikels ist es, eine vergleichende doktrinäre Analyse der konstitutionellen Macht des Präsidenten als Oberfehlshaber, unter Bezug auf französisches und US-Recht, vorzunehmen. Diese vergleichende Analyse konzentriert sich auf die deskriptive Frage der Tragweite der Präsidialkriegsgewalt, indem ihre normativen Konsequenzen in Bezug auf die Herausforderungen für die demokratische Staatsführung geprüft werden. Dabei wird behauptet, dass, obwohl beide konstitutionellen Systeme den Präsidenten als wichtigsten Entscheidungsträger in Militärangelegenheiten bevorzugt haben, was eine allgemein akzeptierte normative Wahl für Effizienz vor Rechenschaftspflicht widerspiegelt, die Wirklichkeit nuancierter ist. Der Artikel ist in zwei Teilen aufgeteilt. Der erste Teil analysiert auf kritische Weise die konstitutionellen Grundlagen der Oberbefehlshaberklausel in den beiden Rechtsprechungen im Licht doktrinärer Interpretationen. Im zweiten Teil wird erklärt, wie die institutionelle Praxis die Ausübung der Oberbefehlshabergewalt zu einer unleugbaren – wenn auch problematischen – präsidialen Vorrangstellung gestaltet hat. Der Artikel beschließt mit vergleichenden Bemerkungen zur Notwendigkeit, gewisse Aspekte der Rolle zu normalisieren, insbesondere indem sie demokratischen Kontrollen unterworfen wird.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
9

Mocca, Alessandro. "Apprendimento e insegnamento nel contesto odierno." EDUCAZIONE SENTIMENTALE, no. 13 (February 2010): 171–88. http://dx.doi.org/10.3280/eds2010-013012.

Full text
Abstract:
L'articolo muove dalla distinzione tra due approcci nella formazione, definiti come "educare" e "apprendere"; il primo indica la prospettiva normativa-comportamentale eterodiretta, caratterizzata dal controllo, considerando la conoscenza come oggettivabile e trasmissibile; il secondo una prospettiva che fa i conti con la soggettivitŕ, necessariamente autoriflessiva e caratterizzata da una visione autonoma del partecipante. L'apprendimento č riflessione in azione, quindi riflessione critica, capace di mettere in discussione degli assunti di base che guidano l'interpretazione della realtŕ offrendo l'occasione per una significativa tras-formazione. Fondamento dell'apprendimento č la capacitŕ di apprendere dall'esperienza e dagli errori. La difficoltŕ di apprendere da errori e dall'esperienza č una difficoltŕ che trova la sua origine nel mondo interno del soggetto. Si puň quindi affermare che il processo di conoscenza umana dipende da fattori emotivoaffettivi profondi in gioco in ogni relazione e contesto esperienziale.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
10

Ciucciovino, Silvia. "Contrattazione collettiva e politiche attive del lavoro." GIORNALE DI DIRITTO DEL LAVORO E DI RELAZIONI INDUSTRIALI, no. 172 (February 2022): 641–64. http://dx.doi.org/10.3280/gdl2021-172010.

Full text
Abstract:
Il saggio approfondisce il ruolo dei diversi soggetti, pubblici e privati, chiamati a realizzare le politiche attive del lavoro, evidenziando come nel contesto attuale prevalga una concezione prettamente pubblicistica delle politiche attive con un ruolo marginale degli attori privati e dell'autonomia collettiva. L'Autrice propone una innovativa rilettura dei fondamenti costitu-zionali della materia e della normativa vigente, per passare a rivalutare il ruolo regolativo autonomo diretto dello Stato nella materia, superando l'eccessiva regionalizzazione delle politiche attive, e per argomentare un più forte protagonismo delle parti collettive e dei fondi interpro-fessionali nell'assunzione di responsabilità in questa materia. Viene altresì criticata la prevalen-te impostazione rimediale e posticipata delle politiche attive rispetto all'evento disoccupazione e proposto un impulso maggiore alle misure di prevenzione della disoccupazione e della margi-nalità lavorativa, dove il ruolo della bilateralità e delle parti sociali appare di centrale importan-za.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
11

Dutra, Deo Campos. "L’IDENTITÉ MULTICULTURELLE DE LA CONSTITUTION BRÉSILIENNE: UNE LECTURE DE LA CONSTITUTION EN FAVEUR DES MINORITÉS CULTURELLES." PANORAMA OF BRAZILIAN LAW 5, no. 7-8 (June 6, 2018): 10–41. http://dx.doi.org/10.17768/pbl.v5i7-8.34645.

Full text
Abstract:
Notre problématique principale est centrée sur le défi de répondre à la question de savoir comment pouvons-nous mieux accommoder les minorités culturelles, en protégeant leur droit fondamental à la culture au sein des États démocratiques libéraux. Notre effort est d’élaborer une raison juridique qui est fondée sur les droits de l’homme et guidée par une philosophie politique normative. Cette raison juridique, pour sa part, a un objectif principal: elle essaie de construire des propositions substantielles pour que les minorités culturelles puissent être inclues et « accommodées » dans leurs sociétés. Il est donc nécessaire de construire une trajectoire pour l’inclusion de nos minorités culurelles. Nous croyons que cette trajectoire passe par la solidification de l’identité constitutionnelle brésilienne: les droits fondamentaux.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
12

Dutra, Deo Campos. "L’IDENTITÉ MULTICULTURELLE DE LA CONSTITUTION BRÉSILIENNE: UNE LECTURE DE LA CONSTITUTION EN FAVEUR DES MINORITÉS CULTURELLES." PANORAMA OF BRAZILIAN LAW 5, no. 7-8 (June 6, 2018): 10–41. http://dx.doi.org/10.17768/pbl.v5i7-8.p10-41.

Full text
Abstract:
Notre problématique principale est centrée sur le défi de répondre à la question de savoir comment pouvons-nous mieux accommoder les minorités culturelles, en protégeant leur droit fondamental à la culture au sein des États démocratiques libéraux. Notre effort est d’élaborer une raison juridique qui est fondée sur les droits de l’homme et guidée par une philosophie politique normative. Cette raison juridique, pour sa part, a un objectif principal: elle essaie de construire des propositions substantielles pour que les minorités culturelles puissent être inclues et « accommodées » dans leurs sociétés. Il est donc nécessaire de construire une trajectoire pour l’inclusion de nos minorités culurelles. Nous croyons que cette trajectoire passe par la solidification de l’identité constitutionnelle brésilienne: les droits fondamentaux.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
13

Dutra, Deo Campos. "L’IDENTITÉ MULTICULTURELLE DE LA CONSTITUTION BRÉSILIENNE: UNE LECTURE DE LA CONSTITUTION EN FAVEUR DES MINORITÉS CULTURELLES." PANORAMA OF BRAZILIAN LAW 5, no. 7-8 (June 6, 2018): 10–41. http://dx.doi.org/10.17768/pbl.y5.n7-8.p10-41.

Full text
Abstract:
Notre problématique principale est centrée sur le défi de répondre à la question de savoir comment pouvons-nous mieux accommoder les minorités culturelles, en protégeant leur droit fondamental à la culture au sein des États démocratiques libéraux. Notre effort est d’élaborer une raison juridique qui est fondée sur les droits de l’homme et guidée par une philosophie politique normative. Cette raison juridique, pour sa part, a un objectif principal: elle essaie de construire des propositions substantielles pour que les minorités culturelles puissent être inclues et « accommodées » dans leurs sociétés. Il est donc nécessaire de construire une trajectoire pour l’inclusion de nos minorités culurelles. Nous croyons que cette trajectoire passe par la solidification de l’identité constitutionnelle brésilienne: les droits fondamentaux.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
14

Dutra, Deo Campos. "L’IDENTITÉ MULTICULTURELLE DE LA CONSTITUTION BRÉSILIENNE: UNE LECTURE DE LA CONSTITUTION EN FAVEUR DES MINORITÉS CULTURELLES." PANORAMA OF BRAZILIAN LAW 5, no. 7-8 (June 6, 2018): 10–41. http://dx.doi.org/10.17768/pbl.y5n7-8.p10-41.

Full text
Abstract:
Notre problématique principale est centrée sur le défi de répondre à la question de savoir comment pouvons-nous mieux accommoder les minorités culturelles, en protégeant leur droit fondamental à la culture au sein des États démocratiques libéraux. Notre effort est d’élaborer une raison juridique qui est fondée sur les droits de l’homme et guidée par une philosophie politique normative. Cette raison juridique, pour sa part, a un objectif principal: elle essaie de construire des propositions substantielles pour que les minorités culturelles puissent être inclues et « accommodées » dans leurs sociétés. Il est donc nécessaire de construire une trajectoire pour l’inclusion de nos minorités culurelles. Nous croyons que cette trajectoire passe par la solidification de l’identité constitutionnelle brésilienne: les droits fondamentaux.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
15

Moccia, Luigi. "La comparaison « au-delà » des systèmes de droit: la protection de l'environnement." CITTADINANZA EUROPEA (LA), no. 1 (August 2021): 5–31. http://dx.doi.org/10.3280/ceu2021-001001.

Full text
Abstract:
Due tesi di fondo, distinte ma strettamente correlate tra loro, sono al centro di questo saggio. La prima è che la globalizzazione, non solo economica e tecnologica, ma anche sociale e culturale, incidendo sul piano giuridico chiama in causa il diritto comparato per ripensarne e riaffermarne la propria vocazione di studio critico di problematiche ed esperienze giuridiche e normative, che si pone, al livello teorico, come modo autoriflessivo di conoscenza del diritto. La seconda tesi è che vi sono temi, come è il caso emblematico della tutela ambientale, che assumono carattere di ‘fondamenti' di comparazione giuridica, nel senso di rappresentare un paradigma di un nuovo statuto metodologico ed epistemologico di questo campo di studi, che invece di conoscere il mondo attraverso il diritto, alla maniera di classificazioni (tassonomie) dei sistemi giuridici, cerca di conoscere il diritto attraverso il mondo, nella sua dimensione ‘globale', al tempo stesso territoriale e spaziale, particolare e comune, relativa e universale, come polarità tra loro non oppositive, ma complementari.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
16

Ferla, Lara. "Provvedimenti de potestate, sindrome di alienazione genitoriale e best interest of the child." MALTRATTAMENTO E ABUSO ALL'INFANZIA, no. 2 (August 2022): 87–102. http://dx.doi.org/10.3280/mal2022-002006.

Full text
Abstract:
Nella pronuncia del 26 gennaio 2022, n. 9691, la Corte di cassazione ha affrontato alcuni de-gli snodi tematici più rilevanti inerenti ai provvedimenti sulla responsabilità genitoriale. Pur muovendo da una singola vicenda giudiziaria e dalle sue specificità, la Corte ha sviluppato argomentazioni di ampio respiro, che coinvolgono non soltanto i presupposti normativi dei provvedimenti finalizzati alla tutela del minore in contesti familiari ad elevata conflittualità, ma anche le esigenze di cooperazione interdisciplinare tra operatori giuridici ed esperti delle scienze psicologiche, al fine di conferire a tali provvedimenti un rigoroso fondamento giusti-ficativo. Nella decisione è dedicata attenzione al dibattito inerente alla PAS (Parental Aliena-tion Syndrome), categoria psicologica controversa e nondimeno frequentemente richiamata nei procedimenti giudiziari inerenti all'affidamento dei minori. Da questa recente pronuncia della Corte di legittimità, che si esprime in termini critici circa l'attendibilità scientifica di tale sindrome, proviene una sollecitazione ad una riflessione comune circa le argomentazioni scientifiche fornite nel processo e recepite a giustificazione delle decisioni che riguardano mi-nori; dalla medesima decisione emerge, altresì, un richiamo ad una valutazione concreta del migliore interesse del minore coinvolto in dinamiche familiari conflittuali, attuabile attraverso il suo ascolto.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
17

Berthelot, Jean Michel. "Les nouveaux défis épistémologiques de la sociologie." Sociologie et sociétés 30, no. 1 (September 30, 2002): 23–38. http://dx.doi.org/10.7202/001063ar.

Full text
Abstract:
RÉSUMÉ Un siècle après sa fondation, comment la sociologie pense-t-elle son programme épistémique fondamental ? Cette question peut sembler démesurée. Elle est à la fois légitime et urgente. Légitime, parce que la réflexion sur le statut épistémologique de la sociologie accompagne la discipline depuis son origine ; urgente, parce que le relativisme et le scepticisme contemporains en exacerbent les enjeux. Cet article s'efforce de saisir comment, dans les dix dernières années, ce défi a pu être relevé par la sociologie. Il suit les voies du débat sur l'internationalisation et l'indigénisation, le relativisme et le rationalisme, et met en évidence, dans les travaux épistémologiques contemporains, une ligne nouvelle conjuguant pluralisme et rationalisme. Loin de toute visée normative, celle-ci s'attache à saisir la discipline non telle qu'elle se rêve, mais telle qu'elle se dégage de son processus de construction historique.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
18

Carrasco de Paula, Ignazio. "L'enciclica "Veritatis Splendor": prospettive per l'etica medica." Medicina e Morale 43, no. 3 (June 30, 1994): 431–41. http://dx.doi.org/10.4081/mem.1994.1012.

Full text
Abstract:
L'articolo intende mettere di rilievo il doppio rapporto esistente tra l'enciclica Veritatis Splendor e l'Etica Medica. Da una parte, il recente documento pontificio si presenta come una riflessione sui fondamenti della morale cattolica, motivata dalla necessità di superare alcune interpretazioni errate (principalmente il consequenzialismo e il proporzionalismo ), le quali vorrebbero "calcolare" il bene e il male morale in base alle conseguenze o alla proporzione tra gli effetti buoni e cattivi che risultano da un determinato comportamento umano. Non è affatto un caso che queste ipotesi - che usano parametri vicini al modello utilitaristico dei "costi-benefici" - siano sorte in parte per tentare di risolvere problemi sollevati nell'ambito bioetico. Dall'altra parte, l'enciclica, riproponendo i concetti fondamentali dell'insegnamento etico cristiano, quali il rapporto fra legge e libertà, fra coscienza e verità, fra morale e fede, indica le basi teoretiche per una bioetica degna dell'uomo: il riaggancio alla metafisica e all'antropologia, il riconoscimento della legge naturale come criterio normativo razionale valido per tutti, il superamento del relativismo inerente all'etica del consenso o dell'interesse soggettivo mediante la comprensione del ruolo degli "assoluti" morali e della centralità della dignità della persona. L'Etica Medica, proponendosi il bene del paziente, deve fare attenzione a che esso corrisponda al bene della persona, altrimenti non consentirà un vero progresso morale.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
19

Biron, Julie, and Géraldine Goffaux Callebaut. "La juridicité des engagements socialement responsables des sociétés : regards croisés Québec-France." Les Cahiers de droit 57, no. 3 (September 28, 2016): 457–96. http://dx.doi.org/10.7202/1037541ar.

Full text
Abstract:
L’adoption de codes de conduite et de gouvernance est devenue une pratique courante pour les sociétés. Malgré les avantages de l’approche volontaire que traduisent ces codes se pose la question de la force de ces engagements pris unilatéralement. En effet, ceux-ci peuvent sembler d’une utilité limitée pour les juristes qui les considèrent souvent comme des gestes de relations publiques et non telle une divulgation comportant des obligations réelles et contraignantes. Or, ces engagements ont une véritable force normative qui peut être révélée par l’entremise de différents outils. Au Québec comme en France, le droit accorde un rôle principalement informatif aux codes de conduite, en ce qu’ils permettent de transmettre de l’information aux investisseurs, aux consommateurs et aux tribunaux. Ce rôle fondamental, bien qu’il soit actuellement sous-estimé, a vocation à faciliter la surveillance des principaux acteurs du marché qui peuvent, par leurs interventions, inciter les sociétés à respecter les engagements qu’elles ont volontairement choisi d’adopter.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
20

Bovero, Michelangelo. "Che cosa è non decidibile: cinque regioni del coto vedado." DESC - Direito, Economia e Sociedade Contemporânea 1, no. 1 (December 13, 2018): 129–41. http://dx.doi.org/10.33389/desc.v1n1.2018.p129-141.

Full text
Abstract:
In questo articolo, l’A. richiama l’attenzione sul concetto di «sfera dell’indecidibile» coniato da Luigi Ferrajoli, ponendolo a confronto con la nozione di «coto vedado» di Ernesto Garzón Valdés e con l’analoga idea di «territorio» o «frontiera» inviolabile elaborata da Norberto Bobbio: le tre nozioni indicano l’insieme di principi e regole costituzionali che nessun potere politico può violare negli stati democratici di diritto, al centro del quale si trovano i diritti individuali fondamentali. L’A. propone un’interpretazione estensiva della teoria della democrazia di Bobbio capace di offrire una soluzione più avanzata al problema dei limiti del potere politico democratico. Invita a riconoscere nelle «regole del gioco» indicate da Bobbio le condizioni (in senso logico) della democrazia, articolate in due serie: cinque condizioni formali, contenute nelle regole di competenza e di procedura che riguardano il «chi» e il «come» delle decisioni collettive; e cinque condizioni sostanziali, contenute nei principi normativi impliciti nella «sesta regola» dell’elenco di Bobbio, che prescrivono limiti e vincoli al «che cosa», ossia alla sostanza delle medesime decisioni. Tali condizioni sostanziali corrispondono a quelle che l’A. chiama le «cinque regioni del coto vedado». L’A. torna in conclusione sulla concezione di Ferrajoli, in cui riconosce un miglioramento teorico rispetto alle elaborazioni esplicite sia di Bobbio sia di Garzón Valdés; ma sostiene che la teoria delle condizioni e precondizioni della democrazia ricavata per interpretazione estensiva dalla costruzione teorica di Bobbio offre un miglior fondamento razionale alla costruzione della «sfera dell’indecidibile».
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
21

Casini, C., M. Casini, and M. L. Di Pietro. "Legge n. 40/2004 e disciplina del consenso informato." Medicina e Morale 53, no. 4 (August 31, 2004): 695–736. http://dx.doi.org/10.4081/mem.2004.630.

Full text
Abstract:
L'art. 4 della Legge n. 40/2004 sulla "procreazione medicalmente assistita" (PMA) considera il consenso informato uno dei principi fondamentali - insieme al principio di gradualità nell'uso delle tecniche - dell'intera normativa. L'art. 6 - il più ampio e dettagliato della legge - entra in merito al consenso informato e si sofferma su una serie di disposizioni particolari che vanno ad integrarne la disciplina. Lo spazio riservato a questo profilo della materia si spiega alla luce della riflessione, maturata negli ultimi anni, sia in campo etico sia deontologico e giuridico, circa il fondamento dell'atto medico. Accanto alle disposizioni di legge e allo stato di necessità, non vi è dubbio che il consenso informato del paziente è la prima fonte di legittimazione dell'intervento medico sanitario. Il contributo, infatti, muove proprio dalla considerazione del significato del diritto all'informazione per giungere all'esame di ciò che più direttamente riguarda il rapporto medico-paziente nell'ambito delle tecniche di PMA, così come risultano nell'articolato della Legge n. 40/2004. La legge si fonda sul “principio di destinazione alla nascita” come risulta sin dall’art. 1 che, qualificando il concepito soggetto titolare di diritti, suppone, evidentemente, il suo diritto alla vita. In particolare, l’irrevocabilità del consenso una volta avvenuta la fecondazione, porta gli Autori a soffermarsi su alcuni profili ampiamente dibattuti: il rapporto tra la legge sulla PMA e la Legge n. 194/1978 sull'interruzione volontaria di gravidanza e la questione della diagnosi genetica preimpianto.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
22

Degórski, Bazyli. "Najstarsze prawodawstwo Kościoła łacińskiego w basenie Morza Śródziemnego dotyczące mnichów." Vox Patrum 50 (June 15, 2007): 419–40. http://dx.doi.org/10.31743/vp.6589.

Full text
Abstract:
L’articolo prende in esame il monachesimo latino maschile nel Mediterraneo perlustrando, per quanto concerne i secoli IV-VI, la legislazione ecclesiastica che di regione in regione ne ha regolato vita e modalita d’essere. Vengono analizzati gli atti conciliari del Mediterraneo latino che riguardano la vita religiosa maschile a cominciare dagli stessi inizi della legislazione ecclesiastica fino all’arrivo degli albori dell’Alto Medioevo. L’articolo esamina tutti i canoni concementi gli asceti che furono promulgati dalia Chiesa dell'Africa, della Gallia, della Penisola Iberica e delPItaha. I concili come tali manifestano molto bene la vita della Chiesa, rispecchiando i diversi probierni e le situazioni (spesso difficili) che influirono sulla promulgazione degli stessi canoni, fornendo, in tal modo, un prezioso quadro sia storico che, insieme, teologico-spirituale-giuridico. In seno ad esso, peró, molto importante parę sia quello che riguarda il monachesimo delle origini, dal momento che questo movimento carismatico-spirituale cosi importante per la vita della Chiesa nasce proprio in quel periodo e in esso trova le sue fondamenta giuridiche, che assicurarono il suo instancabile cammino verso la casa del Padre, insieme e a capo del popolo di Dio quale sua guida carismatico-spirituale. Vengono presentati i canoni riguardanti i monaci, e ció seguendo l’ordine cronologico della loro promulgazione. Viene presentata dapprima la legislazione africana, successivamente quella della Gallia e della Penisola Iberica. Pochissime, mycce, sono le leggi della Chiesa di Italia. E attraverso la lettura delle tematiche entrate nelle normative allora vigenti, e talvolta sensibili di differenze da luogo a luogo, che si comprendono probierni, usanze e dinamiche di un fenomeno il quale si e umilmente imposto nel tessuto della Chiesa e delle istituzioni. Ció testimonia pure quanto sia sembrato essere stato ritenuto importante il salvaguardame integrita e verita, e non solo il riconoscimento ufficiale.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
23

Coutu, Michel, and Pierre Guibentif. "Introduction: Le désenchantement de la pensée juridique critique?" Canadian journal of law and society 26, no. 2 (August 2011): 215–25. http://dx.doi.org/10.3138/cjls.26.2.215.

Full text
Abstract:
Le thème du pluralisme juridique hante la sociologie du droit depuis ses origines. Pour ne citer que ces exemples, déjà Eugen Ehrlich avait l'ambition de saisir la «diversité multicolore de la vie juridique». Et Max Weber distinguait le droit extra-étatique du droit étatique, objet formel de la science normative du droit. Le concept de pluralisme juridique, introduit plus tard pour saisir cette diversité, donnera lieu, comme on sait, à une ligne de travail spécifique dans le domaine «droit et société», matérialisée en particulier par la revue publiée depuis 1981 sous le titre Journal of Legal Pluralism; et il suscitera de stimulants débats. Jean-Guy Belley a apporté une contribution centrale à ces débats, notamment en signant l'entrée «Pluralisme juridique» du Dictionnaire encyclopédique de théorie et de sociologie du droit publié en 1988. Déjà bien des années plus tôt, il avait engagé une démarche rigoureuse de recherche centrée sur le pluralisme juridique comme paradigme fondamental de la science du droit. D'abord par sa thèse de doctorat complétée à Paris en 1977 sous la direction de Jean Carbonnier, par la suite comme professeur de droit des contrats et de sociologie du droit à la faculté de droit de l'Université Laval, enfin comme titulaire d'une Chaire de droit privé à l'université McGill. Ce rapport savant au pluralisme juridique s'est avant tout déployé sur le terrain de la sociologie du droit, une vaste entreprise dont le point culminant fut la publication, en 1998, de l'ouvrage Le contrat entre droit, économie et société.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
24

Bosset, Pierre. "Les mouvements racistes et la Charte des droits et libertés de la personne." Les Cahiers de droit 35, no. 3 (April 12, 2005): 583–625. http://dx.doi.org/10.7202/043295ar.

Full text
Abstract:
Au Québec comme ailleurs, les dernières années ont vu naître et croître une « international raciste », nébuleuse d'organisations et de groupuscules qu'unit un refus profond du caractère pluraliste de nos sociétés modernes. L'émergence de mouvements structurés d'extrême droite, de tendance raciste, constitue peut-être la forme la plus exacerbée de cette pathologie politique. Condamnables sur le plan des principes, les activités de ces mouvements soulèvent un problème épineux. Jusqu'où peut-on militer en faveur d'un ordre politique incompatible avec les idéaux d'égalité, de liberté et de dignité sur lesquels se fonde toute société démocratique ? L'auteur explore les dimensions juridiques du problème, à la lumière du texte fondamental qu'est, en droit québécois, la Charte des droits et libertés de la personne. Il analyse, dans un premier temps, la portée des libertés d'opinion, d'expression, de réunion pacifique et d'association garanties par la Charte. Il montre que ces libertés doivent s'exercer dans le respect des valeurs démocratiques, de l’ordre public et du bien-être général, et tente d'en dégager des normes d'action applicables à certains secteurs (dont l'école et le milieu de travail). L'auteur analyse ensuite la portée normative du droit à l'égalité, dont il fait ressortir tant les potentialités sur le plan des recours disponibles que les limites inhérentes à la formulation actuelle de la Charte. À travers ce portrait à la fois descriptif et critique du droit positif québécois transparaît l'intérêt d'une approche de l’extrémisme raciste fondée sur la Charte, distincte dans ses ressorts fondamentaux d'un droit pénal parfois peu adapté à la réalité du phénomène.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
25

Góralski, Wojciech. "Władza ustawodawcza Konferencji Episkopatu według Kodeksu Prawa Kanonicznego z 1983 r." Prawo Kanoniczne 32, no. 1-2 (June 5, 1989): 45–57. http://dx.doi.org/10.21697/pk.1989.32.1-2.03.

Full text
Abstract:
Una piu ampia considerazione il Codice di Diritto Canonico del 1983 riserva alle Conferenze Episcopali, con novità di indicazioni corrispondenti al loro grande sviluppo storico e al principio di collegialità episcopale approfondito nel Concilio Vaticano II. Si poteva ritrovare un cenno di prefigurazione delle Conferenze Episcopali nel Codice del 1917 al can. 292 § 1, ma bisogna risalire al Concilio Vaticano II per trovare il fondamento giuridico dell’istituto cosi come e delineato nel nuovo CJC. Si tratta del decreto „Christus Dominus” (nn. 37-38). In esso si descrive tra l’altro la competenza della Conferenza Episcopale sul campo legislativo) (n. 38, 4). II suddetto decreto conciliare è diventato in seguito la base della normativa del CJC. Il can. 455 §§ 1-2 precisa la competenza legislativa della Conferenza Episcopale. L’autore si occupa prima di tutto dell’ambito e della natura della potestà legislativa accordata alla Conferenza Episcopale — in un modo generale — nel canone citato. L’ambito delle possibilità legislative è stato indicato nel can. 455 §§ 1-2. Perché i decreti generali che sono propriamente leggi (can. 29) siano emessi validamente debbono essere suffragati — in materia indicata nel diritto comune, oppure per mandato speciale della S. Sede — da almeno i due terzi dei voti favorevoli, da computarsi sul numero dei presuli che fanno parte alla conferenza con voto deliberativo. I medesimi decreti acquistano forza vincolante solo dopo che sono stati riconosciuti dalla Sede Apostolica e promulgati dalla Conferenza Episcopale. Per quanto riguarda la natura di questa potestà, secondo l’autore essa è la potestà ordinaria, perché è stata annessa dal diritto all’ufficio; la modesima potestà e poi propria, perché si esercita in nome proprio. Nella seconda parte dell’articolo si enumera i casi — indicati nei diversi libri del Codice di Diritto Canonico — nei quali le Conferenze Episcopali hanno l’obbligo ad emanare le norme giuridiche. Finalmente nella terza parte si indica — analogamente — i casi in cui le conference stesse hanno solo la possibilità di emanare le suddette norme. Ampie competenze legislative demandate alla Conferenza Episcopale danno così pratica attuazione al principio di sussidiarietà, al decentramento della potestà gerarchica, e concreta espressione della collegialità dei vescovi nella loro sollecitudine pastorale.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
26

da Empoli, Domenico. "The Italian Law for the Protection of Competition and the Market." Journal of Public Finance and Public Choice 8, no. 2 (October 1, 1990): 69–78. http://dx.doi.org/10.1332/251569298x15668907344956.

Full text
Abstract:
Abstract Gli studi attinenti alla «politica della concorrenza” sono uno dei settori nei quali da maggior tempo collaborano economisti e giuristi, dato che, in assenza di questa cooperazione, i soli strumenti di cui dispone l’economista, senza quelli del giurista, non sono sufficienti ad interpretare ed applicare le norme antitrust.Soprattutto sulla spinta di queste esigenze si è sviluppato nelle Università americane l’insegnamento di corsi di «Law and Economics», disciplina ormai consolidata.Da un punto di vista intellettuale, pertanto, non vi è dubbio che il tema della concorrenza sia di particolare interesse.Peraltro, già da qualche tempo le opinioni degli studiosi circa gli effetti della politica della concorrenza e, quindi, sull’opportunità di introdurre una specifica legge al riguardo e, poi, di applicarla in modo rigoroso, non sono molto concordi.L’atteggiamento critico nei riguardi dell’intervento pubblico che caratterizza l’epoca attuale e che si può sintetizzare nella nozione di «fallimento dello Stato», non ha risparmiato neppure la politica della concorrenza, sui cui effetti sono state avanzate, e permangono, numerose incertezze.Peraltro, se un atteggiamento critico poteva avere un suo fondamento apprezzabile nei momento in cui si discuteva dell’opportunity o meno di introdurre questa legge, non vi è dubbio che, una volta che questa sia entrata in vigore, essa debba essere oggetto di studio, sempre critico, ma costruttivo.Per questo motivo, è apparsa molto utile la pubblicazione su questo numero di Economia delle Scelte Pubbliche degli atti di un convegno internazionale, organizzato a Reggio Calabria nei dicembre del 1990 dall’Istituto Superiore Europeo di Studi Politici, che ha avuto come oggetto la nuova legge italiana della concorrenza, confrontata con le normative già in vigore presso altri Paesi OCSE, oltre che con la normativa CEE.Assieme ai testi delle relazioni, viene anche pubblicato il testo della legge, sia nella traduzione inglese che in quella francese (ambedue non ufficiali).L’ordine di pubblicazione dei diversi contributi segue il seguente schema: dopo questa presentazione della legge italiana, segue l’articolo di Claudio Menis sulle relazioni tra legislazione CEE e legge italiana. Successivamente, vengono pubblicati (seguendo l’ordine alfabetico per paese) gli scritti che riflettono valutazioni della legge italiana alla luce dell’esperienza nazionale di ciascuno dei Paesi OCSE rappresentati: Belgio (van Meerhaeghe), Francia (Charrier), Germania (Ruppelt), Spagna (Canivell), Svizzera (Baldi) e Regno Unito (Howe).Infine, un articolo di Eric Lacey confronta i lineamenti essenziali della struttura della legge italiana con quelli della media dei Paesi OCSE.La presentazione della legge italiana, non è compito facile per un economista, per la necessità di ricorrere a termini giuridici molto specialistici.La legge considera tre principali fattispecie che sono suscettibili di danneggiare la concorrenza: i cartelli che restringono la libertà di concorrenza, l’abuso di posizione dominante e le concentrazioni.I «cartelli” (o «intese») sono definiti dalla legge come «gli accordi e/o le pratiche concordati tra le imprese, nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari». Esse sono vietate quando «abbiano per oggetto, o per effetto, di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante” (art. 1).L’«abuso di posizione dominante” è vietato dall’art. 3, che include anche una casistica, peraltro non del tutto esauriente, circa situazioni identificabili come abuso di posizione dominante.Le «operazioni di concentrazione», d’altra parte, hanno luogo, secondo l’art. 5, «quando due o più imprese procedono a fusione», «quando uno o più soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese acquisiscono direttamente o indirettamente [...], il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese», e «quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un’impresa comune». Sulla base dell’art. 6, tali operazioni sono vietate quando costituiscono o rafforzino una posizione dominante sul mercato.L’organo che ha il compito di garantire l’appHcazione della legge è l’Autorità, che è stata creata appositamente e che è composta da quattro membri, più il presidente, nominati sulla base di una determinazione adottata d’intesa dai presidenti dei due rami del Parlamento.Una caratteristica fondamentale del nuovo organo per la tutela della concorrenza è la sua indipendenza dal potere politico, che viene attenuata soltanto a proposito delle operazioni di concentrazione. Come afferma, infatti, l’art. 25, il Consiglio dei Ministri può elaborare criteri di carattere generate che autorizzino operazioni che sarebbero vietate ai sensi dell’art. 6 e, inoltre, può anche vietare specifiche operazioni di concentrazione qualora vi partecipino «enti o imprese di Stati che non tutelano l’indipendenza degli enti o delle imprese con norme di effetto equivalente a quello dei precedenti titoli o applicano disposizioni discriminatorie o impongono clausole aventi effetti analoghi nei confronti di acquisizioni da parte di imprese o enti italiani».Oltre ai poteri d’istruttoria e decisione nei riguardi delle tre fattispecie di cui si è detto, con la possibilità d’imporre anche sanzioni pecuniarie, l’Autorità ha anche poteri conoscitivi e consultivi, sulla cui base può esprimere pareri, o di sua iniziativa o su richiesta del presidente del Consiglio dei Ministri.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
27

Suchecki, Zbigniew. "Wolnomularstwo w dokumentach Stolicy Apostolskiej i Kodeksie Prawa Kanonicznego, ze szczególnym uwzględnieniem dekretów Kongregacji Doktryny Wiary (1949-1983)." Prawo Kanoniczne 41, no. 3-4 (December 20, 1998): 133–86. http://dx.doi.org/10.21697/pk.1998.41.3-4.06.

Full text
Abstract:
La libera muratoria (comunemente chiamata massoneria) viene trattata e presentata in molte pubblicazioni sotto diversi aspetti e svariati punti di vista. Dal punto di vista del diritto canonico non esistono pubblicazioni riguardanti la libera muratoria, manca­no anche approfonditi studi critici in materia condotti in un'ottica comparata con la filosofia, la teologia e il diritto dai studiosi cattolici. Nella nostra ricerca, passando attraverso un confronto delle disposizioni della Chie­sa previste per la libera muratoria, facciamo un riferimento diretto alla legislazione della Chiesa contenuta nel Codice di Diritto Canonico del 1917 e a numerosi docu­menti emanati dai Papi e dalle Congregazioni, per arrivare alle disposizioni del Codice di Diritto Canonico del 1983. Negli ultimi secoli la massoneria, fosse essa regolare, legittima, irregolare o «devia­ta», senza distinzioni, è stata condannata da diversi Papi ìn circa seicento documenti. La questione comunque è quanto mai attuale perché molti cattolici appartengono alla libera muratoria. La divisione fondamentale, a mio avviso, comprende la fase pre­istituzionale e la fase istituzionale. Nella fase preistituzionale emergeva la massoneria operativa propensa alla costruzione delle cattedrali, delle basiliche e delle chiese; nella fase istituzionale si sviluppa la massoneria moderna detta speculativa. I liberi muratori londinesi, il 24 giugno 1717, nella festa di S. Giovanni Battista costituivano la Gran Loggia d'Inghilterra, la Gran Loggia Madre del Mondo. Fin dall'inizio, in un testo diretto a tutti i fedeli, emerge la preoccupazione per la difficile definibilità, a livello concettuale e terminologico, della libera muratoria con i suoi effetti negativi a livello della Chiesa e della societa civile. Leone XIII, nell'enciclica programmatica Quod sectam massonum: Humanum Ge­nus, del 20 aprile 1884, in modo significativo sottolinea gli effetti negativi delle socie­ta clandestine. L'enciclica costituisce un documento fondamentale di quel periodo. Nel CIC del 1917 il legislatore menziona esplicitamente la setta massonica e le altre associazioni dello stesso genere le quali incorrono ipso facto nella scomunica riservata simpliciter alla S. Sede: «Chi si ascrive alla setta massonica o ad altre associazioni dello stesso genere, che macchinano contro la Chiesa o le legittime autorita civili, incorrono ipso facto nella scomunica riservata simpliciter alla S. Sede» (c. 2335). Un graduale approfondimento della natura e dei fini della massoneria svolto da par­te della Chiesa, prima dell'emanazione della Dichiarazione sulla massoneria del 26 novembre 1983, Quaesitum Est, permise alla Congregazione di accertare le posizioni dottrinali, filosofiche e morali dell'istituzione. Mariano Cordovani in un articolo pubblicato in prima pagina dall'Osservatore Romano sostiene che «fra le cose che risorgono e riprendono vigore, e non solo in Italia, c'è la massoneria con la sua ostilita sempre rinnovata contro la Religione Catto­lica». Egli rileva un fatto che appare nuovo: «la voce che si sparge, nei diversi ceti sociali, che la massoneria di un certo rito non sia piu in contrasto con la Chiesa, che anzi sia avvenuto un accordo tra la massoneria e la Chiesa, in forza del quale anche i cattolici possono tranquillamente iscriversi alla setta senza pericolo di scomuniche e dì riprovazione». Dopo 57 anni dall'entrata in vigore del «Codex» del 1917 «molti vescovi hanno posto il quesito a questa S. Congregazione (per la Dottrina della Fede) circa il valore el'interpretazione del can. 2335 del C.I.C. che sotto pena di scomunica vieta ai cattolici d'iscriversi alle associazioni massoniche o ad altre dello stesso tipo. Il dialogo cattolico-massonico inizia con degli incontri informali tra esponenti della Chiesa Cattolica e della massoneria. Tali incontri ebbero iniziato in Austria, Italia e Germania. Per approfondire alcuni aspetti di questo tema, si possono consultare, an­che se in modo molto critico, diverse pubblicazioni. Negli anni 1974-1980 la Conferenza Episcopale Tedesca costituisce una Commis­sione ufficialmente incaricata di esaminare la compatibilità dell'appartenenza contem­poranea alla Chiesa cattolica e alla libera muratoria. La Commissione sostenne che «Indipendentemente da tutte le concezioni soggettive, l'essenza oggettiva si manifesta nei Rituali ufficiali della libera muratoria. Percio questi documenti vennero sottoposti ad un attento e lungo esame (negli anni 1974-1980); si tratta dei Rituali dei primi tre gradi, dei quali i massoni permisero di studiare i testi, anche se i colloqui non si riferi­rono solo ai Rituali». Il fatto che la libera muratoria metta in discussione la Chiesa in modo fondamentale non è mutato. La libera muratoria non e mutata nella sua essenza. L'appartenenza ad essa mette in questione i fondamenti dell'esistenza cristiana. L'esame approfondito dei Rituali della libera muratoria e del modo di essere massonico, come pure la odierna immutata autocomprensione di sé, mettono in chiaro che l'appartenenza contempora­nea alla Chiesa cattolica e alla Libera Muratoria è esclusa. Da diverse parti del mondo arrivavano domande alla S.C. per la Dottrina della Fede sul giudizio della Chiesa nei confronti della massoneria. La normativa penale del Co­dice non prevede nessuna sanzione per i fedeli che si iscrivono alla massoneria, perché la medesima non viene espressamente nominata dal legislatore; quindi prima dell'ema­nazione della Dichiarazione l'iscrizione non costituiva un delitto punibile con sanzioni a meno che la massoneria non entrasse nella categoria delle associazioni «che com­plottano contro la Chiesa» (can. 1374) e questo si doveva provare. La Dichiarazione invece afferma che gli «appartenenti alle associazioni massoniche sono in peccato gra­ve» e proibisce ai fedeli appartenenti alle associazioni massoniche l'esercizio del dirit­to soggettivo fondamentale dei fedeli di accedere alla S. Comunione. «Solo Gesù Cri­sto e, infatti, il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene dei loro fratelli».
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
28

Rhonheimer, Martin. "La Creazione e la legge naturale a fondamento della morale della vita in Giovanni Paolo II." Medicina e Morale 56, no. 5 (October 30, 2007). http://dx.doi.org/10.4081/mem.2007.302.

Full text
Abstract:
Giovanni Paolo II nel suo Magistero ha trattato ampiamente il tema della legge naturale, in particolare nell’Enciclica Veritatis Splendor, ove è possibile reperire una trattazione sulla definizione, l’essenza e le caratteristiche di essa secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino. La legge naturale è una legge propria dell’uomo creato quale essere libero e razionale, la cui ragione, partecipe della ragione divina e ordinatrice, è capace di reperire in se stessa, in base alle inclinazioni naturali della persona umana, i principi primi e, in tal modo, svolgere funzione normativa e di discernimento sul bene e sul male. La legge naturale è la stessa ragione umana in quanto compie questo ruolo normativo nell’unità sostanziale di corpo e anima spirituale. Nella Veritatis Splendor la questione etica si esplica mediante una trattazione sull’oggetto dell’azione, dal quale dipende fondamentalmente la moralità dell’atto umano poiché nell’oggetto viene a trovarsi il fine immediato o proximus di una libera scelta della volontà guidata dalla ragione. Tale insegnamento trova applicazione nell’ambito dell’etica della vita nei tre grandi temi affrontati da Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae: il divieto assoluto di uccidere, che si specifica in particolare nella condanna di atti quali l’uccisione diretta di un innocente, l’aborto e l’eutanasia, deriva da una fondamentale violazione della giustizia, fondata sull’uguaglianza. La scelta deliberata della morte di un soggetto, intesa quale fine o mezzo, con la relativa strumentalizzazione della vita e della persona, è perciò sempre moralmente illecita. Così, Giovanni Paolo II ha presentato una dottrina coerente atta ad evidenziare il nesso fra legge naturale, oggetto morale degli atti umani ed etica della vita. Il divieto di uccidere è un principio primo ed universale della stessa legge naturale che, perseguendo il bene dell’uomo, viene, come diritto naturale, a costituire il fondamento della convivenza umana nella società. ---------- John Paul II broadly dealt with the topic of natural law in his Magisterial teaching, particularly in the Encyclical Veritatis Splendor, where it is possible to retrieve a treatment on the definition, the essence and the characteristics of it according to the teaching of Thomas Aquinas. Natural law is a law proper of man created as a free and rational being, whose reason, participating of the divine and ordaining reason, is able to retrieve in itself, according to the natural inclinations of the human person, the first principles and, in such way, to develop normative function and of discernment on the good and on the evil. The natural law is the human reason itself as it achieves this normative role in the substantial unity of body and spiritual soul. In Veritatis Splendor the ethical matter is expounded through a treatment on the object of the action, on which the morality of the human act fundamentally depends, since in the object it comes to be the immediate end itself or proximus of a free choice of the will driven by the reason. Such teaching finds application within the ethics of life in the three great themes faced by John Paul II in the Encyclical Evangelium Vitae: the absolute prohibition to kill, that is particularly specified in the condemnation of acts as the direct killing of an innocent, the abortion and the euthanasia, derives from a fundamental violation of the justice, founded upon the equality. The deliberate choice of the death of a subject, intended as end or mean, with the relative exploitation of the life and the person, is therefore always morally illicit. This way, John Paul II presented a coherent doctrine able to underline the connection between natural law, moral object of the human acts and ethics of life. The prohibition to kill is a first and universal principle of the natural law itself that, aiming at the good of man, it comes, as natural right, to constitute the base of the human cohabitation in the society.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
29

Barrera, Juan David. "Bienséance et vraisemblance : le phénomène normatif dans la production musicale des organistes français de l’époque classique." Normes et normativités, no. 7 (October 27, 2022). http://dx.doi.org/10.57086/strathese.604.

Full text
Abstract:
La musique pour orgue en France sous le règne de Louis XIV reflète le phénomène de production de normes caractérisant l’horizon culturel de l’époque classique. En effet, ce répertoire fait preuve d’une triple influence normative : d’une part, la réglementation du Caeremoniale parisiense de 1662, stipulant la pratique des organistes dans la liturgie ; d’autre part, l’esprit de modélisation propre au goût classique français qui se manifeste dans les préfaces des livres d’orgue publiés (textes explicatifs qui cherchent à codifier les pièces musicales) ; finalement, la praxis même des organistes est marquée implicitement par les « règles de convenance ». Cet article aborde le rôle fondamental que jouent ces axes normatifs, assurant une intelligibilité qui témoigne des enjeux esthétiques de l’époque et qui sert aux intérêts communicatifs de l’Église catholique.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
30

D’Agostino, Francesco. "Biopolitica: fondamenti filosofico-giuridici." Medicina e Morale 58, no. 2 (April 30, 2009). http://dx.doi.org/10.4081/mem.2009.251.

Full text
Abstract:
La riflessione di Francesco D'Agostino procede a partire da una sintetica presentazione della genealogia e dei successivi sviluppi del concetto di “persona” nella cultura occidentale, soffermandosi specificamente sulla sua recente identificazione positivistica (astratta e formalizzante) con la categoria di “soggetto di diritto” – e sulla sua conseguente manipolabilità pragmatica e normativa. Tale paradigma è entrato ormai in crisi, come testimoniano le irresolubili problematiche sorte attorno alla disciplina legale del bios, ed in particolare alla difficoltà, che ne deriva direttamente, di arginare normativamente ogni tentazione di strapotere biopolitico: né il tentativo empirista di riabilitare il concetto in base alla capacità di autodeterminazione, appare davvero serio e teoreticamente persuasivo. Più promettente risulta invece la proposta di tornare ad una fondazione del diritto nella persona e nella sua concreta corporeità: andando oltre le proposte di Stefano Rodotà, messe fecondamente a confronto con il personalismo di Elio Sgreccia, D'Agostino suggerisce di prendere sul serio l'idea di “biografia” per riscoprirne al fondo un integrato, perché relazionale, concetto di persona umana. In questo impegno teoretico appare ricco di conseguenze il passaggio dalla considerazione prioritaria dei corpi a quella della “carne”, assai più densa dal punto di vista filosofico e teologico: sia per via del suo riferimento intrinseco alla vulnerabilità, sia per la sua strutturale apertura, alternativa alla chiusura individualistica del corpo in se stesso, alla relazione con l'altro da sé e soprattutto con il Dio in-carnato. ---------- The reflection of Francesco D'Agostino proceeds from a brief presentation of the genealogy and subsequent developments of the concept of "person" in Western culture, focussing specifically on the recent and abstract identification positivistic between the concept of person and the concept of "subject of law "- and its consequent manipulation by the pragmatic legislation. This paradigm is now in crisis, as shown by the neverending discussions about the legal framework of the “bios”, and in particular the difficulties to contain by the legislation every temptation of the excesses of the biopolitics: neither the empiricist attempt to rehabilitate the concept proceeding from the ability to self-determination, appears very serious and theoretically persuasive. More promising is instead the proposal to return to a foundation of law in person and in his concrete corporeity: going beyond the proposals of Stephen Rodotà, originally compared with the personalism of Elio Sgreccia, D'Agostino suggested to take seriously the idea of "biography" to rediscover an integrated and relational concept of the human person. In this commitment, the transition from the concept of “body” to concept of “flesh” promises many theoretical consequences, because the concept of flash is much more dense in terms of philosophical and theological thought: as well as by its reference to the intrinsic vulnerability, both for its structural openness to the relationship with the other and with the christian God, just appeared in the flesh.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
31

Portella, Anderson Gonçalves. "L'impatto della regolazione economica sul mercato delle telecomunicazioni brasiliano: il telefono cellulare segmento." Revista Científica Multidisciplinar Núcleo do Conhecimento, July 3, 2018, 80–107. http://dx.doi.org/10.32749/nucleodoconhecimento.com.br/economia-aziendale/mercato-delle-telecomunicazioni.

Full text
Abstract:
Questo articolo si propone di dimostrare i risultati dell'intervento dello stato nel periodo post-privatizzazione con l'implementazione del modello normativo delle telecomunicazioni, in particolare nel segmento del telefono cellulare. Il lavoro discute i fondamenti teoria inizialmente, evidenziando le scuole europee e americane, il modello di base utilizzato nel caso del Brasile. Sotto questa prospettiva, il testo di studio, analizza e valuta il modello di regolamento distribuito nel mercato delle telecomunicazioni e la vostra evoluzione, discutendo l'adeguatezza del modello e la conseguente efficienza nel raggiungimento degli obiettivi desiderati. Le considerazioni di questo lavoro permettono di concludere che il modello normativo impiantato in Brasile è sembrato essere efficace nella misura in cui consentito diversi aumenti di produttività e potenziato lo sviluppo economico. Presentato, tuttavia, guasti causati dalle caratteristiche intrinseche del mercato brasiliano, consentendo la cattura di agente stato normativo ANATEL e sottoponendo le decisioni tecniche di alcun interesse politici.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
32

Riccobono, Marta. "«Cosa umana non sono»: la Turandot di Puccini tra devianza e addomesticamento." altrelettere, June 13, 2018. http://dx.doi.org/10.5903/al_uzh-39.

Full text
Abstract:
Nel repertorio delle donne pucciniane Turandot rappresenta un unicum. Definita «principessa di morte» dallo stesso Puccini, nell’opera eponima essa si mostra del tutto estranea a quella femminilità appassionata, a tratti patetica, che contraddistingue eroine come Tosca, Mimì o Cio-Cio-San, donne che non temono di sacrificare la propria vita in nome dell’amore. Turandot, dal canto suo, rifiutando il matrimonio e la maternità mette in crisi un sistema basato su rigide distinzioni di genere e rappresenta una minaccia per il mantenimento dell’ordine sociale di matrice patriarcale. Se vista in relazione al personaggio di Liù, schiava dolce e remissiva, Turandot emerge in tutta la sua statura di creatura mostruosa e anti-materna, fredda incarnazione lunare, che il compositore e i suoi librettisti cercano strenuamente di ricondurre entro gli argini di una femminilità “corretta” e socialmente accettabile. Obiettivo del saggio è cogliere nella relazione che si instaura tra autore e personaggio i segni di un disagio che colpisce la società nel momento in cui si trova ad avere a che fare con elementi dalla sessualità non normativa. Il modo in cui il personaggio di Turandot viene codificato nel contesto della produzione pucciniana e i tentativi di normalizzazione cui tanto il Maestro quanto i suoi librettisti lo sottopongono sono sintomatici di una tendenza che, al di là della finzione artistica, stigmatizza quei soggetti che in maniera più o meno consapevole si ribellano al binarismo di genere e all’imposizione di ruoli sociali cui si cerca solitamente di attribuire un fondamento biologico.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
33

Santos, Nadja Romeiro dos, and Ana Lídia Soares Cota. "Commission régionale intergestionnaires: espace local de concertation et d’articulation interfédérale?" Revista Científica Multidisciplinar Núcleo do Conhecimento, October 16, 2021, 173–89. http://dx.doi.org/10.32749/nucleodoconhecimento.com.br/technologie-fr/commission-regionale.

Full text
Abstract:
La Commission régionale intergestionnaires (CIR) configure l’espace pour l’accord, l’articulation, la coopération et le renforcement de la région sanitaire. L’objectif de cette étude était de réfléchir aux dispositions normatives qui sous-tendent la construction de la commission comme lieu de consolidation de la gestion régionale atténuant les conflits interfératifs. Avoir comme guide la question suivante : comment les commissions régionales intergestionnaires fournissent-ils des espaces locaux d’accord et d’articulation interfédérative ? Etude qualitative, basée sur la recherche documentaire, basée sur l’analyse des résolutions des Commissions Régionales Inter-Management d’Alagoas, correspondant à la période de 2017 à 2019, en utilisant le Décret 7.508/11 comme norme de référence. Les résultats ont été organisés en quatre catégories : Planification régionale de la santé; organisation des actions et des services de soins de santé: région sanitaire; Fédéralisme, CIR et financement des services de santé; gouvernance et CIR : canal de négociation et de décision entre les responsables municipaux et l’État au sein de la Région sanitaire. Les Commissions Régionales Inter-Management développent un travail important dans les discussions sur les politiques régionales, étant un outil fondamental pour renforcer la gouvernance dans les territoires, en négociant l’allocation et la répartition des ressources, essentielles pour la planification, les pactes interfédératifs et le financement de la santé, jouant un rôle clé pour le système de santé régional d’Alagoas, espace démocratique, politique et coopératif.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
34

Casini, Carlo, Marina Casini, Maria Luisa Di Pietro, and Emma Traisci. "La Corte Costituzionale e la decostruzione della legge sulla “procreazione medicalmente assistita”." Medicina e Morale 58, no. 3 (June 30, 2009). http://dx.doi.org/10.4081/mem.2009.245.

Full text
Abstract:
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 151 del 1° aprile (8 maggio) 2009, ha dichiarato da un lato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale – relativamente agli artt. 3 e 32 della Costituzione – sollevate con riferimento agli artt. 14.1, 6.3 e 14.4 della Legge n. 40 del 19 febbraio 2004; dall’altro ha annullato la regola stabilita nell’art. 14.2 della stessa legge, nella parte in cui limita a tre la generazione del numero di embrioni da trasferirsi in un unico contesto, e quella stabilita nell’art. 14.3 nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni – da realizzare non appena possibile – avvenga senza pregiudizio per la salute della donna. La Corte Costituzionale era stata sollecitata dal Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio e dal Tribunale di Firenze. Il contributo compie un’analisi critica delle due argomentazioni attraverso le quali la Consulta ha raggiunto le indicate conclusioni così ponendo le condizioni che portano a compromettere pesantemente la struttura basilare della normativa sulla procreazione medicalmente assistita. L’esame critico delle motivazioni ne evidenzia i limiti, le contraddizioni, la mancanza di fondamento scientifico, le lacune. In particolare la Corte non tiene conto del punto di equilibrio nel bilanciamento dei diritti/interessi in gioco raggiunto dalla legge 40 sulla base del principio di “destinazione alla nascita” e omette, come rilevano gli Autori, di impegnare la riflessione sullo statuto dell’essere umano chiamato all’esistenza dalle tecniche di PMA. Le norme dichiarate incostituzionali, infatti, discendono direttamente dal principio informatore di tutta la disciplina: il riconoscimento del concepito come soggetto uguale agli altri soggetti coinvolti nelle procedure. Tale principio è formalmente mantenuto, ma rischia però di essere vanificato dall’annullamento del divieto di produzione soprannumeraria di embrioni umani. ---------- The Constitutional Court’s decision no. 151/2008 of April 1, 2009 (May 8) 2009 avoids the articles 14.2 and 14.3 of the Law no. 40/2004 of February 19, 2004 on artificial fecundation. The Administrative Regional Court of Lazio and Court of Primary Jurisdiction of Florence required a judgment concerning the Law no. 40/04 constitutionality to the Constitutional Court. The present work constitutes of analysis and comment on the Constitutional Court’s decision. The grounds for the judgment no. 151/2008 compromised seriously the aim of the Law no. 40/04 on artificial reproduction. The Authors point out also the lack of a serious widening on legal statute of human embryo within such decision, which is of course the Law no. 40/04 mainstay
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
35

Olivier de sardan, Jean-pierre. "Développement." Anthropen, 2016. http://dx.doi.org/10.17184/eac.anthropen.006.

Full text
Abstract:
"Ensemble des processus sociaux induits par des opérations volontaristes de transformation d’un milieu social, entreprises par le biais d’institutions ou d’acteurs extérieurs à ce milieu mais cherchant à mobiliser ce milieu, et reposant sur une tentative de greffe de ressources et/ou techniques et/ou savoirs" (Olivier de Sardan 1995). Cette définition non normative a souvent servi de base à l'anthropologie de développement, qui entend mener des recherches de terrain rigoureuses sur les multiples interactions entre les "développeurs" (acteurs appartenant aux différents niveaux de la "configuration développementaliste") et les "développés" (acteurs appartenant aux divers groupes sociaux locaux). L'anthropologie du développement est concernée autant par les institutions et professionnels du développement que par les populations sujettes aux interventions, elle est donc « symétrique », et met en évidence diverses opération de « traduction » ou de négociation informelles entre tous les acteurs et institutions concernées (Mosse 2005), parfois par l’intermédiaire de « courtiers en développement » (Bierschenk, Chauveau et Olivier de Sardan 2000).Cette discipline privilégie une approche non normative, alors que les écrits sur le développement sont saturés de jugements de valeur selon lesquels le développement serait un « bien » ou un « mal ». Elle s’intéresse à la confrontation et à l’imbrication de logiques sociales multiples au sein de groupes hétérogènes alors que l’ethnologie classique, de moins en moins pratiquée il est vrai, se concentre plutôt sur des communautés homogènes et traditionnelles. L’anthropologie du développement est résolument empirique et tend à produire des connaissances de type « fondamental » (elle n’est pas une « anthropologie appliquée » au service des agences de développement, encore moins une forme de consultance), mais elle s’engage dans un dialogue sans complexe avec les parties prenantes et les décideurs quels qu’ils soient qui sont intéressés par ses résultats et par la promotion de réformes visant à améliorer la qualité des biens et services publics ou collectifs délivrés aux populations. Le développement apparaît, dans une telle perspective, comme un ensemble particulier de politiques publiques, conçues et financées de l’extérieur, mais mises en œuvre avec le concours d’acteurs internes. Les écarts entre les projets de développement tels qu’ils figurent sur le papier et tels qu’ils se déroulent sur le terrain (que met en évidence l’anthropologie du développement) rappellent donc les écarts que toute politique publique connait entre sa conception et sa mise en œuvre (implementation gap), du fait de la confrontation des logiques et des stratégies multiples des diverses parties prenantes (ou « groupes stratégiques »). Ces écarts sont particulièrement importants dans le cas des programmes de développement, dans la mesure où ceux-ci exportent le plus souvent à travers le monde des « modèles voyageurs » fondés sur des « mécanismes-miracles », qui sont en décalages avec les contextes locaux. Les normes standardisées imposées par les institutions de développement ne correspondent guère aux normes locales (normes sociales des populations ou normes pratiques des agents publics) (De Herdt et Olivier de Sardan 2015) et sont de ce fait rarement perçues comme légitimes. Elles sont donc largement contournées ou détournées. Les méthodes qualitatives de l’anthropologie du développement, prenant en compte le « point de vue de l’acteur » (Long 2001) et les interactions sociales sont particulièrement adaptées à la description et à l’analyse de ces processus.Le développement peut aussi être considéré comme une forme spécifique de « rente », certes plus décentralisée que la rente pétrolière mais ayant certains effets identiques : stratégies de captation, clientélisme, corruption, déficit d’initiatives locales. Mais les institutions de développement peuvent aussi offrir des fenêtres d’opportunités à des réformateurs locaux. Ces usages locaux, souvent inattendus, des financements de l’aide, que ce soit au profit de stratégies opportunistes ou de projets innovants, est un des domaines investigués par l’anthropologie du développement.Mais il est de plus en plus difficile de distinguer ce qui relève des institutions de développement et ce qui relève des États « sous régime d’aide » (Lavigne Delville 2016). De fait l’anthropologie du développement s’insère désormais dans une anthropologie plus vaste des actions publiques, des gouvernances (Blundo et Le Meur 2009) ou des ingéniéries sociales (Bierschenk 2014) dans les pays du Sud, quelles que soient les institutions qui les effectuent : États, agences de développement, institutions internationales, ONG, associations laïques ou religieuses, collectivités locales.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
36

Goodale, Mark. "Droits humains." Anthropen, 2019. http://dx.doi.org/10.17184/eac.anthropen.093.

Full text
Abstract:
En tant que sous-domaine émergeant de l'anthropologie sociale et culturelle, l'anthropologie des droits humains a contribué à la théorie et à la méthodologie de diverses manières. Il a également apporté des contributions en dehors de la discipline puisque les juristes internationaux, les responsables politiques et les représentants du gouvernement se réfèrent à l'anthropologie des droits humains comme source d'informations et d'idées au sujet des droits humains dans les documents politiques, les rapports aux agences gouvernementales et dans les principaux discours publics (voir par ex. Higgins 2012, 2013). Culture En tant que catégorie d'organisation de la différence, la culture était dès le départ problématique pour les droits humains. Dans sa Déclaration sur les droits de l'homme de 1947, Melville Herskovits craignait que la diversité et la richesse culturelles ne soient incompatibles avec les droits humains, en affirmant des modèles transculturels de croyances et de pratiques normatives contredisant les preuves anthropologiques et en menaçant d'ignorer la culture au sein de l'économie politique de l'ordre de l’après-guerre. En dépit de ces préoccupations, la diversité culturelle n'a pas été affectée par la promulgation de la Déclaration universelle des droits de l'homme en 1948. Ceci, en grande partie, est dû à l'influence plus large des droits humains, sans parler de la transformation globale imaginée par Herskovits, qui a immédiatement été bloquée par la Guerre froide. Même Eleanor Roosevelt a reconnu que le projet des droits humains prendrait des années, voire des décennies, et que les modèles culturels ne commenceraient à changer que lorsque ce qu'elle appelait une «vigne curieuse» prendra racine puis se répandra dans des lieux où « les gouvernements ne l’attendent pas » (cité dans Korey 1998). Au moment où ce genre de changement à grande échelle a commencé, les anthropologues des droits humains ont observé que l'impact sur la culture défiait la dichotomie entre particularisme et universalisme et que la culture elle-même facilitait la transnationalisation des normes des droits humains. Dans le volume novateur Culture and Rights (« Culture et Droits ») (2001), les anthropologues qui se sont penchés sur une décennie de recherche ethnographique après la fin de la Guerre froide ont remarqué deux phénomènes clés à l'œuvre. Dans la première, les pratiques culturelles et les modes de compréhension normatifs existants ont servi de mécanismes à ce que Sally Engle Merry (2006a) décrira plus tard comme la «vernacularisation», à savoir l’application de normes internationales des droits humains de plus en plus hégémoniques dans des formes de pratique éthique et politique ancrées dans le particulier. Et dans la seconde, les spécialistes de Culture et Droits ont décrit et théorisé l'émergence d'une culture transnationale des droits humains. Ici, un compte rendu anthropologique de la culture s'est avéré utile pour comprendre la formation de nouvelles catégories d'action collective au sein des agences internationales, des ONG transnationales et des mouvements politiques et sociaux façonnés par les logiques des droits humains. Dans les deux cas, l'utilisation par les anthropologues du concept de culture pour comprendre la pratique des droits humains a évolué à contre-courant de la théorie anthropologique et sociale, sceptique sur l'utilité analytique de la culture face à l'hybridation supposée de la mondialisation. Pouvoir Les droits humains, comme Burke aurait pu le dire, agissant à travers les gens, c'est du pouvoir; et «les gens prévenants, avant qu'ils ne se déclarent, observeront l'usage qui est fait du pouvoir; et surtout d'éprouver quelque chose comme l’exercice d’un nouveau pouvoir sur des personnes nouvelles, dont les principes, les colères et les dispositions ont peu ou pas d'expérience »(Burke 1919 [1790]: 7, souligné par l’auteur). Les anthropologues des droits humains ont été très attentifs à un autre problème initialement identifié par Herskovits: la manière dont un projet global de droits humains crée des tensions accrues au sein des conflits d’intérêts existants en éliminant toutes formes alternatives de changement social et de résolution des conflits. Bien sûr, du point de vue des défenseurs des droits humains, c'est un pouvoir exercé pour le bien; en effet, comme l'expriment avec force les traités internationaux comme la CEDAW, le projet des droits humains d'après-guerre exige le changement, le remplacement, voire la suppression des modes de pratique culturelle qui restent inexplicables et donc illégitimes. Comme le stipule l'article 5 souvent cité par le CEDAW, les États parties à la charte internationale des droits des femmes doivent «modifier les comportements sociaux et culturels des hommes et des femmes en vue d'éliminer les préjugés et autres pratiques coutumières» qui sont basées sur les théories locales de l'inégalité de genre. Mais, comme l'ont montré les anthropologues, les droits humains tendent souvent à mettre entre guillemets et à marginaliser les autres logiques culturelles de justice sociale, de développement, de transformation des conflits et d'éthique publique. Et cette extension du pouvoir peut avoir des conséquences inattendues. L'un des exemples les plus complets de la façon dont les anthropologues ont exploré les implications du pouvoir imprévisible des droits humains est l'ethnographie du développement de Harri Englund (2006) au Malawi. Comme il l'explique, le concept des droits humains a été officiellement traduit dans la langue locale avec une phrase qui signifiait «la liberté avec laquelle on est né» (2006: 51). Au fil du temps, les gens ont mis l'accent sur la liberté de contester les normes culturelles existantes en matière de mode, d'obéissance dans les écoles publiques et de comportement sexuel, plutôt que sur les conditions structurelles économiques et politiques qui renforçaient un héritage d'inégalité et de corruption publique. Le résultat, selon Englund, fut que les Malawiens finissaient par être «privés de la traduction». Le discours sur les droits humains a saturé tous les aspects de la vie publique au Malawi, comme le voulaient les fonctionnaires et les travailleurs humanitaires transnationaux. Mais puisque les droits humains étaient mal traduits dans une langue vernaculaire locale, ils ont été transformés au point d'être méconnaissables, ce qui a empêché leur utilisation comme langage d'un changement social pourtant nécessaire. Épistémologie Quand Herskovits affirmait que l'anthropologie n'était pas capable de faire des affirmations définitives sur les droits humains universels parce qu'elle était une «science de l'humanité» et ne s'intéressait donc qu'aux questions empiriques du comportement humain exprimées par des «modèles de culture», il ne pouvait prévoir les innovations épistémologiques dans la discipline qui élargiraient ses objets de connaissance et transformeraient ses domaines d'investigation. Cela ne veut toutefois pas dire que, dans les décennies qui ont suivi, les anthropologues ont écarté les premiers arguments de Herskovits pour confronter les problèmes ontologiques et philosophiques fondamentaux qui restaient essentiels aux droits humains. Une grande partie du travail intellectuel consacré aux droits humains restait dans des sphères telles que les études juridiques critiques, la théorie politique et la philosophie morale. Au contraire, les anthropologues ont utilisé la recherche ethnographique pour étayer de manière subversive l'élargissement des bases sur lesquelles les questions fondamentales morales et théoriques des droits humains pouvaient être posées et résolues. Ceci, à son tour, a eu des implications importantes pour l'épistémologie des droits humains, en particulier dans l'après-Guerre froide, lorsque le discours sur les droits humains s'est de plus en plus intégré dans les pratiques juridiques, politiques et sociales. Les anthropologues ont très tôt observé que les idées sur les droits humains étaient fondamentales dans leur mise en pratique. Les acteurs sociaux, souvent pris dans des moments de crise ou de dislocation, n'ont jamais été capables d'exploiter simplement les droits humains ou de corrompre leurs imaginaires de justice comme s'il s'agissait d'une boîte à outils normative attendant d'être ouverte. Au lieu de cela, les logiques de défense des droits humains exigeaient autant de considération de soi que de changement social; les gens étaient invités, encouragés, obligés de se repenser en tant que citoyens d'un univers moral différent. La théorisation éthique en termes de cet univers moral souvent radicalement différent est devenue une forme distincte de pratique sociale et l'anthropologue est devenu à la fois témoin et participant de cette transformation dans le cadre de la rencontre ethnographique (voir Goodale 2006). Ce qui en résulta fut un enregistrement ethnographique de modèles de droits humains innovants et potentiellement transformateurs, profondément ancrés dans les circonstances de leur création. Le meilleur exemple que nous ayons d'un compte rendu local des droits humains parfaitement articulé est l'ethnographie de Shannon Speed ??sur les conséquences de la rébellion zapatiste au Chiapas (2007). Pendant et après la violence, des organisations internationales et transnationales de défense des droits humains ont envahi la région du Chiapas. Ceux qui défendent les droits des peuples autochtones en tant que droits humains ont été particulièrement influents dans la façon dont la résistance zapatiste s’est exprimée. Les leaders politiques indigènes ont formé des «conseils de bonne gouvernance» dans lesquels les idées sur les droits humains ont été longuement débattues, remaniées et ensuite utilisées pour représenter les valeurs morales zapatistes en tant qu'action politique zapatiste enracinée. Plaidoyer transnational Les réseaux transnationaux des droits humains qui ont émergé après la fin de la Guerre froide ont fait ce qu'Eleanor Roosevelt attendait d'eux: ils ont défié la souveraineté de l'Etat et ont permis de créer de nouvelles sphères publiques à la fois translocales et ancrées dans les sites de contestation intime. Des chercheurs comme Annelise Riles (2000) ont étudié ces réseaux de l'intérieur et ont contribué à la compréhension plus large des assemblages mondiaux qui modifiaient l'ontologie des relations sociales à une époque de transformation économique géopolitique et mondiale. Mais les anthropologues ont également montré à quel point les réseaux de défense des droits humains sont façonnés par les économies politiques des conflits locaux de manière à changer leur valence normative et à les rendre incapables de remplir leur mandat plus large de changement social et de transformation morale. Par exemple, l'ethnographie de longue durée de Winifred Tate (2007) du conflit historique entre l'État colombien et les Forces armées révolutionnaires de Colombie (FARC) montre comment les défenseurs des droits humains luttent pour traduire la langue et les logiques morales des droits humains universels en une catégorie instrumentale de l'action pouvant répondre aux défis du traumatisme historique, des récits multiples et ambigus de la culpabilité pour les atrocités commises, de l'héritage de la violence structurelle, et des modèles durables d'inégalité économique ayant des racines dans la période coloniale. Et l'étude de Sally Engle Merry (2006b) sur les institutions qui surveillent la conformité nationale à la CEDAW illustre en détail la façon dont les défenseurs des droits humains doivent eux-mêmes naviguer entre des cultures multiples de défense et de résistance. Les représentants des ministères nationaux des droits humains se trouvent souvent obligés de défendre à la fois le respect d'un traité international des droits humains et l'intégrité et la légitimité des pratiques culturelles qui semblent violer ce même traité. Néanmoins, ces dichotomies n'annulent pas la portée du droit international des droits humains dans les conflits nationaux et locaux. Au contraire, comme le souligne Merry, elles reflètent la façon dont la pratique des droits humains crée ses propres catégories d'identités et de pouvoirs contestés avec des implications incertaines pour la défense transnationale des droits humains et la promotion du patrimoine national(-iste). Critique et engagement Enfin, l'anthropologie des droits humains, peut-être plus que d'autres orientations académiques s’intéressant aux droits humains, se heurte avec difficultés au dilemme de développer un compte rendu rigoureux et ethnographique des droits humains qui soit à la fois critique et éthiquement conforme aux conditions de vulnérabilité qui mènent aux abus et à l’exploitation. Cette tension s'est exprimée de différentes manières pour chaque anthropologue. Certains (comme Winifred Tate et Shannon Speed, par exemple) ont commencé leur carrière en tant qu'activistes des droits humains avant de faire de la recherche et de mener une réflexion ethnographique sur les processus sociaux et politiques pour lesquels ils s’étaient engagés. Mais la tension entre la critique et l'engagement, le scepticisme et le plaidoyer, et la résistance et l'engagement, n'est pas seulement un défi pour les anthropologues des droits humains. Comme l'a démontré la recherche ethnographique, c'est un fait social et moral fondamental pour la pratique des droits humains elle-même. Ceci en partie parce que la théorie de la pratique sociale et du changement politique que propose les droits humains exige une forme d'autoréflexion et d'auto-constitution destinée à semer le doute sur les pratiques culturelles existantes, sur les théories populaires de l’individu, et sur les hiérarchies du pouvoir. Pourtant, la transition de l'ancien à l’actuel devenu tout à coup illégitime au nouveau et maintenant soudainement authentique est lourde de dérapage moral et de conséquences imprévues. Un exemple récent d'ethnographie de la pratique des droits humains est l'étude de Lori Allen (2013), portant sur le rôle du discours sur les droits humains dans la politique de résistance palestinienne à l'occupation israélienne de la Cisjordanie. Bien que le langage des droits humains ait été utilisé dès la fin des années 1970 en Palestine comme stratégie rhétorique populaire pour défendre les victimes de l'occupation auprès d'une audience internationale, un cercle professionnel d'activistes et d'ONG finit par restreindre l'utilisation des droits humains dans des espaces sociaux et politiques étroitement contrôlés. Dans le même temps, l'ensemble des griefs palestiniens sont restés sans réponse pendant des décennies, comme la violation des droits humains continuelle, l'incapacité à obtenir l'indépendance politique et à influencer favorablement l'opinion politique en Israël. Le résultat fut que les Palestiniens en vinrent à considérer les droits humains avec cynisme et même suspicion. Mais plutôt que de rejeter entièrement les droits humains, ils ont formulé une critique organique des droits humains dans un discours critique et émancipateur plus large promouvant l'autonomie palestinienne, l'anti-impérialisme et l’activisme associatif (par opposition à l'interventionnisme). Après des décennies d'engagement pour les droits humains dans l'histoire de la lutte palestinienne contre l'occupation, les militants ont pu s'approprier ou rejeter les logiques et les attentes des droits humains avec un haut degré de conscience contextuelle et de réalisme politique. Orientations futures L'anthropologie des droits humains est maintenant bien établie en tant que domaine de recherche distinct et source de théorie anthropologique. Sur le plan institutionnel, les universitaires et les étudiants diplômés qui travaillent dans le domaine de l'anthropologie des droits humains viennent généralement, mais pas exclusivement, des rangs de l'anthropologie juridique et politique. Parce que les droits humains sont devenus un mode de plus en plus omniprésent du monde contemporain, les anthropologues rencontrent des traces de cette influence à travers un large éventail de pratiques culturelles, de mouvements politiques et de projets moraux. Cela ne veut cependant pas dire que le statut des droits humains n'est pas contesté, bien au contraire. Alors que la période liminaire de l'après-Guerre froide cède la place à la redifférenciation culturelle, à l'établissement de nouvelles hiérarchies et au rétrécissement des espaces d'expérimentation politique et sociale, les droits humains continueront à bousculer les formes alternatives de pratiques morales et de constitution personnelle et collective. Alors que le projet des droits humains d'après-guerre mûrit en se transformant en processus presque banal de réforme constitutionnelle, de bonne gouvernance et de restructuration économique néo-libérale, son potentiel de catalyseur de transformation radicale et de bouleversement moral diminuera probablement. L'anthropologie des droits humains deviendra moins l'étude d'un discours politique et moral à une époque de transition souvent vertigineuse et de possibilités apparemment illimitées, que celle d'un universalisme séculaire contemporain établi parmi une foule de perspectives concurrentes.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
37

Giordano, Christian. "Nation." Anthropen, 2017. http://dx.doi.org/10.17184/eac.anthropen.048.

Full text
Abstract:
La meilleure définition de la nation est sans doute celle que propose Benedict Anderson lorsqu’il parle de communauté politique imaginée (Anderson, 1983). Ce faisant Anderson met en doute la validité de certaines caractéristiques mystificatrices, quoique considérées comme objectives, attachées au concept de nation. Cette critique s’adresse à Ernest Gellner et à Eric J. Hobsbawn qui eux mettent en évidence l’invention et donc le caractère mystificateur attaché à l’idée de nation (Gellner, 1983, Hobsbawm and Ranger, 1983). La posture théorique spécifique qu’adoptent Gellner et Hobsbawn ne saurait surprendre, car le premier est issu d’un terreau philosophique et méthodologique de type néopositiviste, tandis que Hobsbawm est notoirement associé à un marxisme modéré. Anderson, avec son idée de nation comme communauté politique imaginée, se trouve être très proche des positions de type interprétatif. Il évoque de ce fait indirectement Max Weber selon lequel il est fondamental de reconstruire le sens que les acteurs eux-mêmes, en tant que membres d’une société, donnent à leur comportement. Lorsque Anderson définit la nation comme une communauté politique imaginée, il insiste sur le fait que les membres individuels de ces groupes sociaux, bien que ne se connaissant pas personnellement et que n’ayant fort probablement pas l’occasion de se rencontrer durant leur vie, partagent le même sentiment d’appartenance (Anderson, 1983: 15). La nation est imaginée comme une entité circonscrite et par conséquent démographiquement définie, même si ses frontières peuvent varier en fonction de circonstances historiques particulières. En fait une nation peut s’étendre ou se rétrécir du point de vue de son territoire comme c’est le cas de certaines nations d’Europe centrale et orientale (Hongrie, Roumanie, Bulgarie etc.). L’essentiel de ce caractère limité du point de vue structurel et démographique réside cependant dans le fait qu’aucune nation ne souhaite inclure l’humanité entière. En reprenant une réflexion de Max Weber, on peut remarquer que la nation est imaginée comme une communauté partiellement ouverte vers l’extérieur parce qu’il est inacceptable que n’importe quel membre du genre humain en fasse partie. La nation est en outre imaginée comme une communauté d’égaux, liés entre eux par d’étroites relations de fraternité et de parenté réelle, rituelle ou symbolique, même si cela ne correspond pas à la réalité socio-structurelle et à la dimension de la société. Car dans toute société nationale il existe d’évidentes inégalités sociales et des divisions entre couches, classes, castes ou milieux. Enfin la nation est imaginée comme étant souveraine, à savoir comme une communauté politiquement indépendante, même si ce n’est pas toujours le cas. De fait il existe encore aujourd’hui des nations sans État mais qui aspirent à l’indépendance et donc à se constituer en société souveraine pourvue d’un État propre. Le débat au sujet du rapport entre nation et nationalisme est encore vif. Anthony D. Smith pense que la nation précède le nationalisme et que ce dernier est la conséquence logique de l’émergence des nations même dans des époques fort lointaines (Smith, 1998). A cause de son point de vue, Smith s’est vu reprocher d’être primordialiste dans la mesure où il voit l’origine de la nation dans des temps archaïques. Gellner pour sa part a pris le contrepied de cette perspective, en mettant en évidence le fait que la nation est un phénomène social issu de la modernité occidentale, grâce aux inventions industrielles et en premier lieu grâce à l’imprimerie, mais également à son nouveau système économique capitaliste allant de pair avec l’émergence de classes entrepreneuriales à la recherche de nouvelles ressources primaires et de nouveaux marchés (Gellner 1983) Les nouveaux États-nations issus de ces mutations ont obtenu leur légitimité grâce à la rhétorique nationaliste. C’est donc le nationalisme qui génère l’idée de nation et non l’inverse, ainsi que le prétendent la majorité des auteurs de tendance primordialiste. Le nationalisme est l’instrument idéologique essentiel pour les nations sur lesquelles viennent se fonder les nouveaux États, en tant qu’institutions politiques de la modernité. Selon la thèse de Gellner, le nationalisme représente la formule politique nécessaire pour justifier l’exercice du pouvoir de la part des classes politiques dans les États-nations (Mosca 1966). L’organisation politique spécifique de la nation en tant que communauté imaginée est l’État-nation qui trouve sa source dans l’Europe de la fin du 18e siècle. Toutefois il serait faux de parler d’un modèle d’État-nation universel. On peut en effet distinguer deux types idéaux d’État-nation, à savoir le modèle français et le modèle allemand (Brubaker 1992). On a souvent observé que le modèle français de l’État-nation est fondé sur l’idée de nation politique. Selon cette vue l’État-nation serait le résultat d’un pacte politique, voire d’un contrat entre les citoyens de cet État-nation. C’est dans ce sens que Jules Renan a défini la nation et son organisation politique comme le résultat d’un plébiscite de tous les jours. Il s’agit de souligner par cette formule que la nation française et son État consistent en théorie en une communauté élective. Ce type d’État-nation est donc une patrie ouverte au sein de laquelle les différences religieuses et ethniques n’ont, du moins en théorie, aucune importance (Dumont 1991: 25). On sait bien que cette conception non ethnique de la nation, postulée par la Révolution française a été modifiée plusieurs fois jusqu’à présent. En fait les Constitutions de 1791 et 1793 garantissaient la citoyenneté à toute personne étrangère habitant la France et par conséquent il n’était pas nécessaire d’avoir acquis l’identité française. Autrement dit il était possible d’obtenir la citoyenneté sans avoir acquis auparavant la nationalité, à savoir avant d’adopter certains traits culturels particuliers et certains comportements passant pour typiquement français (Weil, 2002). La séquence citoyenneté-nationalité sera pourtant inversée déjà au 19e siècle avec l’introduction de certains prérequis culturels comme la connaissance de la langue nationale, sans compter l’adoption d’un style de vie considéré comme français. Bien qu’affaiblie par les diverses modifications du code de la nationalité dans les années quatre-vingt-dix (Loi Pasqua de 1993 et Loi Guigou de 1998), l’idée originale de citoyenneté n’a jamais vraiment été abandonnée jusqu’à maintenant. L’État français se fonde sur une conception subjective, voire individualiste de la nation en fonction de laquelle tout étranger habitant l’hexagone peut encore aujourd’hui devenir citoyen français grâce au processus d’assimilation. Les différences, les identités et les frontières ethnoculturelles ne sont jamais définitivement insurmontables. Du moins en théorie, tout être humain est intrinsèquement capable de devenir membre de la nation. Le revers de la médaille est que, en fait, l’État-nation français a toujours eu de grandes difficultés à reconnaître les minorités ethnoculturelles. Ces dernières furent systématiquement assimilées de force durant tout le 19e siècle et sont aujourd’hui encore ignorées. La conception allemande de la nation a été définie comme ethnique. Il en est issu un modèle d’État-nation fondé sur la généalogie et sur l’origine commune de ses citoyens. L’idée de nation et partant d’État-nation, a souvent été mise en relation avec le concept de Volk, en tant que peuple synonyme de nation. Toutefois durant le 18e siècle la notion de Volk ne possédait pas encore cette connotation ethnique qui, selon certains auteurs, devient « l’explosif le plus dangereux des temps modernes » (Finkielkraut, 1987: 56 ss.). L’ethnicisation du Volk a lieu au milieu du 19e siècle grâce à un important groupe d’intellectuels parmi lesquels il faut compter des politiciens, des artistes, des juristes, des philosophes, des historiens, des folkloristes etc. Cependant, la véritable transformation politico-légale intervient avec l’introduction d’un concept restrictif du jus sanguinis (Pierre-Caps 1995: 112). Le nationalisme radical de l’après Première Guerre mondiale a favorisé l’ethnicisation graduelle du modèle allemand qui a connu son apogée durant le national-socialisme avec les lois de Nürenberg dans lesquelles la racialisation du Volk et de l’État-nation allemand est légalisée. Cependant, après le Deuxième Guerre mondiale, dans l’Allemagne divisée, la République fédérale allemande (RFA) aussi bien que la République démocratique allemande (RDA) ont conservé les marques de la conception unitaire et ethnique du Volk et du jus sanguinis bien visibles, même après la réunification de 1990. Il est symptomatique à cet égard que les descendants d’Allemands « rentrés » de l’Europe orientale et de l’ex-URSS aient obtenu la nationalité, grâce à l’idée de Volk et de jus sanguinis, en un rien de temps, au contraire des millions d’immigrés, notamment d’origine turque, qui étaient confrontés aux plus grandes difficultés sur le chemin de l’acquisition de la nationalité allemande. On n’observe un léger assouplissement de l’ethnicisation qu’après 1999, principalement durant le gouvernement du chancelier social-démocrate Gehrard Schröder. Ce n’est cependant qu’aux enfants d’immigrés nés en Allemagne que les lois adoptées par ce gouvernement ont accordé certaines facilités pour obtenir la nationalité allemande Les deux prototypes cités ont inspiré de nombreux États-nations, européens ou non, ce qui en a fait des modèles de référence au niveau mondial. Le modèle français comme le modèle allemand poursuivent tous les deux le projet d’une nation cherchant à se procurer une organisation politique - l’État-nation - capable de garantir une homogénéité culturelle qui, à son tour, garantit la stabilité politique. La différence se trouve dans les deux manières de procéder pour y parvenir. Le modèle français, étant fondé sur le caractère subjectif et individualiste de la nation, rend accessible à l’étranger, du moins en principe, la voie de l’acculturation et par conséquent de sa pleine intégration et inclusion dans la communauté nationale grâce notamment à l’institution du jus soli. Le modèle allemand en revanche, est fondé sur le caractère objectif et collectif de la nation, selon une vision essentialiste et très rigide de l’appartenance ethnique, soumise au jus sanguinis. L’appartenance à la nation allemande comporte, du fait qu’elle est extrêmement restrictive, une forte tendance à l’exclusion de qui ne possède pas les requis ethniques. Les deux modèles ont tous deux connu depuis toujours de grandes difficultés à reconnaître la diversité culturelle, et ils présentent par conséquent une certaine incompatibilité avec la pluriethnicité et la multiculturalité. Cela n’est pas surprenant puisque les deux modèles se proposent de réaliser le projet d’une nation, d’un État souverain, d’un territoire monoethnique. Pour un tel projet la diversité ethnico-culturelle est forcément dysfonctionnelle. Dans les années quatre-vingts et quatre-vingt-dix du siècle passé, dans le cadre d’une globalisation galopante, plus apparente d’ailleurs que réelle, et avec l’ouverture des frontières qui suivit la chute de l’Union soviétique, de nombreux auteurs bien connus, en sciences sociales comme en anthropologie, pensaient que l’idée de nation appartenait davantage au passé qu’au présent ou au futur. On croyait que les sociétés étaient devenues transnationales, à savoir qu’elles deviendraient plus fluides, ou comme le remarquait le philosophe Zygmunt Bauman, qu’elles allaient proprement se liquéfier (Bauman 2000) C’est la notion de transnationalisme qui apparaît le plus souvent pour indiquer la capacité personnelle ou collective de dépasser les barrières culturelles et les frontières nationales et de passer d’une appartenance et d’une identité à l’autre avec la plus grande facilité. Ceux qui adoptent l’approche du transnationalisme considèrent ainsi la société comme un œcoumène global dans lequel les individus aux identités devenues désormais nomades, vivent et interagissent dans des milieux cosmopolites (ceux que l’on appelle les ethnoscapes) marqués par l’hybridation et la créolisation culturelle (Appadurai 1996). Cependant, cette vision suggestive et optimiste, inhérente à l’utilisation du préfixe trans, ne semble adéquate que pour l’analyse de certains groupes minoritaires au statut social élevé, comme par exemple certaines élites migrantes dîtes aussi expats (managers allemands à Tokyo, opérateurs financiers américains à Hong Kong, correspondants de presse au Moyen-Orient, spécialistes en informatique indiens à la Silicon Valley, etc.). Vouloir étendre à la société globale cet aspect spécifique de la complexité culturelle, voire même lui donner une orientation normative, serait entreprendre une nouvelle et dangereuse réification de la vision utopique du métissage universel. En fait, la réalité est bien différente de ce scénario global si optimiste. Les guerres en ex-Yougoslavie ont mis en évidence déjà dans les années quatre-vingt-dix du siècle dernier que l’idée de nation était encore importante et que la fin de l’histoire évoquée par Francis Fukuyama (Fukuyama 1992), comme réalisation d’une unique société globale sans différences nationales, était bien loin de la réalité. A vrai dire les deux premières décennies du vingt-et-unième siècle ont vu, surtout en Europe, le retour inattendu de la nation avec la montée des mouvements régionalistes d’une part et du populisme nationaliste d’autre part, ce que l’on peut interpréter comme deux expressions et stratégies de la résistance contre certaines conséquences des processus de globalisation. Les premiers ont réinterprété le concept de nation pour des revendications régionales à l’intérieur d’entités pluriculturelles de vieille date (Catalogne et Ecosse s’opposant respectivement à l’Espagne et à la Grande Bretagne). Les seconds utilisent en revanche le concept de nation pour mobiliser la population contre les immigrants et les réfugiés, ces derniers étant considérés par les mouvements populistes comme une menace contre l’intégrité nationale.
APA, Harvard, Vancouver, ISO, and other styles
We offer discounts on all premium plans for authors whose works are included in thematic literature selections. Contact us to get a unique promo code!

To the bibliography